https://www.huffingtonpost.it/entry/un-tradimento-della-costituzione_it_5cf11322e4b0e346ce7c8e9b?utm_hp_ref=it-homepage
venerdì 31 maggio 2019
sulla Palmaria
UNO SCEMPIO
CHIAMATO CHIAMATO PALMARIA …..NO AL MASTERPLAN !
- costruzione di una monorotaia;
- costruzione di un anfiteatro dentro la cava;
- ristrutturazione di 54 immobili per farli diventare hotel per turismo d’élite:
- dopo questi interventi si stima che sarà visitata da 150 mila persone l’anno.
Chiaramente animati da una promozione
smodata e smisurata di interessi privatistici e di grandi gruppi che
vorrebbero mettere le mani sull'isola con l'ottica di stravolgerla ,
la giunta Toti vorrebbe celare dietro alla parola “riqualificazione
“ un impossessamento volto a distruggere di fatto l'esistente e
gestire un processo speculativo sigillandolo con un Masterplan .
Anzichè pensare che a seguito della
dismissione delle aree militari l'isola torni alla collettività che
possa essere patrimonio pubblico usufruibile da tutti , si preferisce
nettamente pensare a migliaia di persone sulla monorotaia, turisti
che vanno e vengono dagli alberghi, le merci che dovranno essere
trasportate, gli spettacoli in una cava che diviene anfiteatro, gli
ombrelloni sulla spiaggia, le feste…
L'isola non ha bisogno
di nessuna riqualificazione
… l'intenzione vera è quella di sfruttare un territorio
meraviglioso per interessi particolari ed esclusivi e con l'idea di
fatto perseguita di smantellare i parchi e soffocare con
l'affollamento turistico senza criterio ( e su una superficie modesta
) l'isola come se fosse un parco giochi .Nel contempo la strategia è chiara combattere per rendere inefficienti le aree dei parchi con il tentativo di cancellarli e usando la parola riqualifica implementiamo il turismo…. succederà come alle 5 Terre che c’è un’invasione così massiccia di turisti che si studia come limitarli, magari facendogli pagare dazi supplementari come a Venezia… così sono altri soldi che entrano, comunque sempre benefici per pochissimi a danno dell'intera collettività che potrà vedere l'isola con i binocoli...
La Palmaria deve essere tutelata e preservata per essere ammirata e goduta con un turismo sostenibile e compatibile con il territorio , persone che rispettano il mare e l'ambiente e sopratutto un patrimonio comune che torna nella disponibilità di tutta la comunità .
Il nostro coordinamento promuove la rete “GIU LE MANI DALLA PALMARIA “ cercando di dialogare con associazioni ambientaliste , ecologisti , cittadini e società civile che vogliono fermare questo scempio . Siamo pronti a elaborare una controposta sostenibile per il futuro dell'isola e chiamare democraticamente i cittadini a esprimersi sui progetti visto che La Palmaria è un patrimonio comune .
Coordinamento Verdi La Spezia e Sarzana
info 3292239928
giovedì 30 maggio 2019
mercoledì 29 maggio 2019
martedì 28 maggio 2019
carne e clima
Il risultato, quello nazionale almeno, delle elezioni europee disegna un’Italia distante dai temi ambientali e, sopratutto del cambiamento climatico. E’ inutile scoraggiarsi. Bisogna solo comprendere che non dobbiamo attenderci nulla dai partiti di massa e dai mezzi di comunicazione confindustriali che li sostengono. Loro guardano all’oggi, non al futuro come invece fa la nostra Greta Thunberg.
Dobbiamo comprendere, in definitiva, che, se vogliamo cambiare il mondo, dobbiamo rimboccarci le maniche e attivarci in prima persona. L’ampia partecipazione, lo scorso marzo e poi il 24 maggio, ai cortei per la difesa del Clima evidenzia che non siamo poi così in pochi.
Che fare quindi? Dobbiamo, semplicemente, impegnarci tutti quanti, singolarmente, ad attivare quei percorsi virtuosi che servono a difendere l’ambiente. Dobbiamo farlo noi, non aspettare che giunga un improbabile leggina del governo che ce l’imponga.
Ridurre i consumi di energia a casa, per esempio. Usare i mezzi pubblici piuttosto che l’auto privata. Ridurre i consumi di carne. Comprare a “chilometro zero”. Ridurre, più in generale, i consumi (che vuol dire poi creare rifiuti, da differenziare o meno).
Occorre realizzare un bilancio delle nostre attuale spese, della nostra “impronta ecologica”, darsi un obiettivo di riduzione (10-20%?) e monitorarlo mensilmente.
Cambiare stile di alimentazione: un bene per la salute e il clima
Il numero febbraio-marzo del magazine edito dall’Ordine dei Biologi (Bio’s), nella rubrica Atlante (pag. 4), riporta la sintesi di un interessante rapporto pubblicato dalla rivista inglese The Lancet: “Food in the Anthropocene”, Cibo nell’antropocene. Si tratta del risultato di uno studio che ha coinvolto una trentina di scienziati di sedici Paesi.
Secondo gli studiosi, «raddoppiando il consumo di noci, frutta, verdura e legumi e dimezzando quello di carne e zuccheri, ogni anno sarebbe possibile prevenire milioni di morti prematuri, ridurre sensibilmente le emissioni di gas serra e proteggere la biodiversità ambientale». Non a caso loro hanno chiamato questa dieta “planetary health”, la salute del pianeta: «altrimenti nutrire 10 miliardi di persone entro il 2050 con una dieta sana e sostenibile sarà impossibile», sostengono.
