martedì 28 aprile 2015

Roma e il cantiere di Francesco

Francesco ha aperto un cantiere

by benicomuni
Maestro, scrittore, Roberto Sardelli è prima di tutto il "prete degli ultimi", una mosca bianca per la chiesa di Roma, noto per la sua scelta di vivere nei primi anni '70 tra i baraccati dell'Acquedotto Felice dove fondò la Scuola 725. Per questo il suo punto di vista sulle scelte di papa Francesco merita attenzione. "Sono un semplice prete che per cinquant’anni ha tenuto fede alla sua scelta degli ultimi. Se questo è poco, è quel poco che mi ha dato la forza di parlare e di gridare", scrive don Roberto nel libro, "Il neo di Francesco". Per i credenti e per la società "Francesco è una speranza storica che non possiamo lasciar passare aspettandone un’altra... La porta del cantiere è stata aperta da Francesco stesso. A noi il dovere di valicarla". Come? Prima di tutto con la rivitalizzazione, all'interno della chiesa, degli organismi di base, con la riscoperta del concetto di territorio, con l'impegno per la pace, con la riscoperta del ruolo di vescovo di Roma. Secondo don Roberto la visita del papa a Lampedusa ha segnato una rottura, "un momento alto e inquietante del suo servizio": in quei giorni papa Bergoglio è riuscito a imporre "uno stile più coerente che toglieva di mezzo e metteva in seconda fila gli apparati e le autorità e dava libero campo al contatto diretto con il popolo e con la tragedia migrante".
com
Foto tratta da combonianum.org
di don Roberto Sardelli
Introduzione*
Lo so, il tema “vescovo della diocesi di Roma”, per coloro che sono attratti o dalla ricerca o dal fascino del numinoso (e qui la religiosità popolare e i media si uniscono rafforzandosi a vicenda) è un argomento riduttivo che non li seduce. Ad essi parla più il “sommo” che l’“infimo”. Ma è proprio ciò, come se avessi avuto la vocazione ad essere Bastian contrario, che ha sedotto la mia vita: la seduzione di quel volto, di quei volti marciti nella sofferenza descritti dal profeta Isaia (52,14), perché è proprio in quegli sguardi che mi si è mostrata l’efficacia del crux probat omnia.
Allorché, cinquanta anni or sono, scelsi di mettermi a leggere la realtà dal loro angolo visuale, mi accorsi subito che non potevo continuare a parlare di periferie restandone fuori, avvertivo ciò come un’incoerenza che bisognava superare, costi quel che costi, mettendosi ben in mente che la periferia non era solo una categoria sociologica, ma una reale condizione di vita. In essa vivevano i periferici con i loro drammi, c’erano gli operatori culturali e sociali che, isolati, continuavano il loro impegno, c’erano preti e suore che della periferia avevano fatto la loro opzione esistenziale.
Ad uno di loro, don Sandro, lasciato solo nella sua coerenza, dedico questo scritto. La periferia, proprio per le sue condizioni di privazione era un bacino di creatività e di profezia per una società più equanime. Se smettiamo di credere in questa originalità che è la spina dorsale della memoria passionis legata ai bisogni del mondo sofferente, le nostre comunità e noi stessi moriamo per dissanguamento.
Questo lo ha ben compreso il nuovo vescovo Francesco. Molti, leggendo questo libro, saranno d’accordo sui contenuti o, almeno, diranno di condividerli, ma non sulla forma con la quale vengono esposti. È l’eterno problema del rapporto tra forma e contenuto che ha la sua importanza, ma che io non intendo risolvere in questa sede. Personalmente,insieme ai contenuti, ho imparato dai poveri anche la forma per esprimerli.Quest’ultima ragione spesso serve per non condividere la prima. Ma io da questa unicità cattedratica non intendo separarmi in alcun modo. Essa non usa linguaggi tanto sottili e ricercati quanto ambigui, ma diretti ed immediati e, per questo, sconvolgenti.
