Lettera aperta al nuovo sindaco di Roma che verrà (e che io non voterò), di Fabrizio Falconi
Questa lettera è indirizzata al nuovo sindaco di Roma che tra tre settimane sarà insediato a Palazzo Senatorio (il più antico palazzo municipale del mondo).
E’ una lettera da parte di un comune romano – come si diceva una volta di sette generazioni – nato e cresciuto e vissuto in questa città.
L’amore per questa città – l’ho sperimentato io stesso – non deriva da un legame di sangue, né da un generico amor soli, amore del luogo dove si è nati. La vita è troppo piena di esempi di persone che non solo non hanno alcun legame affettivo o non con il luogo nel quale si è nati, ma anzi manifestano una vera e propria insofferenza, rancore o odio, per il suolo che li ha ospitati alla nascita.
Eppure è proprio l’amore per il luogo, il primo requisito che vorrei chiedere al sindaco che verrà a governare questa città.
In modo esagerato e guascone, i romani di una volta dicevano che Roma non si discute, si ama.
Ma negli ultimi tempi, dolorosi e depressi, sembra proprio che Roma sia il luogo di cui soltanto si discute, e che fondamentalmente nessuno ama.
Roma è una città depressa e rassegnata. A deprimerla e a rassegnarla intorno al suo destino, ci abbiamo pensato prima di tutto noi romani, con il nostro pressappochismo, con la nostra assuefazione alla bellezza che abbiamo sempre sotto gli occhi, e di cui non ci curiamo più.
Ma ancora di più, ci hanno pensato gli amministratori. Francesco De Gregori, tempo fa ha descritto Roma come una cagna in mezzo ai maiali.
Mai immagine fu più adeguata. Lungi dall’essere la Lupa di un tempo, la Roma di oggi assomiglia sempre di più ad una cagna gravida (di problemi, di cause sbagliate, di impotenze e impossibilità), che maiali avidi si contendono ferocemente, pezzo a pezzo e morso a morso.
La bellezza di Roma è ormai un orpello che serve a pretesto per girare film grotteschi o nostalgici (che piacciono tanto agli americani), a rimpiangere il passato, o a giustificare l’insostenibile presente.
Bande senza scrupoli venute da ogni dove e partorite come un tumore dallo stesso tessuto urbano dell’immensa città, si dividono il territorio e il diritto usurpato di fare carneficina di ogni scampolo di residua bellezza.
Ogni cosa va lordata, dispersa, rinchiusa, segregata.
Eppure Roma è ancora viva.
Miracolosamente viva, nonostante i problemi di una città ormai meticcia, decaduta più che decadente, senza un soldo, senza un progetto, senza futuro.
Il mio appello è proprio questo: non parlateci più di progetti. Il nuovo sindaco che arriverà – e che io non voterò perché nessuna delle figure che io vedo presentarsi al via, nella disperata speranza di essere smentito, risponde al criterio di decenza – non ci parli di progetti. Non dica cosa vuole fare, non pronunci parole vane e vacue, non si faccia bello con l’immagine di una città che nella sua storia ha visto imperatori e papi, tribuni e re, e che non sa che farsene dei mezzi figuri di oggi.
Non parli di progetti. Dimostri, nuovo sindaco, con la sua faccia – se ne ha una – cosa vuol fare per restituire a questa onorata città, una decenza che non ha più.
La Decenza, infatti, è la grande assente a Roma, da fin troppo tempo. Questa parola che deriva dalla lingua degli antenati ( è il participio passato del verbo decere, cioè “esser conveniente”; affine a dec-us, ossia “decoro”, dig-nus ovvero “degno”) rappresenta tutto quello che questa città non è più, e non è più da molto tempo. Una città non conveniente, indecorosa e indegna.
Eppure, Roma è ancora viva.
Migliaia di giovani vivono a Roma e sono sani e credono e vorrebbero vivere in una città migliore, e fanno, disordinatamente e senza nessun sostegno, ma fanno.
Migliaia di lavoratori vivono a Roma e sono sani e credono e vorrebbero vivere in una città migliore e fanno, disordinatamente e spesso invano e senza nessun sostegno, ma fanno.
Migliaia di madri continuano a far nascere i loro figli a Roma, anche se vengono da lontano (e per molte di loro Roma è una parola magica), e li allevano e li fanno crescere, senza nessun sostegno, ma lo fanno.
Poi è deprimente sì, ed è fonte di rassegnazione, ed è indecente, che Roma offra ogni giorno a questi uomini e queste donne, l’immagine indecorosa e indegna di una città in ginocchio.
Eppure Roma è viva.
Le periferie pullulano di vita. Le associazioni, i volenterosi, i saggi, sono ancora fra noi. Lei, nuovo sindaco che arriverà, invece di nominare la parola progetti, faccia affidamento a costoro. Li incoraggi, se può, non li abbandoni, come hanno fatto tutti.
Dimostri, in una parola, quell’amore così sparito, così disperso.
Offra a questa cagna una dignità, se ne è capace, e tenga i molti maiali affamati lontani, a distanza.
Fabrizio Falconi
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