domenica 1 maggio 2016

a Gerusalemme per la prima volta

A Gerusalemme, per la prima volta

by maomao comune
Venivano da Alram, un paese vicino a Ramallah. Avevano sognato, chissà quante volte, di vedere Gerusalemme e adesso, finalmente, quel fantastico sogno stava diventando realtà. E invece Maram Salih, 23 anni, mamma di due bambini (fra quattro mesi ne avrebbe avuto un altro) e suo fratello Ibrahim, 16 anni, al check point di Qalandia hanno sbagliato percorso. Non hanno capito quel che gridava il soldato israeliano e si sono messi a correre. Sono stati crivellati di colpi. Nemmeno in quel qualunque maledetto mercoledì di aprile, Maram e Ibrahim sono riusciti a vedere Gerusalemme ma hanno smesso di sognare. La polizia israeliana ha una versione diversa dei fatti, perché ha depositato e fotografato due coltelli vicino ai corpi di quei ragazzi che non parlavano la sua lingua
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Dipinto dell'artista palestinese Ahlam Al Faqih
di Patrizia Cecconi
E’ successo mercoledì. E’ successo a due fratelli, 16 anni lui e quasi 24 lei.
Erano felici, avevano avuto il permesso dagli occupanti della loro terra, di andare a Gerusalemme. Era la prima volta. Così mi racconta un amico palestinese. Venivano da Alram, un paese vicino Ramallah. La giovane signora, perché di signora sposata e con due bambini - ora orfani - si tratta, era incinta di 5 mesi quando entrando per la prima volta nel check point di Qalandia ha sbagliato percorso. Il timore e l’emozione infatti possono far sbagliare percorso, soprattutto quando ci si trova in stato di cattività, come si fosse animali in gabbia, con tanti guardiani armati intorno.
L’errore è stato fatale. Il soldato israeliano, che nessun sincero democratico amico di Israele chiamerà mai assassino, il soldato israeliano le ha gridato qualcosa nella sua lingua. La sua, quella dell’occupante, non quella della vittima e Maram Salih, la giovane donna disorientata dalla situazione non ha capito cosa le stavano urlando. Ha fatto l’errore di correre, così raccontano dei testimoni, e i soldati del democratico stato di Israele l’hanno crivellata di colpiStessa sorte è toccata a suo fratello, il suo accompagnatore in questo primo e ultimo viaggio nella sognata Gerusalemme. La Mezzaluna Rossa Palestinese denuncia (inutilmente) che gli occupanti non hanno fatto neanche avvicinare i soccorsi. Ma nessuno pagherà per questi due fratelli assassinati. I piccoli orfani sapranno che la loro mamma e il loro giovane zio non potranno più portare il regalino promesso dalla città santa, semplicemente perché le loro vite sono state fermate prima di varcare il maledetto e illegale check point di Qalandia.
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La sola immagine di Maram che abbiamo trovato, quella dei documenti rilasciati da Israele che hanno consentito di identificarla
Maram Salih e il suo giovane fratello sono stati uccisi perché non conoscevano la lingua dell’occupante! Tragico e assurdo, ma per essere più precisi, sono stati uccisi perché le complicità internazionali consentono a Israele di mantenere il suo stato di illegalità sulla Palestina e di assassinare, sempre impunemente, i palestinesi ad ogni occasione.
Qualcuno dirà che i soldati erano spaventati e per questo hanno aperto il fuoco. Qualcun altro dirà che Maram aveva un coltello o che forse ne aveva due, chissà.
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I due coltelli fotografati e pubblicati da Haaretz. Credit: Israel Police
Il mio amico di Alram, o la mia “fonte” per usare un termine giornalistico, mi dice che la bambina di Maram si chiama Sara. Sara come la moglie di Abramo, il patriarca di cui parla la Bibbia e che gli islamici, come i cristiani, rispettano al pari degli ebrei.
Proprio Sara, come la donna che secondo la Bibbia fece cacciare Agar e Ismaele, mandati a morire nel deserto, laddove, però, il Dio di entrambi i popoli semiti ebbe pietà e fece zampillare una sorgente, ma questo la moglie di Abramo non lo aveva previsto. E’ feroce l’Antico Testamento in certi suoi passi, e certi suoi personaggi non rispondono certo a quell’umanità che, almeno a parole, è oggi dichiarata valore condiviso.
Eppure Maram aveva dato nome Sara alla sua bambina, in omaggio proprio alla moglie del patriarca Abramo, la prima madre di quel popolo i cui soldati armati l’hanno uccisa.
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Il check point di Qalada. Foto The Electronic Intifada
Forse Sara crescendo penserà al significato del suo nome e forse chiamerà i suoi figli solo Mohammad e Kadija, o Ismail e Nour, non certo Ibrahim o Rachel per esempio. Di sicuro, se Sara prenderà coscienza di dove può portare la mistura politico-religiosa di cui si nutre il sionismo, non potrà chiamare i suoi figli con quei nomi che santificano l’occupazione della sua terra e giustificano l’uccisione dei suoi legittimi abitanti, tra cui la mamma che sognava di andare a Gerusalemme per la prima volta nella sua vita e che non è riuscita ad arrivarci.
maomao comune | maggio 