Il loro modo di parlare non si perde in pavoneggiamenti, non parlano “a nuora perché suocera intenda”, ma si rivolgono direttamente alla suocera. L’immediatezza del loro linguaggio è dovuta anche alla povertà lessicale da cui sono afflitti. È una delle prime cose di cui presi atto vivendo tra di loro, per cui mi impegnai a portar loro la ricchezza lessicale, ma non a scapito della immediatezza. Il Vangelo stesso ci ricorda l’essenzialità della parola, del dire “sì al sì e no al no” aggiungendo un grave avvertimento: “il resto viene dal maligno!”. In appendice ho creduto opportuno presentare in modo particolare alcuni documenti e lettere di corrispondenza che mi sono sembrate esplicative per la comprensione del testo stesso. Alcuni mi hanno suggerito di eliminare le poche citazioni in latino. Avrei potuto tradurle, ma nel momento in cui mi accingevo a farlo mi accorgevo che la traduzione tradiva il profondo significato che la citazione aveva nella lingua originale.
Inoltre alcune di queste brevi frase sono già di uso comune. La citazione in lingua latina evoca una storia e un pensiero che perderebbero nella traduzione. Dire Roma locuta est causa finita est è comprensibile solo rifacendosi al clima culturale e teologico diesaltazione parossistica del ruolo assolutista del papa durante il concilio Vaticano I.Una corrente fondamentalista del cattolicesimo odierno vorrebbe ridare vita al clima in cui quella definizione, fatta un secolo fa tra roventi polemiche, ebbe successo. Costoro non si accorgono che l’epoca dell’anathema sit è tramontata.
Oggi essa è percepita come indegna ed offensiva oltre che teologicamente inesatta, per cui Francesco stesso è alla ricerca per rimodellare il suo ruolo nell’ambito della collegialità e del decentramento. L’ultimo sinodo ne è stato un esempio non da fissare nel tempo come un pezzo museale. Da oggi in poi comincia la grande fatica di portarne il metodo e i contenuti in tutte le chiese locali e in tutte le parrocchie, specialmente nelle parrocchie romane di cui Francesco è il vescovo.
La sofferenza della chiesa di Roma
Con questo libro ho inteso riportare all’attenzione dei credenti e dei pensanti un tema che mi sembra sottovalutato e taciuto. è mia convinzione che nelle piccole comunità e chiese locali debbono rifrangersi, come in un caleidoscopio, le tensioni del mondo e della chiesa universale così come nella comunità più vasta e mondiale devono rifrangersi le tensioni che si vivono, spesso drammaticamente e in modo isolato, nella territorialità delle piccole comunità.
Un tale scambio intercomunionale non deve essere vissuto dagli stessi teologi in modo intellettuale. Questi, prima di essere degli intellettuali, devono ricordare di essere teo-logi, e il rapporto tra teoria e prassi va risolto con la chiave dell’ortoprassi che riguarda ed impegna tutti. Siamo convinti che la chiave del rinnovamento (aggiornamento) non è quella dei decreti e degli annunci, ma quella di un impegno nel concreto dove si agitano interrogativi inimmaginabili ai quali occorre dare risposte. Ed in ciò il teologo può riscoprire la sua funzione preziosa. Parlo di quella dialettica tra il “primo coraggio” (quello dell’analisi teorica) e il “secondo coraggio” di cui parla il grande teologo J.B.Metz avvertendo che il rinnovamento non si attua solo nel cervello, ma nella prassi trasformata della comunità dei credenti.
E qui registriamo una prima frattura dove il neo, non solo di Francesco, può prendere una piega pericolosa. “Vescovo di Roma” non è un titolo né una dignità, ma un peso, una funzione che se non funziona o funziona male, tutto l’ingranaggio si inceppa. Il tema “vescovo di Roma” non possiamo consegnarlo nelle mani di astratti progressisti o della ricerca storica e nemmeno è una questione che riguarda i cattolici romani. Questi sanno che è alla base del servizio pontificale che, sganciato dalla sua sede episcopale, è come un astronauta che naviga intorno al nostro pianeta. La sera della sua nomina Francesco ha avvertito subito tutto questo. Lo aspettiamo all’appuntamento sapendo bene che anche la secolare gestione vicariale del suo servizio episcopale deve essere radicalmente rivista. L’abitudine ad essa non ha chiuso la ferita, e ne soffriamo.
