Lo abbiamo scritto molte volte, lo ripetiamo proprio alla vigilia dei suoiincontri in Italia: Raúl Zibechi, una delle firme più prestigiose che trovate in queste nostre paginette, ha consumato molte paia di scarpe per conoscere e raccontare le lotte de los de abajo dell'América che parla le lingue indigene o il castigliano. Siamo certi, tuttavia, che poche volte questo suo rigoroso e appassionato modo di interpretare quello che è molto di più di un "mestiere" sia stato messo alla prova come nell'incontro con le grandi storie di vita e di dignità delle lavoratrici e dei lavoratori del sesso della Brigata di strada Elisa Martinez di Città del Messico. "Zapata e Pancho Villa sarebbero stati orgogliosi di voi", ha detto loro Raúl. "Se Zapata e Villa fossero vivi, verrebbero a letto con noi", ha risposto Elviradi Fran Richart
Tra i chioschi e i venditori ambulanti che occupano la calle Corregidora nel quartiere della Merced, al centro di Città del Messico, c’è un piccolo portone che passa inosservato. Dalle scale si arriva alla sede della Brigata "Elisa Martinez", una Brigada Callejera (di strada, ndt) de Apoyo a la Mujer. Oggi c’è un evento, e una fila di donne e transessuali si affaccia ad un piccolo appartamento dove si sta tenendo un seminario. L’invitato è Raúl Zibechi, attivista e pensatore uruguaiano, che è venuto a conoscere direttamente la lotta e le storie dei e delle lavoratrici del sesso auto-organizzati nella brigata di strada. Il locale è piccolo e oggi è ricolmo di gente perchétutti vogliono parlare. Cartelli di promozione della salute si mescolano a manifesti zapatisti e all’instantanea incorniciata di un subcomandante Marcos che osserva le bellezze occultate da una gonna.
“Con quali intenzioni è venuto a questo incontro?”. Betty, quaderno alla mano, lo chiede a Zibechi che, appena arrivato, parla della sua esperienza riguardo la lotta delle lavoratrici del sesso in Uruguay. “Far volare le vostre parole in altri luoghi”, risponde lui. Il giornalista e intellettuale, la cui militanza risale agli anni 70, durante la dittatura di Bordaberry, spiega nei dettagli che il suo obiettivo, quando conosce un movimento, èquello di parlargli di un altro (movimento). Una teoria del contagio che suscita sorrisi tra il pubblico in sala. Zibechi conclude: “E’ il mio ringraziamento. Mostrare ad altre ed altri che questa esperienza esiste. Voglio dirvi che per me è un onore essere qui con voi”.
La storia della strada
La Brigata di strada nasce a Città del Messico nel 1995, ed è formata da lavoratrici e lavoratori del sesso che si sono specializzati in diritti umani e nella prevenzione di malattie a trasmissione sessuale. L’organizzazione è apartitica, senza fini di lucro, laica ed assembleare. Tra i suoi risultati, ci sono la creazione di una clinica per le compagne e i compagni che lavorano in strada e il riconoscimento, per la prima volta e dopo due anni di intensa lotta, delle lavoratrici del sesso sulla pubblica via come lavoratrici non salariate. Ciò significa che il lavoro sessuale è riconosciuto come qualunque altro lavoro lecito: si tratta di un importante passo in avanti per evitare repressione ed estorsioni da parte della polizia.
“Molte giovani non hanno vissuto il lavoro e la lotta infaticabile che tutto questo ha implicato”, dice una compagna transessuale, che simpaticamente accusa “le nuove” che“con le mani sui fianchi si possono mettere a lavorare senza problemi”. La brigata di strada Elisa Martínez non è solo un fronte di lotta o di resistenza, ma anche la memoria collettiva di una storia di repressione, che come molte di loro affermano “ha aperto il cammino per tutte le altre”. La transessuale ricorda quando, fino a poco meno di 20 anni fa, venivano prese per strada e portate nelle celle del “Torito”, dove venivano violentate e colpite con i getti degli idranti. Le persecuzioni quotidiane e gli arresti, anche 3 o 4 ogni giorno, hanno indurito la pelle di un’intera generazione di transessuali, dando loro la forza di costruire questo rifugio.
Zibechi ascolta attentamente, mentre scrive sul suo quaderno i dettagli che più lo colpiscono. E’ il turno di Mérida, una delle donne veterane che comincia a parlare ricordando come nel quartiere della Merced ci fossero più di 150 hotel dove si poteva lavorare e che ora sono diventati locali commerciali. La ex lavoratrice del sesso recrimina la graduale espulsione delle sue compagne dal centro storico della capitale e descrive il nervosismo delle istituzioni da quando sono riuscite ad ottenere il riconoscimento come lavoratrici non salariate. “Da quando lo abbiamo ottenuto sono tutti incazzati. Cercano di fregarci ma noi siamo organizzate”, afferma.