Nulla di nuovo. Una brochure della LAV, la Lega antivivisezione, precisa come «gli allevamenti intensivi siano responsabili dell’emissione in atmosfera di ben il 51% dei gas serra (GHG), soprattutto di anidride carbonica, metano e protossido d’azoto e quindi possano essere annoverati tra i maggiori responsabili del riscaldamento globale». La LAV fa riferimento ad un rapporto FAO del 2006, poi aggiornato.
In particolare, la LAV riporta come «nel caso del metano: il 72 % del metano totale derivante da attività umane emesso in atmosfera proviene sia direttamente dai processi digestivi dei ruminanti (bovini, ovini, caprini) che dall’evaporazione dei composti presenti nel letame […] L’evaporazione dei composti azotati dai fertilizzanti e dal letame, che ne è la seconda fonte, è responsabile della formazione di monossido di azoto, il più potente dei tre GHG per effetto riscaldante».
In definitiva, spiega la LAV, «sostituire 1 kg di carne a settimana fa risparmiare 1872 CO2 equivalenti in un anno, mentre sostituire una lampadina da 60 W con una a basso consumo 26».
Non consumare carne (e quindi anche salumi), o comunque consumarla solo una volta la settimana, propagandare tale stile di vita ai nostri amici e parenti, è un’azione concreta che possiamo fare per difendere il Clima del nostro Pianeta.
Al di la di cosa faccia e decida chi sta a Palazzo Chigi.
Approfondimenti:
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Inviato da: "Maurizio Dott. Benazzi" <maurizio_benazzi@libero.it>
contento lui
lunedì 27 maggio 2019
rifugiati in Etiopia
(Foto di Unicef)
Questa settimana la Goodwill Ambassador dell’UNICEF Priyanka Chopra Jonas ha effettuato una missione sul campo in Etiopia con l’UNICEF per incontrare i bambini rifugiati fuggiti dai propri paesi a causa di conflitti e crisi umanitarie.
Durante la missione, Chopra Jonas ha incontrato bambini e giovani che vivono nel campo di rifugiati di Bambasi, dove si trovano circa 17.000 rifugiati provenienti principalmente dal Sudan, e nei campi di Hitsats e Adi-Harush, dove vivono 55.000 rifugiati dall’Eritrea.
“I bambini sradicati dalle loro case a causa della guerra e delle catastrofi subiscono i maggiori disagi nella loro vita”, ha detto Chopra Jonas. “Mancano di istruzione, assistenza sanitaria e stabilità, il che li rende estremamente vulnerabili alla violenza, agli abusi o allo sfruttamento”.
L’Etiopia ospita circa 900.000 rifugiati – la seconda popolazione rifugiata più ampia in Africa. La maggior parte è stata costretta a lasciare le proprie case in Somalia, Sud Sudan, Eritrea, Sudan e Yemen. Molti erano alla ricerca di pace o di una vita migliore, hanno dovuto affrontare pericoli e discriminazioni lungo il percorso.
Presso la scuola primaria per rifugiati a Bambasi, Chopra Jonas ha incontrato Zulfa Ata Ey, di 8 anni, uno dei 6.000 studenti iscritti alla scuola. Come in molte altre scuole per rifugiati in Etiopia, a Bambasi c’è una grave carenza di classi, insegnanti e libri di testo.
Sia a Hitsats sia a Adi-Harush i campi, le scuole, i centri sanitari e altri servizi essenziali sono integrati e sono utilizzati sia da etiopi che da rifugiati eritrei. Al campo di Adi-Harush Chopra Jonas ha visitato un centro per il monitoraggio nutrizionale gestito dal governo e il vicino ospedale MayTserbi, entrambi utili sia per i rifugiati sia per i membri delle comunità ospitanti. Lì i bambini hanno accesso a cure per la malnutrizione e le madri ricevono le cure mediche necessarie.
L’UNICEF chiede ai governi di difendere i rifugiati e i richiedenti asilo adottando politiche che affrontino le cause per cui i bambini vengono sradicati dalle loro case, aiutino i bambini ad andare a scuola e a stare in salute, tengano le famiglie unite e dare ai bambini uno status legale, pongano fine alla detenzione di bambini rifugiati, combattano la xenofobia e le discriminazioni, e proteggano i bambini sradicati da sfruttamento e violenza.
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Inviato da: "Maurizio Dott. Benazzi" <maurizio_benazzi@libero.it>
sabato 25 maggio 2019
Nessuno tocchi Caino
NESSUNO TOCCHI CAINO NEWS
La newsletter a cura di Nessuno Tocchi Caino
Questo servizio e' realizzato nell'ambito di un progetto sostenuto dall'Unione Europea. Le opinioni espresse in questa pubblicazione non riflettono necessariamente quelle della Commissione dell'Unione Europea.
