lunedì 26 gennaio 2015

verso la liberazione di Kobane


Petrolio, bombe e servizi in Argentina perché hanno ucciso il giudice Nisman

Pubblicato: Aggiornato: 
ALBERTO NISMAN PROTESTE
Con una doppia capriola da vera equilibrista, la presidente argentina Cristina Fernandez è riuscita a cambiare versione ufficiale nel giro di 24 ore e trasformare la morte del giudice Alberto Nisman in una bomba politica che mette a rischio l'intero governo. Dopo aver accreditato subito come suicidio un decesso pieno di misteri è stata colta dai dubbi e su Facebook ha suggerito una tesi ancora più complottista: il povero magistrato che indagava sull'attentato alla sede dell'Associazione mutualistica israelitica argentina (Amia) nel 1994 (84 morti), trovato senza vita con accanto una pistola calibro 22, non si era sparato per disperazione. Qualcuno lo aveva usato da vivo con pressioni e minacce; e lo usava adesso da morto, agitando il suo spettro come prova delle responsabilità della stessa presidente e del ministro degli Esteri Héctor Timerman accusati di aver coperto gli autori e i mandanti iraniani dell'agguato per ottenere un lauto contratto con Teheran: petrolio in cambio di grano, carne e armamenti.
Una tesi che la presidente aveva subito respinto come balle provocatorie, suggerendo la pista del suicidio subito confermata, in modo frettoloso, anche dal magistrato incaricato del caso, Vivian Fein. Ma è stato lo stesso magistrato ad ammettere, con imbarazzo, davanti al primo esame dei rilievi che "sulla mano della vittima non c'erano tracce di polvere da sparo". Non solo. Si è scoperto che la Fein era arrivata con un'ora e mezza di ritardo sulla scena del crimine, un appartamento al 13° piano della Torre Le Parc, nel quartiere di Puerto Madero; che una volta arrivata aveva trovato dentro casa il segretario alla Sicurezza, Sergio Bemi; che l'alto funzionario non aveva alcun titolo per trovarsi lì, sebbene fosse stato il primo a dichiarare alla stampa che il giudice Nisman si era suicidato. Se nel primo blog postato sulla sua pagina di Facebook, Cristina Fernandez si chiedeva in modo retorico "cosa ha portato ad una persona a prendere una così terribile decisione di togliersi la vita", nel secondo messaggio si diceva "convinta" che non si trattava di suicidio.
Tra un messaggio e l'altro l'Argentina ha protestato, ha reagito sdegnata, è scesa in piazza. Centinaia di appartenenti alla folta comunità israelitica si sono radunati sotto la casa Rosada innalzando cartelli che chiedevano giustizia, fino agli slogan più duri, tipo "assassina".
L'ondata di rabbia deve aver sicuramente pesato sull'atteggiamento ondivago, quasi sconcertante, della Presidente. Tanto da spingerla ad un rapido passo indietro e a farle ammettere che troppi elementi non quadravano in questo giallo.
Ma più si indaga, più emerge sullo sfondo la durissima lotta all'interno della Secreteria de Intelligencia de Estado Argentina (Side), i servizi segreti. Soprattutto tra Antonio Horacio Stiusso, detto Jaime, 61 anni, negli ultimi 20 al vertice della struttura fino alla sua estromissione da parte dalla stessa Cristina Fernandez, e gli uomini che oggi guidano i servizi.
Considerato un uomo potente, con fama da duro, Stiusso aveva finito cinque anni fa per scontrarsi con Gustavo Béliz, ministro della Giustizia nel governo di Néstor Kirchner, l'ex marito dell'attuale presidente. Al centro del contrasto c'erano sempre le indagini sull'attentato all'istituto israelitico e le responsabilità sui mandanti. Béliz accusò il capo dei servizi. Disse che il "Side è controllato da un signore di cui tutto il mondo ha paura perché dicono che è pericoloso a tal punto da poterti fare uccidere in ogni momento. Questo uomo è sopravvissuto a tutti i governi e si chiama Jaime Stiusso". Dopo questa dichiarazione il presidente Kirchner gli chiese di dimettersi. L'ex ministro non si rassegnò e alzò il tiro delle sue dichiarazioni: "Pago il prezzo per aver detto la verità", si lamentò con la stampa. "Mi sono scontrato con l'apparato più oscuro di tutta l'Argentina: il Side".
Da quel momento Antonio Horacio Stiusso sparì dalla circolazione. S'immerse nel mondo dei servizi segreti e continuò a lavorare sul caso Amia. Incontrò uomini dell'Fbi, della Cia, del Mossad. Riuscì a fornire ulteriori elementi di prova al giudice Nisman con il quale aveva ottimi rapporti. Poi, nel novembre scorso, denunciò di sentirsi minacciato. Il mese successivo fece qualcosa di inconcepibile per un capo dell'intelligence: concesse un'intervista al Clarin nella quale si difendeva dal sospetto che fosse al centro di tutte le trame del paese. "Perfino se cade un meteorite", commentò in modo sarcastico, "mi danno la colpa".
Una frase di troppo. Venne destituito e del duro capo dei servizi non si è saputo più nulla. Fino al clamoroso rapporto del giudice Nisman nel quale accusava la presidente Fernandez e gran parte del governo di avere coperto gli autori dell'attentato all'Amia. Il segretario alla Sicurezza Sergio Bemi tornò alla carica. Accusò Stiusso di essere il regista della tesi che incolpava il governo. A suo parere era un modo di "vendicarsi della sua estromissione dai servizi". Intervistato a sua volta, il giudice Nisman negò i sospetti. Difese Stiusso. Raccontò che era un ottimo investigatore, la persona più informata sul caso Amia. Ricordò che fu lo stesso presidente Nestor Kirchner a chiedergli di lavorare con lui: "Sa tutto e può aiutarti nelle indagini".
Due giorni prima di deporre davanti alla Commissione parlamentare, Nisman denunciò nuove minacce e disse di sentirsi in pericolo di vita. Voleva un'audizione pubblica, aperta ai media. Il governo chiedeva una deposizione a porte chiuse. La presidente della Commissione lo chiamò più volte al telefono per mediare. Alla vigilia dell'importante udienza, viene scoperto il cadavere del magistrato. Si scopre anche che la pistola calibro 22, da cui è partito il colpo a bruciapelo che lo ha ucciso, gli era stata fornita da Diego Lagormarsino, un giovane tecnico informatico che collaborava con il magistrato.
Il ragazzo si è presentato spontaneamente agli inquirenti che gli hanno ritirato il passaporto e chiesto di non lasciare l'Argentina. Svolgeva un lavoro saltuario, spesso da casa e solo quando lo chiamava il giudice Nisman. Ma guadagnava anche 41 mila pesos al mese (circa 4.600 dollari), la più alta di tutto lo staff del magistrato. Una cifra su cui adesso si interroga la stampa: distratta verso un ottimo capro espiatorio per sollevare un polverone e chiudere la resa dei conti tra vecchi e nuovi servizi segreti argentini e con esse le responsabilità dell'attentato all'Amia.
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L'Argentina protesta per la morte di Nisman
1 di 17 
 
Ansa, Reuters, AP
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