Come molte altre compagne, grazie alla brigata Mérida è riuscita a studiare informatica, e ha ottenuto il titolo di scuola elementare e media. Ora studia da infermiera e si scioglie in elogi per Elvira, fondatrice dell’organizzazione che è presente all’evento e che viene ringraziata anche per il fatto di aver loro insegnato i codici e le leggi affinché la polizia non si approfitti di loro.
“Io mi sentivo schifosa, sporca. Perché sono finita in questa puta vita? Io non volevo fare la puttana, mi discriminavano, perché qui a Città del Messico ci accusano di essere la causa di crimini, droga e omicidi. Elvira mi ha fatto capire che come donna valgo molto. Il lavoro sessuale è dignitoso come qualsiasi altro, non lavoravo perché mi piaceva il cazzo, lavoravo per necessità…”, dice Mérida.
E questo è un dettaglio importante. Le integranti della brigata di strada sostengono di lavorare sì per necessità, ma anche per propria volontà. Avvertono che se vedono una collega costretta da altri a fare questo lavoro si lanciano per cercare di risolvere la sua situazione. L’obiettivo di questa associazione civile non è quello di cambiare il tipo di attività a cui si dedicano le lavoratrici e lavoratori del sesso, ma che lo facciano con la maggiore sicurezza, copertura e dignità possibile.
Ramona, un’altra delle partecipanti, entra nel discorso: “Io sono una lavoratrice, non sono una prostituta. Una prostituta non si fa pagare, le regalano un vestito perché vada a letto con qualcuno. Noi scegliamo il cliente. Se vuole venire con noi deve proteggersi. Se lui non si protegge, io con lui non lavoro. Per questo sono una lavoratrice del sesso”. Ramona riceve applausi sonori dalle sue compagne, che fino ad un attimo prima assentivano con la testa. E’ venuta accompagnata dal figlio di 13 anni, che timidamente interviene dopo di lei per elogiare il lavoro della brigata e ringraziare per avere una mamma così.
Proteggiti, proteggici
Ramona è un’altra di quelle con esperienza, che ha assistito all’evoluzione della sua professione negli ultimi 40 anni. ”Ci hanno sempre chiamato focolai d’infezione” dice a Zibechi. Ricorda con chiarezza e racconta come cominciarono i laboratori di promozione della salute nella brigata. Come capire che si ha un’infezione, come curarsi, cosa fare quando qualcuno era sieropositivo e soprattutto come negoziare l’uso del preservativo. “Se una non lo usa, facciamo pressione su di lei”, dice. Per lei la presa di coscienza è stato un primo passo che l’ha portata innanzitutto ad avere cura della sua stessa salute, e poi a diventare consigliera in tema di salute per altre coetanee che condividevano la strada con lei.
“Quando ci chiamano focolai di infezione dico: scusa, noi siamo promotrici di salute.Posso insegnarti ad usare un preservativo, quella cosa che non utilizzi con la tua segretaria o con tua moglie”. Risate tra il pubblico. Va aggiunto alla dichiarazione di Ramona che le donne sposate sono il secondo gruppo più vulnerabile in quanto ad HIV a livello mondiale, seconde solo agli uomini che hanno relazioni sessuali con altri uomini.
Betty alza spesso la mano per fare domande o dire la sua. Anche lei è un’integrante della brigata e grazie ai laboratori di giornalismo ha cominciato a scrivere le storie di vita di alcune delle sue amiche e colleghe. “Nuotiamo nell’ignoranza, ma per fortuna le cose stanno cambiando”. Con una lunga coda bruna e gli occhiali appoggiati sul naso stile bibliotecaria, Betty racconta di come la brigata abbia cambiato la sua vita e di come, attraverso gli anni, l’educazione, la promozione e l’orientamento siano stati fondamentali.
Questo fatto viene sottolineato anche da Lupe, che già da 27 anni partecipa alla lotta assieme ad Elvira, e che racconta con molti dettagli la discriminazione che subivano quando si presentavano al Centro Nazionale per la Prevenzione e il Controllo dell’AIDS (Conasida). E qui riappare Mérida, che spiega: “Separavano noi lavoratrici del sesso dagli altri pazienti. Ci picchiavano forte e ripetutamente sul braccio dicendo che non si vedeva la vena. Nel caso di colleghe che avevano l’HIV, non le prendevano nemmeno in carico”.
