Le rivolte nelle carceri di tutta Italia delle ultime settimane, da Poggioreale a Voghera, da Palermo a Rieti, da Agrigento a L’Aquila a Velletri, rappresentano la cartina di tornasole di un sistema malato che è giunto a un punto di non ritorno. Quasi 61.000 persone ammassate in meno di 50.000 posti regolamentari e la chiusura di qualsiasi prospettiva alternativa al carcere, sono dati allarmanti e destinati a crescere. In realtà questi dati non rispecchiano un aumento dei reati, nettamente in calo negli ultimi 10 anni, ma scelte politiche precise da un lato mentre, dall’altro, denunciano la farraginosità della macchina giudiziaria e il carattere classista dell’istituzione carceraria.
Le leggi varate negli ultimi 30 anni in materia di stupefacenti, contraffazione di marchi e immigrazione, hanno determinato la criminalizzazione di marginalità sociali che, scientemente, sono stati oggetto alternativamente di campagne mediatiche mostrificatorie, determinando paura e allarme nella società. I 3/4 della popolazione attualmente detenuta è costituita da assuntori e “spacciatori” di sostanze stupefacenti, autoctoni e migranti, provenienti prevalentemente dai quartieri periferici delle città e dai ceti sociali medio-bassi, ladruncoli e scippatori, parcheggiatori e ambulanti “abusivi”, malati psichici, prostitute. Un’operazione chirurgica che ha selezionato i destinatari, tenendo le sirene allarmistiche, e di conseguenza anche la criminalizzazione e la repressione, ben lontane dai trasgressori appartenenti alle classi più agiate. Per intenderci: il cocainomane col suv viene percepito differentemente dall’assuntore con l’utilitaria, così come l’espediente di sopravvivenza è reato, mentre la finanza criminale è “creativa”. A differente condizione economica corrisponde una differente percezione sociale ed anche la pretesa punitiva nei confronti dei soggetti più agiati viene mitigata a partire dalla tutela della privacy. Difficilmente troveremo su Mario Rossi i titoloni di giornale riservati a Ciro Esposito, e difficilmente troveremo Mario Rossi tra i 61.000 destinatari delle patrie galere. Ci chiediamo anche cosa succederà con il regionalismo differenziato se verrà approvato. Se già oggi non si può negare l’esistenza di una correlazione tra questione meridionale e politiche penitenziarie (basti pensare “all’area 416bis” e alle percentuali di meridionali tra la composizione della popolazione detenuta pari ad oltre il 70% dei detenuti italiani, mente è il 100% delle sezioni di Alta sicurezza), con il regionalismo differenziato la gestione del Sud sarà demandata verosimilmente alla sola amministrazione penitenziaria.
L’estensione continua del concetto di “condotta penalmente rilevante” mira (da sempre) a criminalizzare e reprimere un corpo sociale ben determinato che, in parte, non riesce ad avere i mezzi per soddisfare i bisogni primari per cui è costretto a ricorrere ad espedienti per sopravvivere mentre, un’altra parte, “approfitta” delle abitudini di quella larga, e trasversale, parte di società che fa regolarmente uso di sostanze stupefacenti.
Un corpo sociale vittima, prima ancora che reo, della condizione di marginalità cui l’attuale sistema politico ed economico lo ha relegato, delegando al carcere il contenimento di questa “eccedenza” che mal si incastra nell’Italia bellissima favoleggiata dagli abili mercanti, di ieri e di oggi, improvvisatisi statisti, che hanno trasformato lo Stato in azienda prima e bancarella poi. Uno Stato ridotto a vetrina, ormai decadente, di un corpo politico e di una società che il senso dello stato, dell’equità, dell’umanità e della giustizia sociale ha smarrito.
E nelle galere stanno esplodendo tutte le contraddizioni socio-politiche che all’interno della società fanno fatica a trovare il minimo comune multiplo. Esplodono su restrizioni e privazioni che narrano tutta l’ipocrisia dei Rossi “clienti, compari e complici” degli Esposito.
