di Paolo Mottana
L’esame scolastico, istituzionale, è figlio di una cultura della misura e del controllo. Una cultura dell’educazione che ritiene che la procedura dell’insegnamento sia realizzata quando il sapere, considerato come qualcosa che preesiste al momento dell’istruzione stessa, possa essere poi in qualche modo misurato dopo che è stato trasferito. Operazione meccanica quant’altre mai, che vede l’insegnamento come una trasmissione come un transito o come un inculcamento.
Anche laddove vi è consapevolezza della processualità dell’opera educativa, laddove si predica con aplomb sacerdotale la metaforica platonica della maieutica o dello svelamento, l’esame resta confinato nella sua struttura di procedura di controllo, a volte rivestito dell’abito della ricerca o dell’ascolto, ma pur sempre finalizzato a vedere ciò che è stato prodotto, a sorvegliare e a delucidare l’effetto. Questo sistema è legato ad una logica produttivistica, efficientista e fisicalista della cultura, che nell’epoca contemporanea si tecnicizza in procedure sempre più sofisticate e modulate variamente, sul piano strumentale, ma non meno univoche su quello strutturale.
A questa logica voglio contrapporre l’idea di formazione come dono, di apertura del sapere e di condivisione della conoscenza. Un’idea partecipativa che mira all’attrazione appassionata e alla coltivazione di una ricettività diffusa e fluida, curiosa e non giudicante. L’azione dell’insegnamento come potlacht o come dissipazione, come debordamento e come dispersione, come deriva e come prassi simbolica, fa cadere ogni esigenza di controllo. Anche perché non c’è più nulla da controllare. Il campo del sapere, non più presupposto come dominabile e segmentabile, è sempre aperto e fluido. Il contributo che offre chi insegna, presenta implicitamente falle e punti di pescaggio da dove chiunque vi partecipi può derivare imprevedibili direzioni di sviluppo, trasformando continuamente, non tanto il modo in cui l’insegnante propone la sua forma, quanto la configurazione in fieri che ne trae come discente. Da questo punto di vista nessuna esigenza di controllo e di misura e neppure l’esigenza del tutto autoriferita di verificare se qualcosa è successo.
Il gesto compensatore di una pratica di formazione come dono e condivisione è invece quella della restituzione, come ritorno di qualcosa di non predefinito (al dono si corrisponde con il dono) e della riconoscenza/riconoscimento, nella forma del ringraziamento e dell’accoglimento. Per chi insegna è il fatto stesso dell’ascolto, della partecipazione e della ri-conoscenza che si fa atto di conferma, e che costituisce di per sé indizio di un’auspicabile moltiplicazione esperienziale. In tal senso restituzione e riconoscimento possono essere espressi in modi diversi e imprevedibili che possono non avere affatto a che vedere con il sapere trasmesso, ma semmai con la configurazione che l’esperienza ha assunto. La restituzione può essere un oggetto fisico o un’idea, una danza o un canto, uno scritto o un’immagine, un biglietto o un gesto d’amore. L’esperienza formativa non ha nessuna intrinseca necessità di essere misurata, essa si dà quando si dà, come perfettamente compiuta all’atto della sua effettuazione. L’atto del controllo e della misurazione è solo un gesto disciplinare che la inscrive in una finalizzazione estrinseca di tipo ideologico o istituzionale. Intrinsecamente ogni esperienza di insegnamento è invece semmai tramata da gesti di interrogazione e di intesa, di confronto e, laddove ve ne sia necessità, di prova, di gioco e di simulazione. Ma questo modo di cercare non è mai ordinato nella forma del controllo esterno, semmai della conferma interna, del bisogno di percepire la reciprocità della comprensione. Si conclude all’interno dell’esperienza di insegnamento e non chiede supplementi, a meno che questi non siano indotti dal desiderio di ripetere e andare più a fondo.
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Tratto da "La gaia educazione" (Mimesis, 126 pag. 10 euro): il nuovo libro di Paolo Mottana dissolve, senza paura di abitare l'incertezza, molte barriere dell'educazione tradizionale. L'autore, docente di Filosofia dell’educazione presso l’Università di Milano-Bicocca si occupa da anni dei rapporti tra immaginario, filosofia e educazione. In questo libro ripensa l'apprendimento e la scuola in modo profondo. Si tratta, in primo luogo, di "riportare bambini e ragazzi sulla scena del mondo, della natura, delle strade, dei luoghi dove si vive e si traffica e si imapara sul serio...". È la società, la città, la campagna che possono divenire sfere di un apprendimento diverso quanto vitale, non gli edifici scolastici, troppo spesso luoghi che separano (mondi, persone, saperi). Serve un apprendimento che rifiuta la dittatura del denaro e il feticismo del lavoro, che sia in grado di proporre una ricostruzione delle idee. Abbiamo bisogno, dice Mottana, non di esami, interrogazioni, voti, schede ma di un sistema di apprendimento esteso, articolato quanto creativo, abbiamo bisogno di una gaia educazione di mente e corpo, dove l'imparare è esperienza che si radica nella vita.
Altri articoli di Paolo Mottana, leggibili qui.
La sua adesione alla campagna 2016 "Facciamo Comune insieme":
Aderisco senz’altro, convinto che occorre pensare oltre questo presente ma anche sapendo riconoscere in esso i germogli di un altro modo di intendere l’educazione, per esempio, che continuo a considerare un tassello formidabile per mutare l’approccio generale alla realtà. Un’educazione che abolisca le ripartizioni artificiose, i livelli, che annulli le trappole valutative, che aiuti a rimettere in circolazione nel mondo bambini e bambine, ragazzi e ragazze, non più reclusi e iperprotetti ma di nuovo protagonisti, perché si possa reimparare insieme a loro il sapore delle cose, il tempo e lo spazio, la necessità di albergare un territorio comune dove la vivibilità per i più piccoli sia garanzia della vivibilità per tutti, più lenta, meno satura, meno oppressa dai bisogni delle merci. Per tutto questo, per inseguire le tante azioni che già stanno creando queste condizioni, per farle circolare ma anche per integrarle e andare oltre, aderisco con tutto il cuore e la passione che ho.
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DA LEGGERE
Abbiamo bisogno di ragionare sul senso ultimo della scuola. Servono domande difficili, pensiero critico, creatività, spazi dove mettere in comune ogni giorno sguardi diversi sul mondo. Si tratta di diffondere le occasioni dell'apprendimento nel rapporto con gli altri, la città, il tempo, creare quelle che Ivan Illich chiama “trame dell'apprendimento”
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giovedì 10 dicembre 2015
fondare la società della condivisione
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La Sig.ra MANECCHI Silvia la ha salvata della disonestà dei poveri africani assetati di denaro accordandomi un credito di 35000 euro su una durata di 5 anni affinché il mio sognati diventino realtà. Prego a tutti coloro che hanno potuto usufruire di questi servizi, di volere ritornare testimoniarne per permettere all'altra gente nella necessità, di potere trovare anche un ricorso affidabile. Vi lascio il suo
RispondiEliminaindirizzo professionale: silvia19manecchi75@gmail.com