AMBIENTE & VELENI
Namibia, l’airgun che ha affossato l’industria dei tonni
Maria Rita D'Orsogna
Fisico, docente universitario, attivista ambientale
La Namibia, Stato africano che si affaccia sull’Atlantico. Due milioni di abitanti, ex colonia tedesca prima e poi del Sud Africa. Tasso di povertà al 29%. Una nazione che cerca di vivere diturismo, pesca e miniere di diamanti e di uranio, con vaste distese desertiche e bassissima densità abitativa. E’ uno dei pochi Paesi del mondo la cui Costituzione menziona esplicitamente il dovere di proteggere ecosistemi, processi ecologici, biodiversità e le risorse naturali da essere usate in modo sostenibile per tutti, incluse le generazioni future.
E poi hanno i tonni. Nel 2011 ne sono state catturate l’equivalente di 4000 tonnellate, con un incasso di 400 milioni di dollari. Una cifra considerevole per il Paese. A regolamentarne la cattura l’Iccat, l’International Commission for the Conservation of Atlantic Tunas, che impone quote annuali a ciascun paese, sulla base di statistiche di anni passati. La quota viene riassegnata ogni tre anni. Quella della Namibia è stata a lungo di 5000 tonnellate annue, la stessa identica cifra del Sud Africa. Visto che il pescato effettivo della Namibia oscilla attorno alle 4000-4500 tonnellate annue, il 2011 è considerato un anno normale.