Tutte abbiamo un prezzo
Una cosa che le veterane sottolineano riguardo alla conflittualità ed ai problemi che le ultime arrivate possono avere è la lotta per il centro storico di Città del Messico.“Stiamo assistendo sempre di più ad un’operazione di pulizia. Le lavoratrici del sesso sono spinte sempre più verso luoghi clandestini, come una volta”, racconta Rosa Madrid, un’altra delle fondatrici della brigata, che arringa le giovani presenti ad “impugnare la spada”.
Rosa si mostra pessimista, sebbene con il suo spirito combattivo, quando racconta che anche se si è vinta la battaglia della tessera di lavoratrice non salariata, queste tessere sono difficili da ottenere, dato che il ministero del lavoro non è disposto a rilasciarle facilmente. “E’ un traguardo che dobbiamo continuare a difendere”. E’ per questo che l’attivista cinquantenne ricorda due pericoli da tenere presenti: il primo è che la tessera sta sottraendo la possibilità di fare affari ai prosseneti, e da qui la restrizione; il secondo è la cooptazione da parte di organizzazioni internazionali, una piaga che affossa i progetti autogestiti delle lavoratrici del sesso. Commenta l’operato della Banca Mondiale, della sua ossessione per cambiare la carriera delle lavoratrici del sesso e per farle lavorare in progetti che terminano in fretta e che non hanno futuro. E’ per questo che Rosa alza il pugno e declama: “Fino alla morte, noi non ci venderemo”.
Il fatto di comprendere il carattere e l’idiosincrasia di questa organizzazione unica in Messico è una cosa che a volte riempie gli occhi di Zibechi di un rosso lacrimoso che si mescola all’azzurro profondo dei suoi occhi. Porta un cappello, così può dissimulare. E’ il turno di Elvira. Una delle fondatrici.
“Tutte siamo state picchiate. Da quando sono arrivata qui la mia vita è cambiata, perchéprima vivevo come in una bolla. Ho visto tutte queste violazioni dei diritti umani, ci siamo fronteggiate con la polizia e le autorità.” Elvira è un metro e quarantacinque di pura solidarietà. I suoi occhi si inteneriscono quando ascolta una compagna parlare di lei o di come la brigata le ha cambiato la vita sulla strada. Sociologa di formazione, dice che non è necessario essere indigene o bambine di strada per lottare contro le ingiustizie.
Alla sua storia di lotta si potrebbe dedicare un corrido (un tipo di canzone specifica del Messico, che racconta di temi politici o sociali, ndt). Alcuni anni fa, assieme ad altre, fu protagonista di una denuncia pubblica contro alcuni poliziotti dai quali le lavoratrici del sesso subivano intimidazioni e abusi. La ricompensa fu un pestaggio che la lasciòimmobile a letto per 15 giorni. “Dopo la convalescenza, abbiamo circondato la Merced tutte assieme e abbiamo detto ‘Siamo qui, siamo ancora vive per continuare a rompervi le palle!”.
Le realtà più crude che ha visto sono quelle relative a comunità in altri stati messicani, che ha visitato con altre compagne della brigata. Mentre parla delle loro esperienze, non si sente neanche un sospiro in sala: “Hanno ucciso e incarcerato molte delle nostre compagne. Nello stato di Tapachula, dove il 75 per cento delle lavoratrici del sesso sono originarie dell’Honduras, ci sono 150 compagne accusate di tratta, mentre i trafficanti veri e propri non vengono incarcerati.” “Lo stato di Michoacán è durissimo perché lì hanno fatto la loro legge sulla tratta per fregare i più deboli. Abbiamo trovato una roulotte riempita esclusivamente di bambine custodite dai militari. Non abbiamo potuto fare nulla”
“Il narco è il loro braccio per spogliarci di tutto”.
Gli occhi di Elvira raccontano più delle sue parole. Ci ricorda anche che la brigata ha appena pubblicato un libro intitolato “Verso una resa dei Conti”, dove sviscerano il tema della tratta di persone e portano varie testimonianze in proposito. Alla fine Elvira ricorda il passaggio della Otra Campaña, a cui ha dato vita l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale nel 2005. “Ci sentivamo perdute, dicevamo che non c’era maniera di uscire da questa situazione, fino a che non è arrivata la Sexta ed è stata come una visione. Non siamo sole”. Non sappiamo se sia l’impronta zapatista o il lavoro di anni sulla strada, ma Elvira termina il suo intervento con un concetto nitido: “Siamo una brigata perché non stiamo sedute ad una scrivania”.
L’ultima parola è per l’invitato Raúl Zibechi, il quale, toccato dai racconti delle donne, dice“se Zapata o Villa fossero vivi sarebbero orgogliosi di voi”.
Ed Elvira puntualizza: “Se Zapata o Villa fossero vivi, verrebbero a letto con noi”.
Fonte: Desinformemonos
Traduzione per Comune-info di Michela Giovannini
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venerdì 28 agosto 2015
perche' faccio questa vita?
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