Perplessità e decisione
Fin da quando ho deciso di mettere mano a questo piccolo libro sono stato costantemente perplesso se scriverlo e portarlo a termine o depositarne l’idea nel ricco spazio dei ricordi. La domanda che tuttora mi pongo e questa: perché pubblicarlo? è un libro da dibattere, ma il dibattito nella e nelle chiese locali, attualmente, è in condizioni pietose. Non parlo del dibattito le cui premesse e le cui conclusioni sono nelle mani di coloro che hanno il potere di convocarlo, ma di dibattito che, restituendo la parola alla sua dignità lessicale, si svolge a più voci, spesso anche conflittuali, e le cui conclusioni non siano precostituite, ma il frutto di una mediazione in grado di arricchirsi della e nella diversità. Questo è il dibattito che alla base langue. Se avessi tenuto conto solo di ciò avrei dovuto porre termine al mio lavoro.
Ma a questo punto si sono fatti avanti i volti degli invisibili che per me sono stati sempre il “fischio di Dio” (Is. 7,18). Mi ha afferrato il loro imperativo: non tacere. Questo è l’universo nel cui crogiolo le istanze del nuovo si alimentano ed agiscono anche spes contra spem, incessantemente. E allora le perplessità, che mi hanno fatto e  continueranno a farmi compagnia, hanno lasciato il posto alla decisione.
best-house-rom-700x454
Il ruolo della correzione fraterna
Sbaglierebbe chiunque (e ce ne sono nella chiesa di bocche puerili, bigotte e pettegole!) leggesse questo libro testimonianza con la chiave del contro. Questo mestiere lo lascio ai pennivendoli di qualsiasi colore ed appartenenza abituati da sempre a “tirar quattro paghe per il lesso”. Io non sono un pennivendolo e né un curiale in carriera. Sono un semplice prete che per cinquant’anni ha tenuto fede alla sua scelta degli ultimi. Se questo è poco, è quel poco che mi ha dato la forza di parlare e di gridare, di unire la mia voce a quella dei disprezzati di qualsiasi genere e appartenenza sociale o provenienza.
Oggi, nella chiesa non c’è un eccesso di dibattito, ma di autoreferenzialità di chi, avendone il potere, sale in cattedra ben gratificato. La nudità di colui di cui siamo seguaci (nudus qui nudum sequi) non ci sconcerta, non ci inquieta più. La chiave di lettura esatta di queste pagine è quella della correzione fraterna che, spesso, non usa linguaggi melliflui e curialeschi, ma diretti e schietti. La correzione, il rimprovero fraterno affondano le loro radici nella tradizione ebraico-cristiana da Ezechiele a Matteo, ed esse non devono essere lette a senso unico, dall’alto al basso, ma anche dalla base verso il vertice perché è un diritto-dovere reciproco. Purtroppo il pietismo imperante ne ha limitato la pratica.
Francesco è I care
Per la chiesa cattolica e per le chiese cristiane Francesco è una speranza storica che non possiamo lasciar passare aspettandone un’altra, e né può trovarci spettatori, ma attori. è un momento kairòs in cui la grazia divina e le attese dell’uomo si incontrano. è un momento in cui si compie un evento non comune, l’inizio di una svolta o presenza di un segnale per svegliarsi. In questo contesto Il neo di Francescpuò essere manifestativo di una situazione di passaggio che sarebbe bene non rimuovere o sottovalutare o prolungare oltre il necessario. La porta del cantiere è stata aperta da Francesco stesso. A noi il dovere di valicarla.
Il neo è un fenomeno cutaneo che può evolvere in senso maligno o rimanere senza nuocere. Comunque sarà da prudenti tener presente e controllare periodicamente. Ai primi movimenti, anche solo morfologici, sarà da saggi intervenire per escludere peggioramenti pericolosi per l’intero corpo. Evidentemente il tema “vescovo della chiesa che è in Roma”, non interessa i media, ma io non l’ho scritto per loro,interessati più ai movimenti del papa che al suo operare da vescovo. Questa è una distinzione che loro non sono in grado di percepire, ma per la comunità cristiana e per tutti coloro che, pur non facendone parte, ne osservano la vita con rispetto e interesse, è fondamentale.
