mercoledì 1 aprile 2015

Tunisia :necessaria la solidarietà

Tunisi. La solidarietà necessaria

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TUNISI
"Grazie. Grazie di essere qui. Grazie di essere venuti. Grazie di non aver creduto che fosse pericoloso. Grazie per aver superato la paura, di averci dato un segnale così forte ed importante di solidarietà e fratellanza". Ce lo dicono due giovani seduti accanto a noi nel ristorante dove trascorriamo l'ultima sera di una lunga settimana passata a correre da una parte all'altra dell'immenso campus di Al Manar, che dal 22 al 28 marzo ha ospitato prima i lavori del Forum dei Media Liberi, poi quelli del Forum Sociale Mondiale, in un colorato e delirante caos di associazioni, attivisti, tende, cortei improvvisati, musica e slogan, striscioni e cous cous offerto a tutti, ad ogni ora.
Avevamo solo chiesto loro una sedia, non un'intervista. Ma il clima del Forum contagia un po' tutti, riempie la strade del centro e resta nell'aria. È così che ogni occasione è buona per parlare di politica, o di messaggi forti da dare.
Come quello che migliaia di persone da tutto il mondo hanno voluto far arrivare al popolo tunisino, colpito nei giorni precedenti al Forum dall'attacco terroristico del Bardo, e timoroso che oggi quell'episodio provochi conseguenze ancora peggiori, e di più lungo periodo, sui destini di un paese che aveva appena iniziato a riprendersi dalla crisi economica.
Che aveva da poco ricominciato ad ospitare flussi turistici; che ancora deve lottare e combattere contro repressione e oppressione, portando avanti giorno dopo giorno gli obiettivi della rivoluzione che nel 2011 lo ha liberato.
"Siamo stati in prima linea nei giorni della rivoluzione", raccontano. "Abbiamo visto morire amici, fratelli, compagni. Non abbiamo mai abbassato la testa. E non abbiamo intenzione di fare un solo passo indietro, neanche oggi".
Quando ci chiedono da dove arriviamo, alla nostra risposta ripetono che "la Tunisia sarà sempre la vostra seconda casa", perché "siamo fratelli e sorelle, uniti dallo stesso mare".
Ed è stato proprio quel mare, quel Mediterraneo portatore di culture e commistioni, ad essere per noi il centro ideale di un lavoro che era necessario continuare a fare, pur con tutti i limiti e le contraddizioni che uno spazio come il Forum mostra, oggi più che mai, nel misurarsi con un generale che finisce per sacrificare il particolare.
Che finisce per togliere spazio a temi disperatamente pratici, reali, concreti. Che di soluzioni concrete e alternative avrebbero particolare bisogno.
È stato così che nel dibattito collettivo è mancata una presa di posizione comune per spiegare come la società civile altermondialista immagini di rispondere al fenomeno del terrorismo di Daesh. O quali siano i passi da compiere per sostenere rivoluzioni dimenticate, come quella siriana; o come affrontare l'enorme passo indietro che l'Egitto sta vivendo dopo la stagione rivoluzionaria, con il ritorno al potere di una dittatura militare che lancia una nuova sfida al popolo di piazza Tahrir. O, ancora, come declinare parole d'ordine che rischiano di rimanere vaghe comunioni d'intenti.
L'apertura porta con sé contraddizione, ed è normale che anche qui ce ne siano.
Basta guardare al sostegno mostrato da alcuni partecipanti al regime di Bashar al-Asad in Siria, e il suo volto stampato sugli striscioni accanto a quelli di Nasrallah e Saddam Hussein apre una ferita, comporta una riflessione necessaria.
O ancora, basta guardare ai tafferugli creati da una delegazione algerina che sostiene i vantaggi dell'estrazione del gas di scisto in un paese come la Tunisia che da anni vi si oppone. O all'insistenza di quella marocchina, che di diritti del popolo sahrawi proprio non vuole sentir parlare, e presenzia per interrompere laddove siano loro a prendere la parola.
Poi c'è la vastità, il caotico muoversi delle cose, la confusione data da migliaia di incontri, assemblee, temi, filoni, dibattiti e atelier: che stare dietro a tutto è impossibile, che per forza di cose sacrificheranno il pragmatismo, restituendo comunque l'impressione di essere arrivati nel centro di un enorme dibattito collettivo che con sfumature e volti diversi parla di diritti, dignità, libertà, lotte comuni.
Ancora oggi attuali e necessarie, perché sempre più grandi sono le sfide da affrontare.
Lo sanno bene i nostri amici iracheni, arrivati in gran numero a Tunisi insieme alla delegazione di Un ponte per... Sono partiti da Baghdad, come Nada, donna e giornalista. Due elementi che, combinati insieme nell'Iraq del 2015, raccontano da soli quanto la sua vita sia una quotidiana battaglia per l'affermazione. Per la parità di genere e per la libertà di parola, come racconta in un panel in cui giornaliste di tutta la regione si sono confrontate per ore.