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Anno 19 - n. 21 - 25-05-2019
Contenuti del numero:
1. LA STORIA DELLA SETTIMANA : ROMA: NESSUNO TOCCHI CAINO E PARTITO RADICALE PRESENTANO IL LIBRO ‘BASTA DOLORE E ODIO. NO PRISON’
2. NEWS FLASH: L’OPINIONE PUBBLICA E’ UNA VALIDA RAGIONE PER NON ABOLIRE LA PENA DI MORTE? UN’ANALISI COMPARATIVA DI SONDAGGI IN OTTO PAESI
3. NEWS FLASH: GIAPPONE: CONDANNA A MORTE DIVENTA DEFINITIVA
4. NEWS FLASH: INDONESIA: FRANCESE CONDANNATO A MORTE PER TRAFFICO DI DROGA
5. NEWS FLASH: VIETNAM: 10 CONDANNE A MORTE PER TRAFFICO DI DROGA
6. I SUGGERIMENTI DELLA SETTIMANA : DONA IL 5 X 1000 A NESSUNO TOCCHI CAINO
ROMA: NESSUNO TOCCHI CAINO E PARTITO RADICALE PRESENTANO IL LIBRO ‘BASTA DOLORE E ODIO. NO PRISON’
Nessuno Tocchi Caino e il Partito Radicale presentano il libro “Basta dolore e odio. No Prison” di Livio Ferrari e Massimo Pavarini, Apogeo Editore, venerdì 31 Maggio, ore 10.30 sala conferenze del Partito Radicale - Via di Torre Argentina, 76 Roma.
“Il dire no al sistema carcerario deve essere compreso nel senso che la prigione non è ciò che si crede sia, infatti non è parte della soluzione al problema del crimine ma è parte del crimine stesso.”
Mai come oggi, mentre si dichiara la fine della Storia, avvertiamo il bisogno di utopie.
Ipotizzare una società senza prigioni sembra essere tra le più provocatorie e irrealizzabili, ma non avremmo potuto proiettare e realizzare società alternative, ad esempio senza schiavitù, pena di morte e con i diritti umani fondamentali riconosciuti universalmente, se non vi fossero state visioni impossibili per futuri migliori.
Sarà presente:
Livio Ferrari, giornalista, scrittore e autore del manifesto "No Prison"
Intervengono:
Rita Bernardini, Presidente di Nessuno Tocchi Caino e coordinatrice PRNTT
Lucia Ercoli, medico, responsabile dell’Associazione Medicina Solidale Elisabetta Rampelli, avvocato, presidente dell'Unione Italiana Forense
Elisabetta Zamparutti, tesoriere di Nessuno Tocchi Caino e presidenza PRNTT
Padre Guido Bertagna, sacerdote gesuita, mediatore in percorsi di giustizia riparativa
Pastore Stefano Bogliolo, Chiesa Evangelica Valdese, volontario in carcere
Sergio D'Elia, segretario di Nessuno Tocchi Caino, coordinatore Presidenza PRNTT
Loris Facchinetti, scrittore, segretario del Tribunale delle Libertà Marco Pannella
Per saperne di piu' :
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NESSUNO TOCCHI CAINO - NEWS FLASH
L’OPINIONE PUBBLICA E’ UNA VALIDA RAGIONE PER NON ABOLIRE LA PENA DI MORTE? UN’ANALISI COMPARATIVA DI SONDAGGI IN OTTO PAESI
Roger Hood- Berkley Journal of Criminal Law
Lo scopo di questo articolo è di fare luce sul tema della pena di morte partendo dai risultati dei sondaggi di opinione condotti in otto paesi mantenitori (di seguito indicati) che hanno continuato a sostenere che l'abolizione non sia fattibile a causa della profonda contrarietà dell’opinione pubblica ad essa. Basandosi su ricerche precedenti, principalmente condotte negli Stati Uniti, queste indagini hanno tentato di valutare non solo le dimensioni ma anche la forza dell'opinione pubblica a favore della pena di morte e il livello di effettiva opposizione alla sua abolizione; in che misura l'opinione si basi su solide conoscenze circa l'uso e l'amministrazione della pena di morte; se i cittadini siano "in generale" favorevoli alla pena capitale o il loro sostegno sia condizionato dalla gravità delle circostanze particolari del reato, compresi i fattori aggravanti e attenuanti; e quale livello di sostegno esista per una condanna a morte obbligatoria piuttosto che discrezionale.
Le indagini hanno anche esaminato in che misura gli intervistati fossero fermi nelle loro opinioni o fossero disposti a cambiarle di fronte a nuove informazioni sull'efficacia della pena di morte e sulla sua applicazione: ad esempio prove scientifiche sugli effetti deterrenti delle esecuzioni; la disponibilità di punizioni alternative soddisfacenti o politiche di giustizia sociale e penale; l'esistenza della possibilità di errore che porti all'esecuzione di persone innocenti; e la misura in cui l'opinione sia influenzata dalla consapevolezza delle tendenze internazionali verso l'abolizione in altri paesi. In particolare, diversi sondaggi hanno tentato di confrontare l'opinione immediata, in risposta alla domanda sul favore o meno alla pena di morte, con decisioni prese quando ci si trova di fronte a esempi pratici di casi capitali e si deve decidere se meritino o meno la pena di morte. Questo metodo ci permette di verificare se i cittadini che vivono in diversi paesi mantenitori es
primano giudizi sostanzialmente diversi per quanto riguarda il loro livello di sostegno all’applicazione della pena capitale, il che potrebbe costituire, come sostengono i loro governi, un ostacolo alla sua abolizione.
