martedì 8 dicembre 2015

un film sulla legge di mercato

La legge del mercato, un pugno nello stomaco

La legge del mercato negli occhi di un cinquantenne che ha perso il lavoro ma si salva con l'amore e le relazioni sociali. Mentre gli altri si inabissano...Il film di Stéphane Brizé.

di Marìca Spagnesi - 8 Dicembre 2015



La Legge del mercato, di Stéphane Brizé, è un film a metà, un film a un tempo solo. Una storia concepita per essere proposta ma non per essere conclusa, risolta, confezionata. E' un film scritto con lo spettatore il quale, ignaro o consapevole di tutto, ne scriverà il seguito. Se, malauguratamente o per fortuna, chi guarda dovesse trovarsi nella scomodissima posizione dello scollocato o dello scollocando per forza o per scelta, allora il film è come un pugno allo stomaco. Thierry è un uomo sulla cinquantina, sposato e con un figlio disabile. Ha perso il lavoro e trovare un nuovo posto è difficile nonostante i corsi di formazione e i colloqui. Riesce, alla fine, a riciclarsi come impiegato nel settore sicurezza di un ipermercato. E' un uomo semplice e proprio l'aggettivo "semplice" viene ripetuto molte volte dal protagonista in diverse circostanze quasi a voler affermare la sua "semplicità" come essenzialità necessaria e contrapposta alla incomprensibile farraginosità e incomprensibilità del sistema in cui si trova a muoversi.


Thierry sembra essere parte integrante del gioco, non sembra farsi troppe domande, non sembra notare il fatto che è vittima e al tempo stesso aguzzino di altre vittime come lui. Non più di tanto, almeno. Sembra sostanzialmente accettarlo proprio come facciamo quasi tutti. Durante il suo lavoro di controllo scopre piccoli furti di persone che, in difficoltà come lui, si ritrovano a non avere i soldi sufficienti per mangiare. Si trova a interrogare due sue colleghe cassiere che hanno approfittato di buoni sconto e punti fedeltà trattandole, come prevede il regolamento, come ladre. Una di queste si suiciderà in seguito a questo episodio. L'uomo non ci mette niente di suo, fa quello che deve fare, non sembra coinvolto più di tanto, è il suo lavoro.


Allo stesso tempo ha a che fare con la sua banca che cerca spietatamente di approfittare delle sue difficoltà economiche. E' in questo modo che il regista mette in evidenza l'assurda e violenta spirale all'interno della quale ci troviamo tutti: la legge del mercato che senza pietà distrugge le persone servendosi di loro, facendone vittime e mostri inconsapevoli nello stesso momento. Mostri contro se stessi e contro gli altri.





Le sequenze sono volutamente lente. In ogni dialogo la macchina è praticamente ferma e gli attori sono di profilo, uno davanti all'altro. Magistrale il colloquio di lavoro via skype: il protagonista e il computer faccia  a faccia. Risalta lo spessore dell'uno e dell'altro. I pochi millimetri dello schermo e la presenza fortissima dell'uomo composto, nervoso, in soggezione di fronte a una macchina. Non si vede mai la faccia del selezionatore dall'altra parte dello schermo ma questo lo giudicherà ed eliminerà in pochi minuti. Le emozioni da una parte, l'umanità tutta intera fatta di emozioni e difficoltà, paura e speranza. Dall'altra lo specchio di ciò che l'uomo sta diventando prestandosi senza fare troppe domande a questo gioco freddo e disumano.








Il protagonista sembra assistere quasi assorto, distaccato, senza parole a ciò che sempre di più sembra non tornargli, essere privo di senso: la tristissima festa organizzata in occasione di un pensionamento, la riunione con i capi dopo il suicidio della collega. Il direttore prova a scrollarsi di dosso responsabilità pesanti come macigni relegando il fatto come dovuto semplicemente a problemi personali.







Thierry ha uno sguardo profondissimo, gli occhi quasi spalancati, sproporzionati, gonfi, stanchi. La barba è sempre lunga, in ogni scena l'aspetto è dimesso. Sembra un uomo che si è appena svegliato, che inizi a vedere ciò che gli altri, sebbene nelle stesse condizioni, non hanno ancora la capacità di vedere. Il mondo intero intorno a lui ci appare superficiale, ordinato, efficiente, cortese, velocissimo. Lui è in contrasto con la sua lenta ma inesorabile evoluzione interiore, lucida e profondamente umana, fortissima, dirompente.









Thierry è un uomo solido, sostenuto da una famiglia che è dalla sua parte già solo con la sua presenza. Il resto sembra inutile. E' supportato da un amore che c'è, senza bisogno di spiegarlo o di dialoghi ad evidenziarlo. Bellissima la scena della lezione di ballo, tutta con la macchina fissa, come lo spettatore fosse lì a guardare. Sono le uniche scene in cui il protagonista sorride. Sembra non esserci spazio per farsi distruggere dalle difficoltà, da ciò che viene da fuori. L'intimità che si crea e che si respira tra lui e sua moglie è profondamente commovente nella sua normalità. Sembra essere lì come un muro indistruttibile, fermo e solidissimo contro ciò che di assurdo, illogico e disumano viene da fuori. E' l'amore come vita stessa, come ultima e necessaria barriera a proteggerci dalla follia di un mondo che funziona al contrario, che ci vuole sottomessi, umiliati, pressati, usati e poi gettati via.





Per il cast non sono stati scelti professionisti ma cassieri, impiegati e bancari si sono cimentati come attori interpretando se stessi in una sorta di neorealismo del mondo del lavoro: una scelta perfetta. Quasi come se fosse l'unica possibilità di raccontare profondamente, quasi ci fosse l'urgente necessità di un'autenticità assoluta, completa, senza vie di mezzo, traduzioni, interpretazioni.








E' un film ai limiti col documentario di denuncia sociale. Bellissimo e da vedere assolutamente.

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