Referendum del 17 aprile: l'opinione del direttore Armaroli
di Nicola Armaroli
http://www.saperescienza.it/rubriche/sos-tenibilita/referendum-del-17-aprile-l-opinione-del-direttore-29-3-16
Ecco perché dobbiamo andare a votare, e votare "Sì", secondo Nicola
Armaroli, direttore di Sapere.
Qual è la vera posta in palio con questo referendum?
Il significato di questo referendum va al di là del suo quesito
specifico, che riguarda una questione quantitativamente minimale. Del
resto è sempre stato così, sin dal referendum sul nucleare del 1987,
dove non fu chiesto esplicitamente agli italiani se volessero o meno
centrali in Italia. La vittoria del “Sì”, però, bloccò lo sviluppo del
nucleare per 30 anni. Il referendum del 2011, cancellò poi per sempre
questa opzione.
Il referendum del 17 aprile ha un cruciale significato politico: siamo
chiamati a dire se vogliamo continuare una politica energetica legata al
passato o se vogliamo che l’Italia s’incammini senza incertezze lungo la
strada della transizione energetica alle fonti e tecnologie rinnovabili.
È una questione su cui si gioca il futuro economico, ambientale e
occupazionale dell’Italia, perché l’energia è il motore di tutto.
Nello specifico, su cosa votiamo il 17 aprile?
Ci esprimeremo su un unico quesito referendario, promosso da 9 regioni,
che chiede questo: vogliamo che siano revocate o mantenute le
concessioni per l’estrazione di petrolio o gas naturale in mare – entro
le 12 miglia dalla costa – che scadranno tra il 2017 e il 2027? Si
tratta di circa 20 concessioni che, in caso di vittoria del “Sì”,
continueranno comunque a essere valide sino alla loro scadenza attuale.
Il quesito non riguarda le concessioni oltre le 12 miglia marine.
Cosa è esattamente una concessione e quanto dura? È cambiato qualcosa di
recente nel regime di queste concessioni?
Le risorse del sottosuolo sono proprietà dello Stato, che però non si
dedica direttamente ad attività estrattive ma le affida “in concessione”
ad aziende energetiche specializzate. La procedura è complessa: prima lo
Stato rilascia “permessi di ricerca” che, in caso di ritrovamento di
risorse sfruttabili, possono evolvere in “concessioni di coltivazione”.
Sulla base di queste ultime, le aziende realizzano le infrastrutture
necessarie alla produzione, tra cui le piattaforme e i pozzi.
Fino allo scorso anno la legge italiana prevedeva che le concessioni di
coltivazione (ovvero di estrazione) di idrocarburi durassero 30 anni,
prorogabili per ulteriori 5 o 10 anni. La Legge di Stabilità 2016
stabilisce che tali titoli non abbiano più scadenza e restino in vigore
“fino a vita utile del giacimento”.
Cliccando sui link seguenti è possibili sapere quante sono le
piattaforme che operano entro e oltre le 12 miglia marine.
Le concessioni che sarebbero progressivamente revocate nel prossimo
decennio, in caso di vittoria del “Sì”, dove sono e a quali aziende
appartengono?
Queste concessioni riguardano il mare Adriatico (di fronte alle coste di
Emilia-Romagna, Marche e Abruzzo), il mar Ionio (provincia di Crotone) e
il canale di Sicilia (provincia di Ragusa e Caltanissetta). La maggior
parte riguarda esclusivamente estrazione di gas, solo 5 riguardano anche
petrolio (una di queste unicamente petrolio). Le aziende titolari delle
concessioni sono ENI (o sue controllate) e Edison.
Quanto petrolio e gas possiamo ancora estrarre in Italia, complessivamente?
I dati sono consultabili presso il sito del Ministero. Le risorse sono
stimate in 3 categorie:
certe (probabilità > 90% di essere prodotte)
probabili (> 50%)
possibili (> 10%)
Nella improbabile e ultraottimistica ipotesi che le risorse certe e
probabili siano interamente estratte e sfruttate, l’Italia coprirebbe
meno di 2 anni di domanda di gas e poco più di 3 anni di domanda di
petrolio, agli attuali livelli di consumo.
A questo proposito è importante rilevare due dati significativi:
tra il 2005 e il 2014 i consumi di gas in Italia sono calati del
28% e quelli di petrolio del 33%, non siamo un Paese disperatamente alla
ricerca di nuovi approvvigionamenti;
i costi di estrazione di petrolio in Italia si aggirano attorno ai
50 $/barile. Con i prezzi attuali, attorno ai 40 dollari, la produzione
italiana (assieme a quella in molte altre aree geografiche) è fuori
mercato. L’Arabia Saudita, abbassando di proposito il prezzo del
petrolio, ha raggiunto lo scopo di imporsi, ancora una volta, come
regista del mercato mondiale.
In questo scenario l’Italia e l’Europa, con le loro misere riserve
residue, non hanno voce in capitolo: è sommo interesse strategico
nazionale pianificare l’abbandono progressivo degli idrocarburi.
Viste le esigue quantità disponibili, perché è appetibile estrarre
idrocarburi in Italia?