Gli otto sondaggi di opinione hanno tutti utilizzato una metodologia molto simile, spesso hanno posto esattamente le stesse domande e sono stati tutti svolti nell'ultimo decennio. L'autore è stato responsabile per la progettazione, l'analisi e la comunicazione di due di essi e ha agito come consulente degli autori per altri quattro. Pertanto, è stato possibile un notevole livello nel confrontare i risultati. I paesi e la dimensione dei campioni da cui sono tratte le evidenze sono stati: Repubblica Popolare Cinese, Trinidad, Malesia, Singapore, Taiwan, e Ghana, più due in cui l'autore non ha avuto alcun ruolo: Giappone e Bielorussia.
Presi insieme, i risultati di questi sondaggi di opinione condotti in otto paesi mantenitori, non giustificano l’affermazione dei loro governi secondo cui il sostegno al mantenimento della pena di morte sia così forte da fungere da barriera alla sua abolizione. Né i risultati confermano l'affermazione secondo cui gli atteggiamenti verso la pena capitale siano così diversi tra gli stati, a seconda delle particolari influenze culturali e sociali, e che i governi siano giustificati nel considerare la questione della pena capitale come una questione che debba essere determinata solo da considerazioni sui bisogni della propria politica giudiziaria penale dopo aver "preso pienamente in considerazione i sentimenti del proprio popolo" piuttosto che una questione da risolvere aderendo alle norme internazionali sui diritti umani.
In effetti, tutte queste indagini hanno rivelato il livello molto limitato di conoscenza che la maggior parte dei cittadini possiede riguardo alla pena di morte in teoria e in pratica nel formare la propria opinione e che solo una minoranza si sente "fortemente" a favore o contraria alla sua abolizione. Le opinioni favorevoli dipendono dalla convinzione che la pena di morte sia amministrata in modo equo, senza possibilità di errore che conduca all'esecuzione di un innocente. Quando agli intervistati è stato chiesto se avessero approvato la pena di morte in caso fosse dimostrato che persone innocenti sono state giustiziate, il sostegno è crollato da nove su dieci a solo un terzo. C'era un notevole grado di concordanza tra i giudizi, formulati da intervistati di diversi paesi, sull'opportunità di imporre una sentenza di morte quando venivano presentati scenari di casi reali. In ogni indagine in cui questa tecnica veniva impiegata, solo una minoranza approvava la pena di morte quand
o erano presenti circostanze attenuanti. Anche in casi con fattori aggravanti, la percentuale di scelta della pena di morte è considerevolmente inferiore alla percentuale che aveva sostenuto la pena capitale "in astratto". Nei paesi in cui la pena di morte rappresenta la punizione obbligatoria, il sostegno per essa risulta molto basso quando gli intervistati devono affrontare casi giudiziari con circostanze di fatto differenti. Hanno ammesso che trattare tutti i casi come se fossero di uguale colpevolezza costituirebbe un’ingiustizia.
La forza dell'opposizione all'abolizione è stata messa in discussione anche quando agli intervistati è stato chiesto se avessero accettato una pena alternativa di ergastolo, variabile nella sua gravità e lunghezza, al posto della pena capitale. Questo ha dimostrato che sebbene la morte fosse stata considerata una punizione appropriata in teoria, non era l'unica punizione appropriata che la maggioranza degli intervistati avrebbe accettato. Infatti, una delle scoperte più notevoli è stata che, quando è stato chiesto di confrontare la probabile efficacia di cinque politiche sociali e di giustizia penale volte a ridurre i crimini violenti che portano alla morte, "un numero maggiore di esecuzioni" è stato classificato al primo posto solo da una piccola minoranza e classificato ultimo dalla maggior parte degli intervistati.
Così, i risultati hanno rivelato che il bilanciamento di opinioni, valori e giudizi sulla pena di morte, fatta dagli intervistati in paesi mantenitori appartenenti ai Caraibi, Asia, Africa ed Europa orientale, lungi dall'essere specifici per paese e unici, erano basati su norme comunemente condivise. Inoltre, in ogni paese, le opinioni sulla pena di morte, a suo favore o contrarie alla sua abolizione, sono molto più sfumate e moderate di quanto i governi apparentemente credano o siano disposti ad accettare. Non sorprende quindi che Frank Zimring e David Johnson abbiano concluso, dalle loro riflessioni sull'indagine sull'opinione pubblica in Cina, che:
. . . l'opinione pubblica sembra tollerare cambiamenti sostanziali nella politica di esecuzione nonostante il sostegno generico alla pena di morte in astratto. I cambiamenti nella politica sulla pena di morte del governo sono raramente ispirati dal sentimento pubblico e gli sforzi del governo per cambiare la politica sono generalmente tollerati dai cittadini.
Certamente, l'opinione pubblica non dovrebbe essere utilizzata come giustificazione per il mantenimento di una punizione crudele, inumana e degradante.
Per leggere l'intero articolo usa il link riportato sotto:
Per saperne di piu' : http://www.handsoffcain.info/documento/is-public-opinion-a-justifiable-reason-not-to-abolish-the-death-penalty-a-comparative-analysis-of-surveys-of-eight-countries-50305545
GIAPPONE: CONDANNA A MORTE DIVENTA DEFINITIVA
Avendo ritirato il suo ricorso, la condanna a morte è diventata definitiva per un uomo di 49 anni riconosciuto colpevole dell’omicidio nel 2015 di due studenti delle scuole medie nel Giappone occidentale, ha comunicato un tribunale il 21 maggio 2019.
