Certo, è più facile alzare muri che pensare alternative per combattere le disuguaglianze e ricostruire o tessere nuove relazioni sociali. Agli occhi delle istituzioni politiche i cittadini restano un potenziale bacino elettorale, non sono una "forza" economica. Così i diritti diventano una variabile dipendente delle situazioni di cassa, di un'economia delle cose e non delle persone. Sembra naturale ma non lo è. E' una volontà politica a decidere se i servizi indispensabili alla qualità della vita degli anziani debbano stare o meno nel recinto del Patto di stabilità. Un tema che investe in profondità le cooperative sociali, spinte a nefaste e irresponsabili competizioni che ne mortificano la passione e il lavoro fino a far perdere spesso le ragioni originarie di mutualità e del fare insieme che le hanno fatte nascere. Ne ragiona in un'intervista il presidente di una storica coop che resiste e inventa legami nella società da trent'anni a Monterotondo, appena fuori Roma. Si chiama Folias e ha promosso un incontro nazionale per ripensare il territorio e i suoi soggetti politici, economici e sociali
Progettiste, animatrici, operatrici della mediazione culturale. Alla Cooperativa Folias di Monterotondo si lavora duro sul territorio ma l'allegria non manca
di Monica Mastroianni
“La cooperazione sociale produce valore economico per i territori, è proattiva e lavora meglio quando si creano sinergie con i cittadini e le amministrazioni locali. Tuttavia, oggi, è svilita nella sua missione dalle gravi condizioni finanziarie in cui versa”: così Salvatore Costantino, presidente della cooperativa sociale Folias, ci introduce il concetto di FARE ECONOMICO, che sarà affrontato a analizzato durante il convegno Fare economico, Pensare politico, Agire sociale: modelli virtuosi per il benessere socio-economico del territorio, il prossimo 5 maggio, dalle 15.00, presso il Teatro Ramarini a Monterotondo.
Cosa intendete, nel settore della cooperazione sociale, per “fare economico”?
Intanto con “fare economico” vogliamo sottolineare che le cooperative sociali non sono organizzazioni di volontariato, ma delle vere e proprie imprese che erogano servizi professionali e che - soprattutto – producono valore economico. Ricordo che l’articolo 35 della Costituzione Italiana recita: “La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità.” In tempi in cui si mette in discussione la “sacralità” della Costituzione, vogliamo sottolineare la mancanza di un pensiero strategico e di valorizzazione da parte della politica nel rapporto con la cooperazione sociale.
Su un territorio come Monterotondo, che storicamente ha investito molto nel sociale, il valore aggiunto economico ha interessato direttamente la città e centinaia di lavoratori – arrivando a rappresentare forse la prima “industria” del territorio per occupati - e indirettamente tutta la comunità, sia per il consumo di beni e servizi, che per le attività economiche promosse nel corso degli ultimi 30 anni e per l’occupazione lavorativa prodotta per centinaia di utenti che in situazione di difficoltà si rivolgevano ai servizi sociali e che nessuna agenzia pubblica avrebbe inserito al lavoro in altro modo.
Lo scorso anno tredicesima edizione di Monterocktondo, la cooperativa sociale Folias non ha passioni tristi e segue i ritmi del cambiamento da generazioni
In che condizioni versa, dal punto di vista economico, la cooperazione sociale sui territori in cui opera Folias?
Va detto che cooperative come Folias, Iskra e Il Pungiglione hanno partecipato, costruito e innovato il sistema dei servizi sociali, in un’ottica di forte sinergia con la pubblica amministrazione. Tuttavia, viviamo una fase molto critica da anni e tutto il settore versa in condizioni finanziarie disastrose. Gli enti locali, sempre più in crisi di risorse,delegano al lavoro sociale la loro funzione pubblica di servizi ai cittadini, affidando tutto nelle mani di strutture che si sono eccessivamente “precarizzate”. Dico questo perché le nostre organizzazioni oggi continuano a erogare servizi a fronte di pesanti ritardi nei pagamenti, con contratti che vengono spesso disattesi dalle pubbliche amministrazioni e con “la tagliola” della sospensione di un servizio pubblico che vincola – anche eticamente – gli operatori a non ricorrere a forme di autotutela sancite dalla costituzione, come lo sciopero o l’interruzione dei servizi. Nonostante ciò, l’appartenenza dei lavoratori ad un modello sociale di prossimità e cooperazione e il senso enorme di responsabilità fa si che le nostre cooperative, povere dal punto di vista della cassa, siano ricche di identità, di qualità e di modelli virtuosi. Insomma, se compariamo questo dato all’inefficienza di molti servizi pubblici, si evidenzia un paradosso enorme. Di fatto la situazione per noi è esattamente il contrario di quanto emerso attraverso l’indagine Mafia Capitale!
Le coop Iskra, Folias e Il Pungiglione denunciano da tempo il ritardo dei pagamenti da parte della pubblica amministrazione. Questo cosa comporta per i servizi che offrite e per le persone che lavorano con voi?