giustizia climatica


Neocolonialismo e giustizia climatica

by Riccardo
C'è un lato oscuro che la vulgata mainstream sul cambiamento climatico occulta o sfuma. I movimenti globali per la giustizia climatica intendono invece portarlo alla luce non solo opponendosi all’estrazione di gas e petrolio ma denunciandone le forme di nuovo colonialismo. Quello del carbonio, che ridisegna geografie di inclusione ed esclusione, decide quali territori e comunità colpiti dai cambiamenti climatici debbano essere subordinati agli interessi delle imprese e dei vari Nord del mondo. La strada verso la giustizia climatica, l’equità, il riconoscimento dei diritti dei popoli e della Madre Terra resta lunga. L'altra, quella delle ipotetiche buone intenzioni rischia di portarci all’inferno. Dobbiamo metterci dalla parte di chi subisce gli effetti del climate change, considerando le comunità e i popoli non come vittime ma come portatori di diritti fondamentali alla sopravvivenza e alla vita
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di Francesco Martone
Il marzo scorso è stato il più caldo da quando si è iniziato a misurare la temperatura. Se ciò non bastasse nel trentennale del disastro di Cernobyl e a poche ore dalla cerimonia di firma dell’Accordo di Parigi, avvenuta il 22 aprile scorso, la Nasa ha informato che le emissioni di gas serra provocheranno un aumento della temperatura oltre i 1,5 gradi, soglia più o meno definita nell’Accordo adottato alla Cop 21 del dicembre scorso.Benvenuti nell’era dell’Antropocene, una realtà di siccità, sconvolgimenti dei cicli della Terra, perdita di terra, biodiversità, cibo, acqua e rifugio.
Una situazione che imporrebbe – attraverso una visione «decolonizzata» non certo «catastrofista» – di  mettersi dalla parte di chi subisce gli effetti del climate change, considerando queste comunità e popoli non come vittime, ma come portatori di diritti fondamentali, alla sopravvivenza ed alla vita.Tuttavia a Parigi i governi hanno solo riconosciuto ufficiosamente la relazione tra clima e diritti umani lasciando aperto un fronte di lavoro ed iniziativa urgente per evitare che gli ingenti flussi di risorse finanziarie che verranno stanziati per programmi di adattamento e mitigazione non finiscano per aggravare ulteriormente la già tragica situazione di milioni di persone. Basti pensare all’espansione della palma da olio per biodiesel. O al Beccs (Bioenergy Energy Carbon Capture and Storage), «escamotage» per aumentare la capacità di assorbimento di carbonio della Terra coltivando biomasse per la produzione di bioenergia con capacità di stoccaggio e cattura di carbonio.
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Il Beccs aprirebbe una nuova ondata di landgrabbing su almeno 700 milioni di ettari di terra. Il paradigma economico di mercato entra così nuovamente in collisione con quello basato sui diritti umani, delle comunità e della Madre Terra.Un’incompatibilità che caratterizzerà i prossimi anni fino al 2020 quando l’Accordo di Parigi entrerà in vigore. Eppoi, chi implementerà gli accordi , e come? Parigi ha sancito il ruolo centrale del Fondo Verde per il Clima (Green Climate Fund) istituzione che assicura un ruolo cardine per imprese, banche pubbliche e private nell’attuazione delle politiche climatiche. E tra queste, banche quali l’Hsbc (che dal 2010 ha erogato almeno 5.4 miliardi di dollari solo nel settore carbonifero) o istituzioni come la Banca Mondiale. Ai paesi ed alle comunità resta il compito di disegnare la cornice nella quale spendere tali fondi, o accontentarsi delle briciole.
Per dare un’iniezione di fiducia alla comunità internazionale, quest’anno il Fondo spenderà circa 2,5 miliardi di dollari, con una crescita esponenziale rispetto allo scorso anno, senza disporre di strutture adeguate per la valutazione del possibile impatto socio-ambientale dei progetti, né di politiche vincolanti sui diritti umani o sul diritto alla terra. Per chi conosce la storia di una delle più grandi Banche Multilaterali di Sviluppo, la Banca mondiale, questa «pressione all’esborso» è stata foriera di grandi disastri e di un altrettanto grave perdita di credibilità. Tra i prossimi progetti a rischio del Fondo molti saranno nelle foreste tropicali o in aree contigue. Non è un caso, visto che Parigi ha sottolineato con enfasi il ruolo delle foreste nella mitigazione ai cambiamenti climatici, e l’urgenza di rilanciare programmi di riduzione di emissioni da deforestazione, e immissione nei mercati globali di certificati di carbonio.
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Così il Fondo Verde, su pressione di alcuni tra i principali donatori quali la Norvegia, ansiosa di poter neutralizzare le proprie emissioni da combustibili fossili, potrebbe finanziare prima della Cop22 di Marrakech del dicembre prossimo – progetti forestali al fine di produrre certificati di carbonio per compensare le emissioni altrui. Evidente il rischio di alimentare nuove bolle speculative sui mercati di carbonio, proprio quando arriva la notizia di una nuova imminente bolla speculativa collegata alle attività di fracking e la produzione di gas e petrolio di scisto.È questo il lato oscuro che la vulgata mainstream sul cambiamento climatico decide di occultare o sfumare secondo convenienza, e che i movimenti globali per la giustizia climatica intendono portare alla luce del sole, non solo opponendosi all’estrazione di gas e petrolio, ma anche denunciando forme di nuovo colonialismo.
Quello del carbonio, che ridisegna geografie di inclusione ed esclusione, decide che territori e comunità già impattate dai cambiamenti climatici vengano subordinate agli interessi delle imprese e dei vari Nord del mondo. La strada verso la giustizia climatica e l’equità, il riconoscimento dei diritti dei popoli e della Madre Terra resta lunga. L’altra, quella delle ipotetiche buone intenzioni, rischia di portarci dritto all’inferno.