In Italia vige un regime di concessione estremamente "benevolo", che
aveva ragion d’essere quando ENI era al 100% proprietà dello Stato ed
era di fatto l’unica azienda impegnata nello sfruttamento degli
idrocarburi nazionali. Oggi ENI è una società per azioni quotata in
borsa e opera in competizione con altre aziende private, spesso
straniere. Questo vecchio regime di concessione è oggi vantaggioso solo
per le aziende energetiche, non per la collettività nazionale.
I canoni per i permessi di ricerca e le concessioni di coltivazione
ammontano a poche decine di euro per km2. Altrettanto basse sono le
percentuali sugli utili che le aziende energetiche pagano allo Stato
(royalties): per il petrolio in mare sono del 7% e per il gas del 10%,
ma sono pagate solo oltre una certa quota produttiva (quindi conviene
produrre poco…). Tra l’altro, il sistema della royalties è ormai
superato in tutti i Paesi più avanzati, tranne appunto l’Italia.
Normalmente le aziende versano allo Stato una percentuale dei profitti
che, in Norvegia, sfiora l’80%!
A quanto ammontano le royalties pagate dalle aziende che estraggono
idrocarburi?
Tutti i dati sono presenti sul sito del Ministero. Nel 2015 lo Stato ha
incassato 55 milioni di euro, una cifra irrisoria nel bilancio
nazionale. Le Regioni hanno incassato 163 milioni, di cui 143 alla sola
Basilicata (16 milioni al Comune di Viggiano, che conta 3200 abitanti).
L’Emilia Romagna – che ha 4,5 milioni di abitanti e un bilancio
regionale di 12 miliardi – ha incassato 7 milioni. 1,5 euro per
abitante: un’elemosina che non compensa neppure i danni ambientali di
questo tipo di attività, in primis la subsidenza.
Nel caso di vittoria del “Sì”, che senso avrebbe lasciare nel sottosuolo
petrolio e gas, dato che le infrastutture di estrazione sono già in loco?
Ci sono almeno quattro buoni motivi per lasciarli dove sono:
Non è accettabile che alle compagnie petrolifere debba essere
concessa la disponibilità di una risorsa pubblica a tempo indeterminato.
Nei Paesi democratici è regola porre precise scadenze temporali alle
concessioni date a società private che sfruttano beni appartenenti allo
Stato, cioè a tutti. Le regole dello Stato liberale debbono valere
sempre e per tutti.
Come recita il movimento britannico Keep it in the ground, dobbiamo
essere consapevoli che il margine per ulteriori aggiunte di CO2 in
atmosfera è ormai minimo. Gli idrocarburi vanno lasciati il più
possibile dove sono perché la destabilizzazione del clima è una delle
più imponenti minacce che grava sul futuro della nostra civiltà.
Cominciamo da casa nostra.
Per disinnescare altri quesiti referendari, il Governo ha vietato
per legge nuove concessioni entro le 12 miglia marine, anche perché
ritenute potenzialmente dannose per un’attività ben più rilevante per
l’economia italiana: il turismo. È ragionevole liberare definitivamente
le acque territoriali italiane dai rischi connessi a queste attività.
Certificato che queste sono le ultime risorse di petrolio e di gas
che abbiamo in Italia, abbiamo il dovere morale di lasciare qualche
risorsa del sottosuolo anche alle generazioni future. Non sta scritto da
nessuna parte che dobbiamo consumare tutto noi.
Quali tipi di rischi ambientali esistono?
Gli impatti ambientali degli idrocarburi cambiano a seconda che si
tratti di ricerca, estrazione o uso.
Nella fase di ricerca dei giacimenti, può essere utilizzata la tecnica
di indagine geofisica nota come “Air-gun”, che potrebbe avere un impatto
negativo sulla fauna marina (il tema è controverso).
Per quanto riguarda l’estrazione, uno degli impatti più seri – che
colpisce in particolare l’Adriatico settentrionale – è la subsidenza, un
fenomeno naturale esacerbato dalle attività di estrazione, che ha già
causato molti danni. È poi stato rilevato di recente che nei pressi
delle piattaforme in mare vi è un aumento della concentrazione di
diversi inquinanti. Inoltre, nonostante si tratti di un rischio a
bassissima probabilità, un ingente sversamento accidentale di petrolio
in mare avrebbe conseguenze ambientali ed economiche catastrofiche. In
particolare per l’Adriatico, che è un mare molto chiuso, caratterizzato
da una profondità media inferiore a 100 metri nella parte
centro-settentrionale.
Infine abbiamo un problema di carattere più generale: la produzione di
idrocarburi ci fa rimanere legati a un sistema energetico che
contribuisce a causare milioni di morti ogni anno per inquinamento
atmosferico e accresce la temperatura del pianeta attraverso gli scarti
dei processi di combustione. Con l’Accordo di Parigi, il nostro Governo
ha dichiarato di voler fare la sua parte per la lotta ai cambiamenti
climatici. È ora che l’Italia adotti, nei fatti e non solo a parole, una
politica energetica coerente sino in fondo con gli accordi che
sottoscrive a livello internazionale.