I ritardi, purtroppo, ci sono e sono pesanti: il ritardo medio dei pagamenti oscilla tra gli 8 e i 18 mesi dall’emissione della fattura (salvo qualche rara eccezione), nonostante la legge fissi il tetto massimo dei 30 giorni per i pagamenti da parte delle pubbliche amministrazioni. Questo significa che le cooperative, per erogare i servizi in convenzione, sono costrette a sostenere enormi costi bancari nell’acrobatico tentativo di sopravvivere. Vogliamo parlare di illegalità istituzionale? Certamente è un modo “incivile” di gestire e praticare il welfare di prossimità, con il concreto rischio di scaricare un peso enorme sul terzo settore, terzo settore sempre meno protetto e sostenuto dal delegante, cioè le pubbliche amministrazioni. Ci troviamo di fronte a un vero e proprio corto circuito: lo Stato, nell’impossibilità di rispondere ai bisogno dei cittadini con servizi ad hoc, fa leva sul terzo settore a cui affida attività che dovrebbero essere di responsabilità statale. In questo modo i lavoratori sociali vivono nella totale precarietà in nome del “bene” collettivo e sono mensilmente sviliti nella loro professionalità. Volendo alzare ulteriormente il livello del ragionamento possiamo affermare che leggendo bene questo dato vengono meno, a nostro avviso, i principi costituzionali che dovrebbero regolare la dignità professionale dei lavoratori e l’universalità dei diritti dei cittadini.
Quando Monterorotondo diventa Rio de Janeiro
L’associazione Libera, insieme a Sbilanciamoci!, Arci e altre realtà del terzo settore, chiede attraverso la campagna (Im)patto Sociale (a cui le tre coop hanno aderito), di mettere fuori dal patto di stabilità i servizi sociali. Cosa significherebbe, praticamente, per le vostre realtà?
Finora abbiamo parlato di un sistema che strozza la cooperazione sociale e i lavoratori, ma dobbiamo anche tener conto che alcuni amministratori locali – come quelli di Monterotondo – sono impegnati ogni giorno nel tentativo sincero e appassionato di trovare nuove soluzioni per far sopravvivere i servizi sociali ai continui tagli e ai vincoli di bilancio imposti dal governo nazionale e dall’Europa. Mettere fuori dal patto di stabilità le politiche sociali significa esprimere la volontà politica di trovare risorse e soluzioni per combattere la povertà e restituire dignità alle fasce più deboli della popolazione. Negli ultimi anni abbiamo notato che è più facile trovare soluzioni per alzare muri e foraggiare le guerre che pensare a utili alternative per combattere le disuguaglianze sociali. Vincolare le politiche sociali al patto di stabilità vuol dire acuire le differenze di classe e favorire l’instabilità. E questo vale anche per i territori su cui lavoriamo.
Perché, secondo te, le politiche sociali negli ultimi anni sono in fondo alla lista delle priorità del governo nazionale?
Di fatto lo stato centrale, ha smesso di investire su un modello di welfare promozionale ed universalistico, in cui a fianco dei servizi primari (casa, assistenza e cura) si strutturano servizi di secondo livello non meno importanti per la qualità della vita (orientamento al lavoro, prevenzione, sostegno, aggregazione). Le ricadute negative dei tagli agli enti locali hanno impoverito le città sia dal punto di vista economico che dal punto di vista culturale. La politica locale alle prese con i problemi di bilancio invece di praticare creatività e sforzi visionari ha necessità di praticare realismo e razionalizzazione che si traducono in tagli dei servizi. Gestire i diritti seguendo esclusivamente un principio di cassa rappresenta un ossimoro. Non so esattamente perché la politica nazionale ed europea stia viaggiando in questa direzione, probabilmente i cittadini e le loro necessità non sono portatori di interesse forti agli occhi delle istituzioni poiché non sono una “forza economica”. D’altra parte la società non è più in grado di affrontare uno sforzo collettivo. Gli utenti che incontriamo nei nostri servizi ci restituiscono il quadro di una cittadinanza ferita, divisa, impaurita che non ha prospettive comuni. Abbiamo bisogno, quindi, del risveglio della responsabilità sociale di questo Paese. Inoltre non va sottovalutato un altro aspetto: anche il terzo settore si è appiattito e ripiegato su se stesso assolvendo solo alla funzione di ente gestore a cui viene affidato un servizio pubblico, allontanandosi sempre più dal suo spirito originario di pensare e progettare per innovare la società civile e essere spinta propulsiva per le istituzioni. Sfiancati dalla burocrazia e con le casse vuote non sempre riusciamo a essere pro-attivi e visionari e spesso ci manca la capacità di un tempo di creare relazioni positive e consenso. La sfida per la cooperazione sociale è proprio questa: ripartire dal mandato politico originario e continuare a lottare per abbattere ogni forma di emarginazione sociale. Non dobbiamo farlo da soli: bisogna ridiscutere le alleanze e la visione comune con chi ha a cuore un modello di welfare comunitario. Lo vogliamo ribadire con forza: il sociale non è fatto di beneficenza, né di contributi a pioggia, né di progetti che nascono solo se ci sono i soldi in cassa o prorogati mese per mese. I servizi sociali devono essere stabili ed ancorati ai diritti della cittadinanza e, pertanto, vanno finanziati con continuità e pensati coralmente da terzo settore, cittadini e politica. Dietro il lavoro di un operatore sociale non c’è illegalità o business, ma partecipazione sincera e professionale, attenzione alla vita e ai diritti dei cittadini e al benessere delle città.
Fonte: A tempo debito
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domenica 1 maggio 2016
economia di cose e persone
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