Koji Yamada ha ritirato l'appello il 18 maggio, ha reso noto l'Alta corte di Osaka.
Durante la prima udienza del suo processo al tribunale distrettuale di Osaka nel novembre 2018, Yamada negò l'intenzione di uccidere Natsumi Hirata, 13 anni, e si dichiarò non colpevole per la morte del dodicenne Ryoto Hoshino, legando la sua morte a una malattia.
Il tribunale distrettuale ha condannato a morte Yamada il 19 dicembre, riconoscenolo colpevole di aver soffocato i due ragazzini intorno al 13 agosto 2015, nella prefettura di Osaka o nelle sue vicinanze.
Non è chiaro il motivo per cui Yamada abbia ritirato l'appello.
(Fonti: Japan Today, 21/05/2019)
Per saperne di piu' :
INDONESIA: FRANCESE CONDANNATO A MORTE PER TRAFFICO DI DROGA
Un cittadino francese è stato condannato a morte in Indonesia per traffico di droga dopo essere stato arrestato con quasi 4 kg di droga nel suo bagaglio. Si tratta di Félix Dorfin, originario di Béthune negli Hauts-de-France, che era stato arrestato alla fine di settembre all'aeroporto di Lombok con diversi tipi di droghe tra cui cocaina, ecstasy e anfetamine, nascosti in una valigia a doppio fondo.
(Fonti: tellerreport.com, 20/05/2019)
Per saperne di piu' :
VIETNAM: 10 CONDANNE A MORTE PER TRAFFICO DI DROGA
Il Vietnam ha condannato a morte 10 persone per aver trafficato nel Paese metanfetamina, ketamina ed ecstasy usando i treni, secondo quanto riferito dai media di stato il 17 maggio 2019.
La banda avrebbe trasportato 300 kg di droghe dal Vietnam settentrionale al centro economico meridionale di Ho Chi Minh City tra il 2015 e il 2016, secondo i media statali.
Cinque uomini e cinque donne hanno ricevuto la pena di morte al termine del processo di questa settimana ad Hanoi, mentre altri due imputati sono stati condannati all’ergastolo.
"I due capobanda sono stati pagati centinaia di migliaia di dollari", per trafficare la droga, ha riferito il sito di notizie Vietnamnet.
(Fonti: Afp, 17/05/2019)
Per saperne di piu' :
Ada Colau da Maurizio Benazzi
Quest'articolo è disponibile anche in: Spagnolo
Ada Colau / Sindaco di Barcellona
La prossima settimana uscirà Ada Colau, la ciudad en común (Ada Colau, la città in comune, n.d.t.), un libro scritto dallo storico e collaboratore di CTXT Steven Forti e dal giornalista italiano Giacomo Russo Spena, che ripercorre la storia di Ada Colau e Barcelona en Comú. Dalle proteste in piazza del 15-M, la Piattaforma di Interessati dall’Ipoteca e la nascita di Guanyem Barcelona fino alla vittoria alle municipali del 2015 e la gestione del municipio della Città di Condal. Una visione ampia e profonda del progetto municipale che guarda anche più in là della città: a tutta la Catalogna, alla Spagna e all’Europa, tessendo alleanze tra lo stato, gli altri Comuni del cambiamento e le reti internazionali con esperienze municipali nate dal basso nei cinque continenti. Il libro si chiude con una lunga intervista al sindaco di Barcellona. Ve ne proponiamo qui una parte, come anteprima editoriale.
Le istituzioni ti hanno cambiato? Sei la stessa Ada Colau di quella che era portavoce della PAH?
Si, sono la stessa persona, con gli stessi obiettivi. Ma ovviamente non ho la stessa responsabilità né la stessa esperienza. Quando sei un’attivista ti trovi in un luogo molto concreto, difendendo nel mio caso il diritto delle persone imbrogliate dalle banche e minacciate di sfratto: esigi che le amministrazioni pubbliche facciano bene il loro lavoro e si mettano dalla parte delle persone e non dei carnefici. Invece, quando diventi sindaco, devi cercare di generare consenso, sei responsabile del fatto che l’amministrazione funzioni il meglio possibile e della rappresentanza dei diritti di base della maggioranza della popolazione, che sia d’accordo o no con te. Il luogo è molto diverso e ti cambia un po’. Impari molto: è qualcosa che ti arricchisce, ma al contempo ti limita perché, da sindaco, non hai tempo di stare vicino ai problemi più gravi di ogni giorno e di poter approfondire un tema. Una delle cose che mi è costata di più è che all’improvviso devi interessarti di tutti i temi. All’inizio avevo un complesso di superficialità terribile: da anni lavoravo per il diritto alla casa, ero molto centrata su un tema, e ad un tratto mi ritrovavo in un solo giorno in un evento di musica, di sport, di economia. È qualcosa che si impara con l’esperienza.
Stai quasi per terminare il tuo primo mandato da sindaco. In totale onestà, hai qualche autocritica su quello che hai fatto? Cosa si poteva fare meglio e dove chiederesti una seconda opportunità agli elettori?