Qualcuno obietta che estrarre idrocarburi in Italia aumenta il rischio e
il danno ambientale globale poiché, in alternativa, si estrarrebbe in
Paesi con minori controlli ambientali. Inoltre, transiterebbero più
petroliere nei nostri mari.
Rinunciare a meno dell’1% di consumo nazionale di petrolio equivale al
carico di tre petroliere di medie dimensioni in un anno. Inoltre,
l'ultimo grande incidente petrolifero (Golfo del Messico, 2010) è
avvenuto a una piattaforma e non a una petroliera.
A proposito di inquinamento, occorre poi sottolineare che le grandi
multinazionali europee, che vorrebbero trivellare i nostri fondali
marini vantando grandi performance ambientali, non brillano su questo
aspetto nelle aree produttive più povere del mondo, come per esempio il
Delta del Niger in Africa. Le pratiche di sostenibilità ambientale non
possono valere solo laddove i controlli sono più stretti, ma debbono
valere sempre.
Limitando l’industria estrattiva in Italia, ci saranno impatti negativi
sull’occupazione?
La maggior parte degli italiani addetti al settore estrattivo lavorano
all’estero. Considerando il quadro qui descritto, l’eventuale effetto
sull’occupazione in Italia sarebbe ridotto e diluito nel tempo. Occorre
poi sottolineare che il numero di posti di lavoro creati dalla filiera
rinnovabile, che è il futuro, è almeno quatto volte superiore a quello
dell’industria degli idrocarburi, che è il passato. Quest'ultima è per
sua natura a bassa intensità di lavoro.
In questi ultimi 3-4 anni sono state perse decine di migliaia di posti
di lavoro, a causa delle politiche miopi e vessatorie che hanno tagliato
le gambe all’ascesa delle rinnovabili per favorire, ancora una volta, i
combustibili fossili. Si tratta per lo più di aziende piccole e
piccolissime che spesso non hanno voce, ma è stata una vera e propria
ecatombe.
Anche in un Paese poco propenso a progettare il futuro come l’Italia
bisognerà farsene una ragione: tutte le transizioni epocali innescano
grandi ristrutturazioni industriali e occupazionali. La transizione
energetica non farà certo eccezione.
Il Governo ascolta la comunità scientifica?
Attraverso un’esperienza di oltre 15 anni, posso dire che tutti i
Governi, di qualsiasi colore, hanno sinora sistematicamente ignorato la
voce della comunità scientifica sui temi dell’energia. Nell’ottobre
2014, assieme ad alcuni colleghi di Università e centri di ricerca di
Bologna abbiamo inviato una lettera al Governo, nella quale chiediamo di
aprire un confronto sulla Strategia Energetica Nazionale. Nessuno ha
avuto il garbo istituzionale di rivolgerci un cenno. Nella maggior parte
dei Paesi avanzati esistono strumenti per far dialogare i diversi attori
sociali portatori di conoscenze e interessi diversi (politici,
scienziati, tecnici, cittadini).
Cosa perde e cosa guadagna l’Italia, limitando le estrazioni di idrocarburi?
Numeri alla mano, l’Italia perde davvero poco. D’altro canto,
privilegiando lo sviluppo del settore delle energie rinnovabili –
manifatturiero e conoscenza – ne guadagnerebbe enormemente in termini di
innovazione e posti di lavoro, di qualità della vita delle persone, di
rispetto degli impegni internazionali. Penso poi che la promozione del
turismo, del cibo e dell’agricoltura di qualità siano valori
inestimabili che non dobbiamo mettere a rischio per nessuna ragione.
Tanto meno per estrarre quantità residuali di idrocarburi,
sostanzialmente regalate ad alcune grandi aziende energetiche.
È possibile far funzionare la civiltà moderna solo a energia rinnovabile?
Non solo è possibile, ma è anche un’opzione senza alternative. I
combustibili fossili inquinano e compromettono il clima. L’unica
possibilità di sopravvivenza per la nostra civiltà è passare nel più
breve tempo possibile all’uso dell’unica fonte energetica illimitata di
cui disponiamo, il Sole. Senza però dimenticare che solo utilizzando in
modo oculato le (limitate) risorse naturali a nostra disposizione
(metalli, acqua dolce, biomasse, ecc.) saremo in grado di fabbricare i
convertitori e gli accumulatori di energia solare che ci servono.
Sarà una sfida molto complessa, ma non impossibile.
L’Italia a che punto è?
Se avete in casa una bolletta elettrica di qualche anno fa,
confrontatela con quella di oggi. Nell’ultima pagina troverete i dati
delle fonti primarie utilizzate per produrre elettricità in Italia.
Vedrete che nel 2008 il 48% era ottenuto bruciando gas, mentre le
rinnovabili contribuivano con il 27%. Oggi la situazione è quasi
ribaltata, siamo 28 a 43. Quindi, non abbiamo bisogno di più gas, ma di
meno gas.
Non c’è alcuna ragione al mondo per bloccare questo processo epocale.
Se non vogliamo farci rubare il futuro, il 17 aprile dobbiamo andare a
votare.
E votare "Sì".
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