lunedì 30 novembre 2015

violenza?Parliamone

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Piccole considerazioni a margine di un discorso violento

Pubblicato: Aggiornato: 
PARIGI
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Piccole considerazioni a margine di un discorso violento. Perché si esercita una forma di inconsapevole violenza quando si dice (e molti lo dicono): avete pianto disperati per i vignettisti di Charlie Hebdo, avete versato fiumi di lacrime per i giovani che sonomorti al Bataclan mentre festeggiavano il venerdì sera con un concerto rock, e non piangete tutti i giorni quando i bambini siriani vengono bombardati, mentre vivono, mentre cercano di andare a scuola. Lo dicono, no? Li abbiamo sentiti. Ti fanno sentire in colpa perché, vedendo i cadaveri attorno ai tavolini di un ristorante economico nel cuore di uno dei luoghi della movida parigina, hai pensato a tuo figlio, che lo frequenta abitualmente. Ti fanno sentire un mostro di egoismo occidentale perché ti vengono in mente i tuoi affetti, mentre soffri per l'umanità. Ti vogliono insegnare come si soffre, quali sono le priorità corrette, ti dicono che i morti devono avere tutti lo stesso peso, i noti e gli sconosciuti, i simili e diversi, i vicini e i lontani, ed è certamente giusto. Devono avere lo stesso peso le morti dei giovani e dei vecchi, anche se i vecchi perdono percentualmente meno vita dei giovani. Dei ricchi e dei poveri, anche se i poveri hanno esistenze più grame.
È tutto vero. La pietà è un sentimento oceanico, non ha confini, si scarica con la forza di un'onda gigantesca, travolge le barriere del logos, investe l'intera condizione umana, così vulnerabile, così precaria, così costantemente minacciata. Quello che voglio dire è che, razionalmente, non c'è gerarchia, tutte le vittime accendono la nostra pena: le migliaia e migliaia di donne uomini e bambini che affrontano il mare, la potenza delle onde, la forza degli elementi, per raggiungere, su un gommone rattoppato, un sogno per loro quasi irrealizzabile che noi diamo tutti per scontato. Pace, libertà, lavoro, pane per i propri figli. Accendono la nostra pena i profughi che scappano da vite che immaginiamo, come i turisti, che se ne stanno seduti in aereo a leggere un libro tornando dalle vacanze al mare, come abbiamo fatto noi milioni di volte. E esplodono in volo.

Conosciamo la società del benessere, del superfluo necessario, abbiamo figli che lavorano all'estero come la ragazza di Venezia, quella bella e brava e buona, caduta al Bataclan. Frequentiamo i musei, i teatri e gli aeroporti. Quello che voglio dire è questo: non è per egoismo o etnocentrismo da corrotti occidentali che piangiamo per la figlia del vicino con lacrime così spontanee e per il profugo da terre lontane con un tempo di silenzio in mezzo, un tempo in cui cerchiamo di immaginare la sua vita. È normale. L'empatia funziona così, passa per l'identificazione. Non ci sono morti di serie "a" morti di serie "b", ci sono quelli che abitano sotto casa e quelli che stanno un po' più in là, nel mondo. L'unica differenza è fra il dolore e il lutto. Il dolore lo provi per chiunque soffra, se sei riuscito a restare umano. Il lutto lo vesti per i tuoi affetti, per quelli che ami, per quelli che conosci. Imparare a piangere per tutti è importante. È importante estendere il lutto, vestirlo per gli sconosciuti. Quando lo sapremo veramente fare, quando lo sapranno fare tutti, non ci saranno più guerre. Né terrorismi.

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