Se così non fosse non avrebbe alcun senso che Francesco sia stato nominato “papa” in quanto, e prima di tutto, è stato eletto vescovo della chiesa che è in Roma. In questo senso avrebbe avuto grande significato la decisione di Francesco di recarsi subito e prima di tutto nella sua cattedrale di San Giovanni in Laterano per presentarsi al presbiterio e al popolo dei fedeli. Il cerimoniale dell’insediamento ha stravolto tutto. L’elezione del papa non è un sacramento, quella del vescovo lo è. L’elezione del papa non imprime un carattere, quella del vescovo, sì. E tutto quel cerimoniale ridondante, alla presenza in seconda fila e dietro le transenne del popolo, ma in prima fila e in poltrona della corte secondo l’ordine ed i gradi, dei capi di stato e degli ambasciatori in feluca, va abolito perché dà una falsa immagine della chiesa.
papa-supermanAnche se i due ruoli, vescovo e papa, non sono e non possono essere separabili mi sembra necessario evidenziare il suo essere vescovo, il suo legame con un territorio e di questo assumerne la condizione. Vista la complessità e le dimensioni della chiesa, chi potrebbe pensare ad una decisione di separare i due ruoli ed affidare ad un vescovo la diocesi di Roma e collocare il papa nel suo ruolo? Una simile soluzione fu anche avanzata fin dal XIV secolo in un clima di definizione della giurisdizione papale per farne un assoluto svincolato dalla sede romana: “il papa ha un potere proprio” si disse. Senza evocare soluzioni estreme prive di sensibilità storica e teologica e senza suscitare polemiche anacronistiche, oggi occorre ripristinare una prassi di servizio episcopale che dia visibilità e concretezza a ciò che è chiaro solo intellettualmente. La vicaria non è una soluzione praticabile. Anche qui il diaframma che separa il “dire” dal “fare” deve essere abbattuto.
Il ripristino della grande tradizione sarà la fonte non solo del rinnovamento dell’organizzazione ecclesiale, ma anche di nuove relazioni con la cultura e la società. L’amplificazione del servizio papale ha oscurato quello del vescovo e dei vescovi di tutta la chiesa. Il papato con tutto l’apparato di poteri che l’ha connotato nei secoli ed ha alimentato il gusto del grandioso, ha urgente bisogno di essere rimodellato secondo il paradigma evangelico. È un’operazione lunga e paziente e mi sembra che Francesco vi abbia posto mano, ma il più è da fare, come abbiamo potuto vedere anche in questo periodo.
Il Brasile e Lampedusa
La visita ad una paese martoriato dall’ingiustizia e da antiche e nuove povertà come il Brasile, se fosse stata organizzata come la visita del vescovo della diocesi di Roma ad una chiesa sorella vessata da immense povertà, avrebbe potuto restituire luce al primato amorevole della diocesi di Roma nel concerto di tutte le chiese. Il suo presiedere nella carità non punta tanto sul papa quanto sulla chiesa, sulla comunità nel cui seno si è consumato il martirio di Pietro e Paolo. Questi due pilastri della chiesa nascente sono stati, per l’autorevolezza del loro insegnamento e per averlo sigillato con il martirio, punto di riferimento di tutte le altre comunità e tuttora, anche per le comunità separate da Roma. Esse non sono separate dal primato nella carità che continua a giocare nella nostalgia dell’incontro, ma da un ipertrofia papale che ne ha ombrato la tradizione. Questo è il grande lavoro che coinvolge la chiesa che è in Roma.