Autocritica sempre. Da un lato, sono orgogliosa del fatto che il gruppo di governo abbia fatto un lavoro titanico in un contesto difficile. Noi non solo eravamo nuovi, ma siamo anche entrati in uno dei contesti storici più difficili della storia democratica del paese. E nonostante ciò, abbiamo potuto sviluppare il programma politico che proponevamo: abbiamo cambiato le priorità della città, abbiamo introdotto temi che sembravano impossibili, come la regolamentazione del turismo, la promozione di un operatore energetico municipale o la destinazione del 30% degli immobili privati ad abitazioni sociali. Adesso rimane ancora tantissimo da fare, certo. Alcune cose dipendono da noi, e pertanto bisogna fare un po’ di autocritica. Per esempio, il primo anno abbiamo tardato a posizionarci e a cambiare gestione perché eravamo nuovi. Abbiamo avuto bisogno di quasi un anno per capire bene come funzionasse l’amministrazione: una cosa è decidere di fare qualcosa, un’altra è che si realizzi. Affinché si realizzi bisogna avere capacità di gestione e conoscenza dei procedimenti. Abbiamo dimostrato di avere capacità di apprendimento. Altra autocritica: credo che abbiamo fatto degli errori con la cultura. E questo mi dispiace perché per noi è un tema importantissimo: dico sempre che i veri cambiamenti sono culturali più che politici. Puoi decidere di cambiare le politiche pubbliche, ma affinché ci siano cambiamenti profondi devono essere sociali, di valori, di priorità, di punti di riferimento. E per questo la cultura è basilare, soprattutto in un momento di tante incertezze e oscurità. La gente ha molte paure, e a ragione, non sa se avrà lavoro o no, se perderà la casa o no, se andrà in pensione o no. In un contesto come questo credo che la cultura sia fondamentale per essere capaci di immaginare altri mondi possibili, far risaltare ciò che di positivo ci unisce e porre la sensibilità al centro del nostro pensiero politico e sociale. Mancava molto più che una gestione più trasparente. Credo che siamo anche stati capaci di correggerci: con la nomina di Joan Subirats e la Biennale del Pensiero, alla fine del mandato si è visto che possiamo fare di meglio. In un secondo mandato si potrebbe progettare con molta più forza.
Qual è la tua opinione sul sistema dei partiti dopo quattro anni nelle istituzioni?
È peggio di quello che pensiamo. È profondamente deprimente. Non voglio mentire. I grandi partiti politici in generale hanno molti vizi acquisiti e davvero la loro priorità è vincere le elezioni: non è governare per il bene comune e la città, non è il benessere della gente. Ci sono brave persone da tutte le parti, non voglio demonizzare nessuno, ma il sistema dei partiti è orribile. Nel quotidiano c’è una lotta dei partiti. Vedi gente che ti dice una cosa in privato, che è d’accordo con te e dopo in pubblico ti dice che sei il peggiore del mondo e votano contro il loro stesso programma solo per affossarti. Non è un aneddoto: nelle istituzioni si perdono ore e ore di tempo ed energie dentro commissioni, assemblee, dove l’unica cosa che sta pensando l’opposizione in linea generale è posizionarsi bene per le prossime elezioni. E questo degrada molto la politica, l’istituzione, l’interesse generale, la democrazia e il fatto che la gente possa sperare in quello che succede dentro le istituzioni. […]
A maggio nessuno avrà la maggioranza assoluta. Sta pensando a qualche alleanza? I socialisti possono essere un referente politico, soprattutto dopo l’arrivo di Sanchez alla Moncloa?
Ci presentiamo con la speranza di vincere e magari con più appoggio rispetto alle elezioni precedenti. È certo che l’epoca delle maggioranze assolute è finita: la società è plurale e diversa, ed è normale che ci siano patti e alleanze. Noi siamo sempre stati onesti. Abbiamo sempre detto le stesse cose dal principio e continuiamo a dirle per il secondo mandato: siamo una forza progressista ed è logico che parliamo con le forze con le quali abbiamo più punti in comune, ovvero PSC e ERC. Ma non è molto chiaro verso dove sono orientati. ERC governa con la destra da anni, approvando bilanci di tagli e austerità insieme a un partito che si porta dietro casi gravissimi di corruzione. Il PSC purtroppo negli ultimi anni ha avuto una deriva che lo ha portato ad allearsi persino con PP e Ciudadanos sul 155. Non voglio che restino lì: il nostro messaggio è ancora positivo. Voglio che ERC smetta di fare accordi con la exConvergencia e torni al suo programma progressista. E voglio che il PSC la smetta di flirtare con Ciudadanos e torni ad essere il partito catalanista progressista che era. Credo che noi rappresentiamo un incentivo affinché entrambi diano priorità alla loro anima progressista piuttosto che ad altri criteri. Inoltre lo abbiamo dimostrato: ogni volta che loro hanno voluto accordarsi in questa chiave, noi c’eravamo.
Se Barcelona en Comù non fosse il primo partito, cosa farà? Ada Colau reggente di un altro municipio o all’opposizione nel consiglio municipale? Facciamo fatica a immaginarlo.
