Anno nuovo: niente compiti a casa?by JLC |
di Maurizio Parodi*
Tra pochi giorno riprenderanno le lezioni e, dopo il tormento dei compiti per le vacanze (ossimoro nefasto), gli studenti italiani saranno gravati dal consueto, gravoso carico di studio, iniquo e purtroppo decisivo, soprattutto in termini insuccesso e abbandono scolastico.
Sappiamo quanto incida nella valutazione del rendimento di uno studente, la perizia, la correttezza, la sollecitudine con le quali svolge il “compito domestico”, e proprio per questo non è tollerabile che si infierisca con penalità e reprimende su chi sia in condizione di svantaggio culturale, senza far nulla per dotare i soggetti più bisognosi degli strumenti concettuali, cognitivi che consentirebbero loro di affrontare l’impegno richiesto con una preparazione idonea, senza nemmeno porsi il problema del “senso” di un obbligo cui si deve soltanto soggiacere (obtorto collo), senza minimamente curarsi della motivazione “intrinseca” allo studio, e limitandosi a praticare una pedagogia da caserma, basata su premi e punizioni (motivazioni, appunto, “estrinseche”).
Dai più recenti Rapporti dell'Ocse risulta che la scuola italiana eccelle per l'incompetenza dei diplomati (analfabetismo funzionale), per l'incapacità di compensare le diseguaglianze culturali tra ricchi e poveri (facciamo peggio di Romania, Bulgaria e Ungheria) e per la quantità (straordinaria) di compiti domestici: che ci sia una relazione tra questi dati scandalosi?
I nostri studenti sono tra i più “afflitti” dai compiti a casa. I quindicenni italiani trascorrono quasi nove ore la settimana (la stima è sicuramente per difetto) a fare i “compiti” contro una media Ocse di 4,9 ore. Finlandesi e coreani, che svettano nelle classifiche sulle competenze matematiche, dedicano allo studio poco più di due ore la settimana, meno della metà degli italiani che sono molto più in basso nella classifica dei risultati. Ma il dato più preoccupante è quello che vede l’Italia distinguersi in negativo per il divario, nei risultati, tra gli studenti avvantaggiati sotto il profilo socioeconomico e quelli più “poveri”. L'Italia contende alla Cina questo triste primato.
Si conferma, drammaticamente, l’incapacità storica della nostra scuola di porsi come variabile indipendente nel processo di crescita culturale della persona, che in tal modo risulta prefigurato (determinato) dalla situazione di partenza, accertata “in ingresso”, magari con l’ausilio di prove oggettive (preformate e uniformi) che hanno l’effetto parossistico di legittimare “scientificamente” gli esiti, fallimenti compresi.
Così la scuola continua, nonostante il fervido impegno degli insegnanti migliori (uomini e, soprattutto, donne di forte volontà, profonda sensibilità e alto ingegno) a promuovere chi sia avvantaggiato per reddito, cultura, latitudine, cure parentali, e respingere chi sia vittima della povertà, dell’ignoranza, del degrado affettivo e sociale: non è capace di attuare interventi compensativi (dare di più a chi ha di meno), e neppure di garantire pari trattamento (dare a tutti in parti uguali); si realizza, piuttosto, il paradosso di un servizio rivolto soprattutto a chi non ne ha particolare necessità (e più ne profitta). Ma non si limita a dare di meno a chi sia più bisognoso, giacché aggrava la condizione (aggiungendo sofferenza a sofferenza) del disadattato, del caratteriale, del diverso, procurando ulteriori, peculiari frustrazioni e “iniziando” a una nuova forma di emarginazione, quella scolastica, appunto.
Il rapporto tutt’oggi esistente tra rendimento scolastico e ambiente d’origine, il fatto cioèche i “capaci e meritevoli” prosperino soprattutto nelle famiglie “attrezzate” culturalmente e affettivamente, dovrebbe preoccupare, far riflettere, mobilitare la ricerca, sollecitare l’iniziativa: la scuola non funziona più nemmeno come ascensore sociale; al contrario, diviene un moltiplicatore di diseguaglianze. Funziona come un ospedale, denunciava Lorenzo Milani, che cura i sani e trascura, “respinge” i malati.
Persino la rimozione degli ostacoli di natura economica (i provvedimenti, pur necessari, diretti a garantire la gratuità degli accessi al sistema formativo, la sua unificazione, l’eliminazione degli sbarramenti selettivi precoci) non basta ad assicurare una sostanziale eguaglianza educativa: eguaglianza delle opportunità significa sistemi, contenuti e mezzi di istruzione non già eguali, bensì egualmente efficaci.
Di fronte al dramma, sempre attuale, della dispersione scolastica (mortalità, ripetenza), non si può ulteriormente indulgere ad atteggiamenti di fatalistica rassegnazione, quasi si trattasse di un fenomeno “naturale”, di un processo “fisiologico” (e non patologico), connaturato al sistema comunque sano. Non è decente pensare che bambini e ragazzi lascino spontaneamente la scuola, e non ne siano piuttosto allontanati, che la rifiutino deliberatamente, e non ne siano invece respinti; sarebbe come dire che la scuola è giusta e i ragazzi sono sbagliati.
Peraltro la convinzione che insuccessi e abbandoni (fenomeni che spesso prefigurano esiti di marginalità sociale) siano problemi personali e, in ogni caso, privati degli studenti e delle loro famiglie (che non sempre possono provvedere con il ricorso a “private” integrazioni), e non anche problemi sociali che investono la scuola, è molto diffusa, nonostante risulti aberrante quanto quella del sarto, menzionato da Neil Postman, che limitandosi a fare un solo tipo di pantalone, sosteneva fossero sbagliate le natiche del cliente, quando il suo modello non calzava a dovere.
I compiti sono una delle cause dell'abbandono scolastico: discriminanti proprio perché indiscriminati. Non tutti gli studenti sono allo stesso livello e ognuno ha il suo modo di imparare; per qualcuno svolgerli è semplice, altri devono impegnarsi molto di più, e troppi sono quelli che non riescono. Inoltre risultano avvantaggiati gli scolari che possono contare su famiglie in grado di seguirli o di offrire loro un aiuto (ma questo eccesso di responsabilizzazione della famiglia non fa che rendere più iniqua, censitaria e classista la scuola): il giorno dopo i compiti a casa, i ragazzi svantaggiati lo sono un po' di più. Una evidente ingiustizia a danno di chi è più bisognoso e che in tal modo risulta ulteriormente penalizzato.
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* Dirigente scolastico, attivo nel Coordinamento Genitori Democratici (Cgd), vive a Genova. Tra i suoi libri: Scuola – laboratorio di pace (Junior, 2003), Basta compiti! Non è così che si impara (Sonda, 2012) e Gli adulti sono bambini andati a male (Sonda, 2013).
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LA CAMPAGNA
La campagna “Basta compiti!” nasce per promuovere "azioni volte a superare una pratica inutile e dannosa, quella dei compiti a casa, favorendo la riflessione e il confronto tra i partecipanti, la condivisione di proposte e la segnalazione di esperienze alternative". Il gruppo ha lanciato una petizione online e il gruppo facebook omonimo. Tutti i documenti di riferimento o prodotti dal gruppo sono reperibili in questo blog.
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DA LEGGERE
Lo sciopero dei compiti Valentina Guastini
Ai compiti cambiamo l’accento Rosaria Gasparro
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