economia di cose e persone

L’economia delle cose e quella delle persone

by maomao comune
Certo, è più facile alzare muri che pensare alternative per combattere le disuguaglianze e ricostruire o tessere nuove relazioni sociali. Agli occhi delle istituzioni politiche i cittadini restano un potenziale bacino elettorale, non sono una "forza" economica. Così i diritti diventano una variabile dipendente delle situazioni di cassa, di un'economia delle cose e non delle persone. Sembra naturale ma non lo è. E' una volontà politica a decidere se i servizi indispensabili alla qualità della vita degli anziani debbano stare o meno nel recinto del Patto di stabilità. Un tema che investe in profondità le cooperative sociali, spinte a nefaste e irresponsabili competizioni che ne mortificano la passione e il lavoro fino a far perdere spesso le ragioni originarie di mutualità e del fare insieme che le hanno fatte nascere. Ne ragiona in un'intervista il presidente di una storica coop che resiste e inventa legami nella società da trent'anni a Monterotondo, appena fuori Roma. Si chiama Folias e ha promosso un incontro nazionale per ripensare il territorio e i suoi soggetti politici, economici e sociali
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Progettiste, animatrici, operatrici della mediazione culturale. Alla Cooperativa Folias di Monterotondo si lavora duro sul territorio ma l'allegria non manca
di Monica Mastroianni
“La cooperazione sociale produce valore economico per i territori, è proattiva e lavora meglio quando si creano sinergie con i cittadini e le amministrazioni locali. Tuttavia, oggi, è svilita nella sua missione dalle gravi condizioni finanziarie in cui versa”: così Salvatore Costantino, presidente della cooperativa sociale Folias, ci introduce il concetto di FARE ECONOMICO, che sarà affrontato a analizzato durante il convegno Fare economico, Pensare politico, Agire sociale: modelli virtuosi per il benessere socio-economico del territorio, il prossimo 5 maggio, dalle 15.00, presso il Teatro Ramarini a Monterotondo.
Cosa intendete, nel settore della cooperazione sociale, per “fare economico”?
Intanto con “fare economico” vogliamo sottolineare che le cooperative sociali non sono organizzazioni di volontariato, ma delle vere e proprie imprese che erogano servizi professionali e che - soprattutto – producono valore economico. Ricordo che l’articolo 35 della Costituzione Italiana recita: “La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità.” In tempi in cui si mette in discussione la “sacralità” della Costituzione, vogliamo sottolineare la mancanza di un pensiero strategico e di valorizzazione da parte della politica nel rapporto con la cooperazione sociale.
Su un territorio come Monterotondo, che storicamente ha investito molto nel sociale, il valore aggiunto economico ha interessato direttamente la città e centinaia di lavoratori – arrivando a rappresentare forse la prima “industria” del territorio per occupati - e indirettamente tutta la comunità, sia per il consumo di beni e servizi, che per le attività economiche promosse nel corso degli ultimi 30 anni e per l’occupazione lavorativa prodotta per centinaia di utenti che in situazione di difficoltà si rivolgevano ai servizi sociali e che nessuna agenzia pubblica avrebbe inserito al lavoro in altro modo.
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Lo scorso anno tredicesima edizione di Monterocktondo, la cooperativa sociale Folias non ha passioni tristi e segue i ritmi del cambiamento da generazioni
In che condizioni versa, dal punto di vista economico, la cooperazione sociale sui territori in cui opera Folias?