Giungendo alla conclusione che la lotta delle donne è la stessa ad ogni latitudine, e che unire le forze con campagne regionali capaci di accorciare la distanza è l'unica risposta possibile.
Sono arrivati da Kurdistan iracheno, come Salar, che da anni lavora ad Erbil per costruire pace e convivenza. Non solo parole ma fatti: centri giovanili, workshop, attività umanitarie, costruzione di legami un giorno dopo l'altro: per aiutare migliaia di sfollati costretti a fuggire da Daesh, ma soprattutto per ricostruire quello che decenni di interventi occidentali nel paese hanno cercato di distruggere.
Quel patrimonio di culture e civiltà che l'Iraq è sempre stato, e che oggi cerca disperatamente di continuare ad essere. Perché "non è una guerra settaria o confessionale quella che viviamo", spiega, "questa è solo la rappresentazione semplificata che ne fanno i media".
C'è chi è arrivato per raccontare cosa significhi essere giornalista in una zona di conflitto, in cui alla minaccia di Daesh si devono aggiungere violenze, arresti, torture e intimidazioni da parte di governi corrotti che si sono succeduti nel tempo.
E sentirli parlare mentre una platea di attivisti arrivati da ogni parte del mondo li ascolta, restituisce la misura di quanto importante continui ad essere un appuntamento che troppo spesso è stato declassato a passatempo per pacifisti che si ostinano a credere in un altro mondo possibile.
È la società civile del mondo che riprende la parola, che dice la sua, che propone un punto di vista alternativo. Che di fronte alle crisi regionali dell'area rifiuta l'idea di nuovi interventi militari, i cui danni ancora si stanno pagando ad altissimo prezzo.
Che parla della necessità di affrontare alla radice le cause dell'estremismo, rispondendo alla violenza con parole come welfare, giustizia sociale, educazione, tutela del patrimonio culturale. Molto più che concetti astratti, ma tasselli fondamentali di un futuro migliore.
"Non credo che avrò modo di girare tutto il mondo, qui mi sembra di vederne un po'", ci racconta Husam, ezida della Piana di Ninive che l'estate scorsa dalle montagne del Sinjar osservava la sua terra mentre veniva conquistata dalle milizie di Daesh ("e credetemi, non erano più di 5 o 6 jeep", racconta, dando la misura di quanto sul campo la situazione sia più complessa di quanto non si creda).
Tramortito dal caos del Forum e un po' confuso, sorride soddisfatto mentre spiega che "essere qui è un privilegio e una fortuna. Ho parlato con tante persone, condiviso esperienze e punti di vista". Tornerà ad Erbil, dove è rifugiato con tutta la famiglia, più ricco di prima. E solo per questo sorride e ringrazia.
Alla grande manifestazione di apertura del Forum aveva voluto partecipare anche lui, "per dare un segnale di solidarietà al popolo tunisino". Ed è questa parola - solidarietà - a dettare i termini di una partecipazione necessaria. Perché non ci sono vite che contano più delle altre, ne' una dignità cui si debba avere più o meno diritto.
Ed è spesso la narrazione mediatica di quanto accade ad essere ago di una bilancia ormai distorta.
Lo rendono evidente i tanti dibattiti sul ruolo dell'informazione, sul giornalismo dal basso, sulla necessità di costruire relazioni tra sponde del Mediterraneo per imporre un'altra narrativa possibile, più vicina alla realtà, lasciando parlare chi ha qualcosa da dire, dando voce a chi non ne ha.

È stato questo un altro dei temi su cui abbiamo lavorato, partecipando a diversi momenti di condivisione e dibattito che hanno reso evidente quanto, dopo le rivoluzioni arabe, continuare a raccontare in modo diretto quanto viene vissuto nel Sud del Mediterraneo sia di importanza centrale.
Perché se una cosa è chiara dopo una settimana di lavori è che il fatto stesso che alcune realtà lottino sui loro territori è un punto di partenza.
Sapere che in Iraq come in Siria ci sono persone che ancora resistono, e che lo fanno rifiutando polarizzazioni e violenza, è una lezione appresa che dovrebbe arrivare lontano, alle orecchie dei politici come di quei media mainstream che tanti, in questi giorni, ci hanno pregato di non ascoltare.
E che le battaglie, a Nord e a Sud, sono le stesse.
Che le declinazioni possono cambiare, ma i diritti sono - o dovrebbero essere - uguali. Che le distanze sono artificiali, così come le identità e i confini. Che la nostra è spesso una libertà sprecata, data per scontata, abusata.
E che a separarci c'è solo un mare: per attraversarlo c'è voluto solo un istante.
Post di Cecilia Dalla Negra già pubblicato su Osservatorio Iraq

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