Carbone, per la Banca mondiale non serve a lottare contro la povertà
«I suoi costi sociali sono innumerevoli e pericolosi, puntare su energie pulite»
[30 luglio 2015]
Rachel Kyte, vice-presidente ed inviata speciale per il cambiamento climatico della Banca mondiale, ha attaccato le compagnie carbonifere, petrolifere e gasiere ricordando che «L’utilizzo continuo del carbone è un fardello economico considerevole per alcuni dei Paesi più poveri del mondo, ha un impatto nefasto sulla salute ed accelera il cambiamento climatico, che a sua volta aggrava ancora di più le difficoltà dei Paesi in via di sviluppo».
Intervenendo a Washington ad un’iniziativa organizzata da New Republic e dal Centre for American Progress , la Kyte ha detto che «In generale, globalmente bisogna smettere di utilizzare il carbone. Il carbone ha un costo sociale enorme, così come gli altri combustibili fossili che ci impediscono di respirare aria pulita».
Un vero è proprio schiaffo in faccia alle Big Oil ed ai King Coal che dicono che solo i combustibili fossili possono ridurre la povertà energetica che rappresenta un handicap sociale ed economico per i Paesi in via di sviluppo. Peabody Energy, la più grande impresa carbonifera privata era addirittura arrivata a dire che l’utilizzo del carbone avrebbe impedito la diffusione del virus Ebola.
La Kyte ha ribattuto che «Il carbone è un fattore di povertà e non una soluzione. Pensate che il carbone sia un rimedio contro la povertà? Oggi, più di un miliardo di persone non hanno accesso all’energia».
Fornire elettricità prodotta con il carbone a tutti questi esseri umani distruggerebbe il pianeta, ma anche se così non fosse non sarebbe una buona idea: «Se domani avessero tutti accesso all’elettricità da carbone, il livello di malattie salirebbe alle stelle, ecc, ecc […] Dobbiamo migliorare l’accesso all’energia dobbiamo farlo nella maniera più pulita possibile, perché i costi sociali del carbone sono innumerevoli e pericolosi, proprio come le emissioni».
Secondo la Banca mondiale il cambiamento climatico sta mettendo a rischio 30 anni di sviluppo globale, per questo chiede con forza che la Conferenza delle parti Unfccc di Parigi raggiunga un accordo per mantenere la crescita delle temperature entro i 2 gradi centigradi. La Kyte però evidenzia che «Nemmeno un accordo di questo tipo permetterebbe di evitare le gravi conseguenze che dovranno affrontare alcuni Paesi tra i più poveri del mondo. 2 gradi non sono niente. E’ il limite che dobbiamo darci».
Le multinazionali energetiche si oppongono all’idea che il cambiamento climatico sia un elemento di povertà e dicono che gli attuali bassi prezzi di carbone e petrolio favoriscono i poveri. La solita Peabody Energy ha addirittura lanciato una campagna di comunicazione sulla “povertà energetica” che presenta i combustibili fossili come un «rimedio contro la povertà». I portavoce della Shell sono addirittura arrivati a tacciare di «Colonialismo energetico» le iniziative volte a limitare l’utilizzo di combustibili fossili nei Paesi in via di sviluppo. Come se quei Paesi non avessero vissuto e vivano sulla loro pelle il vero colonialismo e neocolonialismo energetico, economico, politico e culturale della Shell e delle altre multinazionali energetiche.
Tre anni fa, dopo che Usa, Gran Bretagna ed Olanda si erano opposti alla sua decisione di finanziare una nuova centrale a carbone in Sudafrica, la Banca mondiale aveva annunciato la fine dei finanziamenti (salvo circostanze eccezionali) per i nuovi progetti carboniferi e la Kyte, pur non escludendo del tutto un possibile finanziamento per centrali elettriche a carbone, ha ribadito che questo potrebbe avvenire solo in circostanze eccezionali ed ha concluso: «Non abbiamo in preparazione nessun progetto che includa il carbone, salvo uno in una situazione estrema».
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