Va detto che cooperative come Folias, Iskra e Il Pungiglione hanno partecipato, costruito e innovato il sistema dei servizi sociali, in un’ottica di forte sinergia con la pubblica amministrazione. Tuttavia, viviamo una fase molto critica da anni e tutto il settore versa in condizioni finanziarie disastrose. Gli enti locali, sempre più in crisi di risorse,delegano al lavoro sociale la loro funzione pubblica di servizi ai cittadini, affidando tutto nelle mani di strutture che si sono eccessivamente “precarizzate”. Dico questo perché le nostre organizzazioni oggi continuano a erogare servizi a fronte di pesanti ritardi nei pagamenti, con contratti che vengono spesso disattesi dalle pubbliche amministrazioni e con “la tagliola” della sospensione di un servizio pubblico che vincola – anche eticamente – gli operatori a non ricorrere a forme di autotutela sancite dalla costituzione, come lo sciopero o l’interruzione dei servizi. Nonostante ciò, l’appartenenza dei lavoratori ad un modello sociale di prossimità e cooperazione e il senso enorme di responsabilità fa si che le nostre cooperative, povere dal punto di vista della cassa, siano ricche di identità, di qualità e di modelli virtuosi. Insomma, se compariamo questo dato all’inefficienza di molti servizi pubblici, si evidenzia un paradosso enorme. Di fatto la situazione per noi è esattamente il contrario di quanto emerso attraverso l’indagine Mafia Capitale!
Le coop Iskra, Folias e Il Pungiglione denunciano da tempo il ritardo dei pagamenti da parte della pubblica amministrazione. Questo cosa comporta per i servizi che offrite e per le persone che lavorano con voi?
I ritardi, purtroppo, ci sono e sono pesanti: il ritardo medio dei pagamenti oscilla tra gli 8 e i 18 mesi dall’emissione della fattura (salvo qualche rara eccezione), nonostante la legge fissi il tetto massimo dei 30 giorni per i pagamenti da parte delle pubbliche amministrazioni. Questo significa che le cooperative, per erogare i servizi in convenzione, sono costrette a sostenere enormi costi bancari nell’acrobatico tentativo di sopravvivere. Vogliamo parlare di illegalità istituzionale? Certamente è un modo “incivile” di gestire e praticare il welfare di prossimità, con il concreto rischio di scaricare un peso enorme sul terzo settore, terzo settore sempre meno protetto e sostenuto dal delegante, cioè le pubbliche amministrazioni. Ci troviamo di fronte a un vero e proprio corto circuito: lo Stato, nell’impossibilità di rispondere ai bisogno dei cittadini con servizi ad hoc, fa leva sul terzo settore a cui affida attività che dovrebbero essere di responsabilità statale. In questo modo i lavoratori sociali vivono nella totale precarietà in nome del “bene” collettivo e sono mensilmente sviliti nella loro professionalità. Volendo alzare ulteriormente il livello del ragionamento possiamo affermare che leggendo bene questo dato vengono meno, a nostro avviso, i principi costituzionali che dovrebbero regolare la dignità professionale dei lavoratori e l’universalità dei diritti dei cittadini.
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Quando Monterorotondo diventa Rio de Janeiro
L’associazione Libera, insieme a Sbilanciamoci!, Arci e altre realtà del terzo settore, chiede attraverso la campagna (Im)patto Sociale (a cui le tre coop hanno aderito), di mettere fuori dal patto di stabilità i servizi sociali. Cosa significherebbe, praticamente, per le vostre realtà?
Finora abbiamo parlato di un sistema che strozza la cooperazione sociale e i lavoratori, ma dobbiamo anche tener conto che alcuni amministratori locali – come quelli di Monterotondo – sono impegnati ogni giorno nel tentativo sincero e appassionato di trovare nuove soluzioni per far sopravvivere i servizi sociali ai continui tagli e ai vincoli di bilancio imposti dal governo nazionale e dall’Europa. Mettere fuori dal patto di stabilità le politiche sociali significa esprimere la volontà politica di trovare risorse e soluzioni per combattere la povertà e restituire dignità alle fasce più deboli della popolazione. Negli ultimi anni abbiamo notato che è più facile trovare soluzioni per alzare muri e foraggiare le guerre che pensare a utili alternative per combattere le disuguaglianze sociali. Vincolare le politiche sociali al patto di stabilità vuol dire acuire le differenze di classe e favorire l’instabilità. E questo vale anche per i territori su cui lavoriamo.