Il passaggio dalla chiesa romana unita al suo vescovo, al papa ha comportato uno squilibrio che ora è arrivato il momento di riportare nella sua dialettica iniziale. Non è una questione di dottrina e nemmeno una rivendicazione di poteri ma semplicemente un primato da seguire (munus) per il bene di tutti. Il servizio non soffoca e non oscura le altre chiese, ma le promuove e le rafforza nella loro identità. “Il mio onore è l’onore della chiesa”, (come diceva Gregorio Magno). Occorre rimanere in questo ambito perché travalicarlo, come è successo, non solo danneggia l’intera chiesa, ma fa di questa chiesa, di cui Francesco è vescovo, una chiesa pantofola ai piedi del papa.
Non siamo noi a doverci onorare del papa, ma è questi a onorarsi di noi uniti al nostro vescovo è da questo ritorno che ci aspettiamo la valorizzazione e la rivitalizzazione di quegli organismi di base come il collegio presbiterale e i consigli pastorali coinvolti con il vescovo nel governo quotidiano e nelle prospettive future della chiesa che è in Roma. I fedeli non sono come una massa di gregari affidata ad un conduttore, ma attori insieme al loro vescovo nel cammino della transumanza.
Certo, a questo cambiamento deve conseguire un cambiamento di logiche e di prospettive, e quella visita ne avrebbe acquistato in realismo a scapito di una spettacolarità da luci della ribalta contigui alla mondanità. C’è certamente un ruolo del papa nella chiesa, ma come vescovo. Il suo ruolo di papa nelle relazioni internazionali può essere assimilato a quello di altri organismi internazionali, ma quello di vescovo è unico e può essere svolto solo da lui. Non c’è nessuno che possa sostituirlo.
L’ipertrofia papale, che perseguita anche Francesco, che non la condivide, spesso ha velato gli stessi altri valori che riguardano il Regno di Dio e la vita della chiesa, che non si prestano ai gusti della spettacolarizzazione. L’amplificazione papale in alcuni momenti ha consentito il superamento di difficoltà nei rapporti ecclesiali, questo è avvenuto grazie all’essere vescovo di Roma e non può perdurare nelle dimensioni papali che ha assunto senza nuocere al movimento unitario. Il ripristino della esemplarità della sede petrina resta uno dei compiti base dell’impegno di Francesco. La durezza nel morire di alcune istituzioni sta a dimostrare che le istituzioni stesse hanno acquistato uno spessore capace di piegare la persona strumentalizzandola ai loro scopi.
Lampedusa si prepara per la visita di Papa Francesco
Comprendo la drammatica richiesta di Francesco: Pregate per me! Anche nelle relazioni internazionali egli deve portarsi dentro quell’afflato episcopale che è il fattore decisivo ed unico della sua missione. Il suo impegno, grande e generoso, per la pace, ne risulterà rafforzato, si tratta di quel quid di cui Giorgio La Pira parlava apertamente davanti ai potenti armati fino ai denti allorché dichiarava che dietro di sé, disarmato, aveva i poveri e i monasteri della suore di clausura in preghiera che erano consapevoli del perché pregavano.
La visita tempestiva del vescovo Francesco a Lampedusa segnò un momento alto ed inquietante del suo servizio. Qui, diversamente da quella in Brasile massacrata da una coreografia e scenografia mediatica spettacolare e vergognosa, Francesco riuscì ad imporre uno stile più coerente che toglieva di mezzo e metteva in seconda fila gli apparati e le autorità e dava libero campo al contatto diretto con il popolo e con la tragedia migrante.
Sarebbe bene che egli, nelle sue iniziative, si circondasse di consiglieri e di collaboratori in grado di capillarizzare il suo stile relazionale e non lo appesantisse con superfetazioni cortigiane. Se il l’entourage dei collaboratori, formati per ben altri servizi decorativi, viene a mancare, il vescovo rischia l’isolamento. La chiesa è un corpo ed un corpo vive solo se tutte le sue membra si muovono in armonia. Se un solo membro si muove e gli altri vanno in direzione inversa, il corpo giace e si immobilizza.

Tratto dall'intrduzione de "Il neo di Francesco" di don Roberto Sardelli, edito dalla Casa editrice Kurumuny.

Nessun commento:

Posta un commento