Sono qui per un progetto collettivo, non per un progetto personale. Se sono arrivata fino a qui, è perché sono all’interno di un’organizzazione che non è un partito tradizionale. Barcelona en Comú è un’organizzazione che funziona davvero in modo diverso, che è piena di gente di quartiere, auto organizzata, che da senso a questo progetto che va molto più in là dell’istituzione. L’ho sempre detto: sono qui perché sono utile a questo progetto. Non ho problemi a immaginarmi una vita diversa. Ho fatto mille lavori nella mia vita, ho migliaia di libri da leggere accumulati in casa, ho due bei bambini piccoli che vedo molto poco. Non mi preoccupa il futuro. E questo è positivo: mi sento libera. L’unica cosa chiara era presentarmi per un secondo mandato perché consideriamo utile che io sia la candidata di questo progetto di confluenza al fine di consolidare un’agenda di cambio a Barcellona.:un’agenda che mi sembra importante per la città e i suoi cittadini, e che sempre di più è un riferimento internazionale. È sconvolgente viaggiare per il mondo come sindaco della città di Barcellona e vedere il riconoscimento che c’è. Siamo in un momento di regressione dei diritti e libertà, da Trump a Bolsonaro, a Salvini, a Le Pen, a Orbán: il contesto è molto difficile e le politiche trasformatrici e di cambiamento impressionano. Ci guardano come riferimenti utili ad animare altri progetti. Così, credo che dobbiamo fare tutto il possibile per essere utili a questo processo, che è collettivo a Barcellona ma che lo è anche in ambito internazionale. L’estrema destra si sta organizzando molto velocemente, in modo molto efficace e con molto denaro a livello internazionale: non può essere che anche noi, proposte trasformatrici, progressiste, di cambiamento, non ci organizziamo. Oggi Barcellona è un riferimento importante e credo che abbiamo questa responsabilità. Un programma che miri al cambiamento ha bisogno di due mandati per far sì che questi cambiamenti si consolidino: mi sono sempre immaginata un secondo mandato, ma non ho mai pensato più in là.
Se pensiamo a Salvini, a Le Pen o a Orbán, loro ottengono voti proprio grazie alle loro campagne securitarie contro gli stranieri, dando una risposta ai cittadini che chiedono sicurezza e protezione sociale. Come disattivare questa strategia che al momento sembra egemonica?
Penso sempre al caso di Riace e del suo sindaco Mimmo Lucano. È la dimostrazione di quello che si può fare anche con poche risorse e in un luogo appartato dal mondo sul quale non cade l’attenzione mediatica. La sua esperienza ha una forza universale grazie a un’attitudine onesta, ad alcune priorità chiare e a una decisione etica in difesa di una politica umana. Per questo ha sollevato la virulenza di Salvini: Salvini ha reso un umile sindaco di un piccolo paesino suo antagonista perché ne riconosce la forza di rappresentazione universale. Ma Riace dimostra anche qual è la forza del municipalismo: si possono fare molti discorsi sulla paura e sull’odio, ma Mimmo Lucano dimostra in pratica che l’accoglienza non solo non è un problema, ma che se viene fatta bene, è una ricchezza e migliora la vita della gente locale, non solo dei migranti. Tutti insieme, miglioriamo insieme. Questo smonta completamente tutta la narrazione dei Salvini, dei Trump e dei Le Pen. Comprendo che viene perseguitato perchè li smaschera: con la pratica concreta di Riace mostra effettivamente che tutta questa narrazione è una menzogna. Per questo fin dal primo giorno abbiamo voluto che Barcellona si convertisse in una città rifugio.
Le elezioni in Andalusia mostrano come anche in Spagna avanzi l’estrema destra. Come si fa a fermare questo vento nero che soffia in tutta Europa? Sei d’accordo con Pablo Iglesias che parla di “fronte antifascista”?
La realtà che affrontiamo è complessa. Bisogna evitare di cercare spiegazioni uniche e ricette magiche per farvi fronte. Abbiamo bisogno di serenità e complessità. Ho sempre detto che si deve rivendicare l’antifascismo come nostra base democratica: non c’è democrazia senza antifascismo. Detto questo, non credo che adesso sia molto utile contrapporre bandiere antifasciste ai neofascismi e all’estrema destra che emerge: nominandoli e mettendoli al centro sembra che crescano, si sentono orgogliosi. Se riconosco che provengo da una tradizione non solo progressista e di sinistra, ma che inoltre considera che essere democratici significa essere antifascisti, non credo che il quadro organizzativo e narrativo che dà coesione debba ruotare intorno a questo.
Quale dovrebbe essere?
Ha molto a che vedere con ciò che abbiamo progettato a partire dal municipalismo. Quando abbiamo progettato Barcelona en Comú, abbiamo dibattuto sull’opportunità di presentarci o no alle elezioni statali, e abbiamo preso la decisione politica, dopo averci molto riflettuto, di scommettere sul municipalismo. Dopo questi quattro anni riaffermiamo questa decisione: siamo convinti che il municipalismo sia più importante che mai. Le città stanno diventando attori sempre più importanti nel mondo globale: contiamo la massima popolazione mondiale e le grandi sfide globali si concretizzano nelle città, a partire dai cambiamenti climatici e dalle disuguaglianze. Ma questo non è tutto. Le città sono anche il luogo dell’innovazione politica: il luogo della vicinanza e della vita quotidiana. L’Altro non è un’astrazione: è il mio vicino, lo conosco, non lo vivo come una minaccia ma come una ricchezza, una convivenza che funziona. Portiamo i bambini alla stessa scuola, compriamo negli stessi negozi, ci organizziamo insieme nel quartiere quando sorge qualche problema o c’è una necessità cui non viene data risposta. È questo luogo di prossimità, di vita quotidiana, dove identificare gli obiettivi comuni per una vita migliore. Questo è quello che ci ha fatto nascere come Barcelona en Comú: volevamo realizzare una piattaforma cittadina sulla base di obiettivi comuni, dove molta gente che non era mai stata in un partito politico si sentisse a proprio agio e sentisse che parliamo di quello che interessa loro senza dover venire con una tessera in mano per partecipare politicamente. Molti dei grandi discorsi dell’estrema destra si possono smontare a partire dall’esperienza, non dal confronto retorico. E il luogo dell’esperienza è la città, è il municipalismo. Ero già una municipalista convinta quando abbiamo iniziato, ma quattro anni dopo e con la deriva a cui assistiamo, lo sono ancora di più.