Perché, secondo te, le politiche sociali negli ultimi anni sono in fondo alla lista delle priorità del governo nazionale?
Di fatto lo stato centrale, ha smesso di investire su un modello di welfare promozionale ed universalistico, in cui a fianco dei servizi primari (casa, assistenza e cura) si strutturano servizi di secondo livello non meno importanti per la qualità della vita (orientamento al lavoro, prevenzione, sostegno, aggregazione). Le ricadute negative dei tagli agli enti locali hanno impoverito le città sia dal punto di vista economico che dal punto di vista culturale. La politica locale alle prese con i problemi di bilancio invece di praticare creatività e sforzi visionari ha necessità di praticare realismo e razionalizzazione che si traducono in tagli dei servizi. Gestire i diritti seguendo esclusivamente un principio di cassa rappresenta un ossimoro. Non so esattamente perché la politica nazionale ed europea stia viaggiando in questa direzione, probabilmente i cittadini e le loro necessità non sono portatori di interesse forti agli occhi delle istituzioni poiché non sono una “forza economica”. D’altra parte la società non è più in grado di affrontare uno sforzo collettivo. Gli utenti che incontriamo nei nostri servizi ci restituiscono il quadro di una cittadinanza ferita, divisa, impaurita che non ha prospettive comuni. Abbiamo bisogno, quindi, del risveglio della responsabilità sociale di questo Paese. Inoltre non va sottovalutato un altro aspetto: anche il terzo settore si è appiattito e ripiegato su se stesso assolvendo solo alla funzione di ente gestore a cui viene affidato un servizio pubblico, allontanandosi sempre più dal suo spirito originario di pensare e progettare per innovare la società civile e essere spinta propulsiva per le istituzioni. Sfiancati dalla burocrazia e con le casse vuote non sempre riusciamo a essere pro-attivi e visionari e spesso ci manca la capacità di un tempo di creare relazioni positive e consenso. La sfida per la cooperazione sociale è proprio questa: ripartire dal mandato politico originario e continuare a lottare per abbattere ogni forma di emarginazione sociale. Non dobbiamo farlo da soli: bisogna ridiscutere le alleanze e la visione comune con chi ha a cuore un modello di welfare comunitario. Lo vogliamo ribadire con forza: il sociale non è fatto di beneficenza, né di contributi a pioggia, né di progetti che nascono solo se ci sono i soldi in cassa o prorogati mese per mese. I servizi sociali devono essere stabili ed ancorati ai diritti della cittadinanza e, pertanto, vanno finanziati con continuità e pensati coralmente da terzo settore, cittadini e politica. Dietro il lavoro di un operatore sociale non c’è illegalità o business, ma partecipazione sincera e professionale, attenzione alla vita e ai diritti dei cittadini e al benessere delle città.
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maomao comune | maggio 1, 2016 alle 3:23 pm | Etichette: cittàcondivisioneculturademocraziadiritti,

la nuova alleanza Rossi,Toti,Bruno contro Doria ?Gli strani giri di Primocanale

http://www.primocanale.it/single_news.php?id=170732

giornata mondiale per le vittime di amianto

Iran:l'arte come risposta all'isolamento

http://www.artribune.com/2016/04/wim-delvoye-apre-un-museo-di-9mila-mq-a-kashan-in-iran-mostre-di-artisti-locali-residenze-e-quartier-generale-della-sua-attivita/

la gravità del problema lavoro al Sud

http://www.studiocataldi.it/articoli/21930-1176-maggio-persi-625mila-posti-di-lavoro-sud-italia-peggio-della-grecia.asp