martedì 1 dicembre 2015

la curiosità di una persona anziana

La cura di una persona anziana

by JLC
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di Anna Foggia*
Sperimento la cura e l’assistenza a una persona anziana di famiglia, che ha passato la vita a prendersi cura di tutti i familiari che, nel tempo, si sono ammalati: sua madre, poi suo padre, poi una sorella, poi un’altra sorella (mia madre). Insomma, capita che sia lei, per la prima volta a ottantasette anni, ad aver bisogno di cura ed assistenza. La mia vita si riorganizza repentinamente su questa necessità.
Siccome non riesco a scindere ciò che mi riguarda personalmente da ciò che riguarda tutti, mi torna alla mente un post di Lorella Zanardo nel mese di ottobre su donne, malattia e cura. In quel post la riflessione è su dati Censis, i quali raccontano di un welfare sulle spalle delle donne italiane, che si fanno carico di tutto ciò che lo Stato non è in grado di garantire. Laura Boldrini ci è ritornato proprio pochi giorni fa in un’intervista al Corriere.
Chi si occupa di welfare lo sa bene, gli economisti parlano di welfare familistico. Lo Stato, le Istituzioni, però, sembrano non saperlo perché non si vedono interventi di sistema che ne prendano atto e provino ad invertire questa tendenza involutiva, malata. Già, malata.Solo poche settimane fa mi confrontavo e sentivo la sofferenza di un’amica che si accinge a ricoverare la madre in una residenza sanitaria assistita, dinanzi all’impossibilità di sostenere in casa la degenerazione della malattia. Mi fa un certo effetto pensare che una persona di famiglia quando, per età o per malattia, passi dalla funzionalità alla disfunzionalità, debba ritrovarsi espulsa dal suo nucleo e collocata in uno spazio specializzato. Mi suggerisce un approccio consumistico alle relazioni: se “funzioni”, ok, altrimenti ti rottamo.
Non è detto che debba andare per forza così, anzi, in realtà sarebbe evitabile. In Italia abbiamo una delle più alte percentuali di sanitarizzazione di anziani e non autosufficienti, mentre nei Paesi con un welfare più avanzato la percentuale si inverte a favore dell’assistenza domiciliare, così che le persone possono restare a casa loro anche quando non sono più autosufficienti e ricevere cure e assistenza per come necessitano, a beneficio loro e dell’intero nucleo familiare, senza stress da sovraccarico di incombenze sui familiari che se ne occupano (di solito donne) e senza traumi da allontanamento per l’intero sistema familiare. E poi, anche a beneficio collettivo, perché le assistenze domiciliari, pure di qualità, hanno, per lo Stato, costi notevolmente inferiori a residenze sanitarie ed ospedali. Sono sempre convinta che lo Stato siamo noi (cit. Calamandrei) e mi faccio delle domande sul perché in Italia non si costruisce un welfare di questo tipo. E qualche risposta me la do. Intanto è un dato che la cura degli anziani e degli ammalati, nelle famiglie italiane, ricada sulle donne.
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Succede che queste donne, magari, abbiano un proprio lavoro, a cui, dunque, il lavoro di cura va a sommarsi. Nei casi in cui non hanno un proprio lavoro, la situazione finisce per fagocitarle totalmente privandole della propria vita personale. Nell’ulteriore caso, anche questo molto diffuso, abbiano un lavoro precario, può capitare che lo perdano o che debbano scegliere se occuparsi del familiare da assistere o perdere il lavoro, come, del resto, già sono abituate a fare quando scelgono tra lavoro e maternità. Tutto ciò, nel Bel Paese, è considerato una sorta di ordine naturale delle cose più o meno da tutti e da tutte, al di là delle lamentele d’occasione. Ecco perché nulla cambia.
Solo pochi giorni fa si è celebrata la giornata contro la violenza sulle donne; del nesso tra welfare, lavoro e violenza se n’è parlato un po’ pochino. Scelgo di ignorare coloro che anche in vesti professionali ma privi di pudore come di buon senso, hanno approcciato discorsi del tipo “eh, ma anche gli uomini, però…”. No. No. No. Se vogliamo centrare un problema per andare alle sue radici e risolverlo a beneficio di tutti, queste banalità da bar lasciamole pure a chi non è obbligato a capirci qualcosa di dinamiche culturali e fenomeni sociali.
La violenza sulle donne è un problema preciso, che esiste in una sua specificità e che non va confuso assolutamente con altre questioni, così come non si cura il mal di pancia con il collirio; detta specificità va riconosciuta, ne va individuata e chiarita l’origine che sta nel sistema culturale del quale tutti e tutte siamo parte e che dovremmo smettere di far finta che non esista. Ora, è proprio questo sistema culturale che ha prodotto l’attuale impianto del welfare così come le stesse disparità nell’accesso al mondo del lavoro e nel salario: il Global Gender Gap Report che si occupa delle differenze che diversi Paesi registrano tra le opportunità degli uomini e quelle delle donne in diversi settori, quest’anno ci dice che l’Italia, su 136 Stati, è 65esima per quanto riguarda la scolarizzazione, 72esima per la salute, 44esima per l’accesso alla politica e 97esima per la partecipazione alla vita economica e l’accesso al lavoro.
Piccolo focus sull’ultimo di questi dati: il 97esimo posto per l’occupazione. Spesso le donne si trovano costrette a rinunciare al lavoro per farsi carico di famiglie con minori, anziani e persone con disabilità; nel contempo, con questa scelta, vanno ad alimentare il welfare familistico, sostituendosi allo Stato e relegandosi progressivamente in una condizione di deprivazione, non solo economica; vale la pena ricordare che, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità la violenza sulle donne si declina in psicologica, verbale, economica, fisica e sessuale.
Uomini e donne di buona volontà che conoscano il tema e, soprattutto, scelgano di non ignorarlo, possono provare a ragionare su ipotesi di lavoro e proposte politiche. Politiche di genere, perché assolutamente insufficienti si sono dimostrati gli interventi che incrociano le donne solo per la “tangente”; va capovolto il paradigma, il sistema di servizi e di orientamento e inserimento al lavoro va pensato in un’ottica di genere, proprio a partire dalla consapevolezza sia dell’acclarata specificità sia del nesso welfare-lavoro-violenza.
Esempi in ordine sparso: reddito minimo garantito, misure di rilancio dell’occupazione femminile, riconoscimento del lavoro di cura (economico e contrattuale) quando viene svolto, educazione sentimentale e alle differenze nelle scuole, alfabetizzazione al linguaggio dei media, investimenti massicci nei centri antiviolenza, ecc., ecc., ecc..
JLC | dicembre 1, 2015 alle 12:16 pm | Etichette: anzianicuradonnegenerelavorosanitàviolenza | Categorie: News | URL: http://wp.me/p2krhM-1sRN

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