In altri tempi si sarebbe scritto a fiumi su questa “soggettività di classe” in rivolta nelle carceri, si sarebbe analizzata la composizione variegata e meticcia rivendicante la propria alterità rispetto al potere costituito. Eppure le parole d’ordine non sono cambiate: Sante Notarnicola ci ricorda che se oggi nelle carceri c’è il fornellino nelle celle, e ci fu la riforma Gozzini, il merito va riconosciuto alle lotte che tra gli anni 70 e 80 attraversarono le carceri di tutta Italia. In quegli anni la composizione era variegata più che meticcia e l’incontro in carcere tra i prigionieri comuni e quelli politici determinò una presa di coscienza della condizione soggettiva anche tra i detenuti comuni, ed innescò una serie di rivendicazioni che, dal momento che non si riusciva a abbattere il carcere, individuato quale pilastro fondamentale del sistema capitalista, migliorassero le condizioni di vivibilità all’interno dello stesso.
Negli ultimi venti anni c’è stata una torsione autoritaria, dentro e fuori le carceri, inversamente proporzionale allo smantellamento del welfare. Gli esempi richiamati in apertura rappresentano gli obbrobri giuridici macroscopici di un legiferare ossessivo-compulsivo teso a mantenere in attivo la fabbrica penale. Punire e incarcerare coloro i quali sono stati resi poveri, esclusi, emarginati assolve a molteplici funzioni: tenere in piedi il sistema penale e carcerario, offrire alla società capri espiatori utili a sedare le insicurezze sociali e nascondere dalla vista dei moderni signorotti i pezzenti, i reietti. E, infine, il capolavoro: offrire manodopera a costo basso o nullo alle imprese e alle multinazionali. Le ultime riforme in materia di lavoro penitenziario e ammortizzatori sociali hanno cancellato buona parte dei diritti del detenuto/lavoratore. Nel 2018 sono state adeguate le c.d. “mercedi”, ferme dal 1994 ma, se da un lato hanno adeguato i salari, dall’altro hanno innalzato le spese di mantenimento e ridotto le ore contrattualizzate retribuite. Prendiamo ad esempio i c.d. “piantoni” (ma questo, in diversa misura, vale anche per le altre mansioni di lavoro intramurario), cioè i detenuti che prestano assistenza ai detenuti disabili, hanno un contratto di 1 ora al giorno ma assistono il disabile/concellino, altre 23 h su 24 a titolo di umanità gratuita. Per quanto concerne gli accordi dell’amministrazione penitenziaria con società ed imprese esterne, l’ultimo esempio, in ordine temporale, è dato dal “Programma 2121”, su cui l’azienda Plus Value, partner del Progetto Mind – Milano Innovation District per la riqualificazione dell’area dell’Expo 2015 assieme al Ministero di Giustizia a alla multinazionale di sviluppo immobiliare Lendlease, che ha avviato la valutazione dell’impatto socio-economico e delle ricadute che il programma avrà. Il progetto prevede l’impiego di manodopera detenuta e i detenuti avranno sì un contratto, ma la retribuzione andrà all’amministrazione penitenziaria ad “estinzione del debito” che il detenuto ha nei confronti dello Stato. Attraverso l’inserimento del meccanismo premiale in vece della retribuzione nel rapporto di lavoro si (re)introduce la pratica del lavoro forzato.
Si è gradualmente tornati, quindi, alla funzione che le carceri ebbero nel periodo pre e post rivoluzione industriale: contenere, disciplinare e sfruttare le marginalità che lo sviluppo della società capitalistica aveva prodotto. Ieri erano i contadini che in massa abbandonavano le campagne col miraggio della fabbrica che, esattamente come le bestie da soma, venivano selezionati mentre i più deboli venivano scartati. E gli scarti vennero marginalizzati prima e criminalizzati poi. Esattamente come è avvenuto con i meridionali dall’Unità d’Italia in poi e come avviene oggi con i migranti.
I detenuti che oggi si stanno ribellando contro l’istituzione carceraria sono quelle stesse eccedenze al sistema e alla società capitalistiche che rivendicano prepotentemente spazi vitali e diritti: salute, acqua, vitto congruo, affetti. E accanto alle rivendicazioni ci chiedono il senso di questo carcere, a cosa serve? A chi? Certamentenon a loro che, nella migliore delle ipotesi, usciranno come sono entrati o, nella peggiore e più probabile, saranno incattiviti da anni di segregazione fine a se stessa ma molto utile all’industria penale.
Associazione Yairaiha Onlus
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