In tutto il mondo crescono i movimenti di donne che chiedono più diritti. Il femminismo può essere anch’esso uno strumento chiave per vincere l’estrema destra?
Assolutamente. Questo è il secolo delle città e delle donne. Il femminismo ha a che fare con il municipalismo: propone che i cambiamenti debbano prodursi nell’ambito della vita. La sfera personale è politica. La politica patriarcale si occupava di macro-politica e non si interessava delle questioni della cura e della riproduzione. La stragrande maggioranza della nostra vita restava invisibilizzata e in mano alle donne perché gli uomini si tenevano la vera politica. Questo sistema è chiaramente in crisi.
E’ vero che l’estrema destra cresce in reazione a questa ondata femminista globale, ma questo fa parte della normalità: quando c’è un processo di cambiamento, chi ha privilegi resiste sempre. Una parte di questi uomini bianchi privilegiati si vedono minacciati e reagiscono. Ma ci sono anche molti uomini che vedono una grande opportunità nel femminismo perché non gli piace la mascolinità che hanno costruito per loro. Credo in un femminismo inclusivo ed empatico, che non disprezzi la diversità, ma la veda come una ricchezza; un femminismo che pensi a tutti e a tutte; un femminismo che sia antirazzista, anti-colonialista, antiomofobo, che generi molti ponti e molte reti tra lotte diverse che hanno in comune l’uguaglianza, la libertà, i diritti umani. Il femminismo è una questione di giustizia: noi donne siamo la metà della popolazione, non dobbiamo vivere nella paura, sotto la minaccia di essere stuprate e uccise, e abbiamo lo stesso diritto di scegliere qualsiasi professione e di stare in tutti i luoghi di decisione. Ma il femminismo non è solo una questione di giustizia di genere, è un’opportunità per vivere meglio tutti: donne e uomini. Lo trovo molto più facile perché sono la madre di due bambini e lo vedo ogni giorno: non voglio che i miei figli crescano in un mondo patriarcale, voglio che vivano in un mondo femminista. E credo che i miei ragazzi saranno piu’ felici in un mondo femminista. Dobbiamo lavorare su questo, affinché nessuno si senta minacciato e lo viva invece come un’opportunità.
Parli continuamente dell’Europa dei diritti e dei popoli. Ma, in concreto, come si resiste aidiktat della Troika? Come si costruisce un’altra Europa all’interno delle regole di Maastricht?
Non è facile. Non prendiamoci in giro. L’Europa sorge per delle belle ragioni: mai più violenza, barbarie, disumanizzazione, guerra e fascismo. Dobbiamo rivendicare più forte che mai le ragioni per cui l’Europa è sorta. Non possiamo dimenticarlo. Ma l’Unione europea non è stata ben costruita, perché ha aderito al processo neoliberale globale ed è diventata un’Europa dall’alto, tecnocratica, che ha generato disuguaglianze. E’ chiaro che c’è stata una deviazione in questa costruzione istituzionale europea. Ma credo che sarebbe un errore darla per persa, perché l’Europa è qualcosa come il miglior desiderio dell’umanità. Se ciò che critichiamo è che la troika ha costruito dall’alto un’Europa che non rappresenta la maggioranza della popolazione, allora è la maggioranza della popolazione che deve ricostruire l’Europa: non dobbiamo delegare a un’istituzione la responsabilità della propria auto-riforma. Dobbiamo farlo dal basso. Ancora una volta credo che il municipalismo abbia un ruolo molto importante: non solo perché sa farlo dal basso, dalla cittadinanza e dalla prossimità, ma perché ha il valore delle pratiche e delle esperienze concrete. Gestiamo l’energia in modo diverso, lottiamo contro l’inquinamento, riduciamo le automobili e guadagniamo spazio per le persone, e l’economia non muore, al contrario, funziona meglio. Sono le città che dimostrano che si possono fare politiche di accoglienza e questa non è una minaccia ma la dimostrazione che le nostre città sono migliori e più felici. Questo è imbattibile, perché niente è più convincente dell’esperienza. Ci possono essere grandi discorsi e grandi promesse, ma a lungo termine l’esperienza convince più di ogni altra cosa. E non è facile, perché nelle città abbiamo grandi sfide, poche competenze e poche risorse. Tuttavia, sono convinta che le città abbiano un ruolo molto importante da svolgere nella grande opportunità di approfondimento democratico e di reinvenzione dell’Europa dal basso.
Autore: Steven Forti
Professore associato in Storia Contemporanea all’Università Autonoma di Barcellona e ricercatore dell’Istituto di Storia Contemporanea dell’Università Nova di Lisbona.
Traduzione dallo Spagnolo dell’equipe traduttori di Pressenza
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