Sessuofoba e necrofila, la società della crescitaby JLC |
di Filippo Schillaci*
Non amo le discussioni che vanno alla deriva, così quel giorno ad Acilia non dissi nulla. Si stava svolgendo una presentazione del libro Un pianeta a tavola, si parlava dunque di alimentazione sostenibile e quell’argomento era del tutto fuori tema. Una persona del pubblico era intervenuta sottolineando il pericolo costituito per i bambini dalla pubblicità fuorviante del cibo spazzatura. A quel punto un’altra persona, tipo buonamadredifamiglia, aveva preso la parola per dire che a ben altri pericoli sono esposti i bambini davanti alla televisione dove, soprattutto di notte, si vedono “immagini orribili”, corruttrici della morale eccetera. Alludeva, ovviamente, a immagini di contenuto erotico. Attesi pazientemente che la deriva benpensante si esaurisse e tornai a parlare degli orrori del giorno, quelli del contesto agroalimentare. Mentre la madredifamiglia parlava però mi era tornata alla mente un’immagine ben più orribile di quelle da lei evocate, in cui mi ero imbattuto il giorno prima lungo una strada di Frascati: quella di un bambino che impugnava una pistola; una pistola giocattolo ovviamente, ma una pistola, un oggetto che nella sua versione “per adulti” serve a un unico scopo, uccidere, e nella sua versione giocattolo serve per giocare ad uccidere. Giocare ad uccidere. E mi tornò alla mente anche un’altra immagine, risalente a un mese prima, vista in un centro commerciale della Brianza: quella di un altro bambino che, nel frenetico andirivieni della folla, stava assolutamente immobile, come ipnotizzato, il viso inespressivo, gli occhi spalancati e fissi, piantati su uno schermo televisivo da cui dilagava una cacofonia di tonfi, scoppi, urla, stridori, lamenti e che gli vomitava addosso una frenesia di immagini pregne di ogni sorta di violenza: armi da fuoco, lame, corpi lanciati in ogni direzione da esplosioni che si susseguivano a getto continuo. E lui lì, immobile, ad assorbire quell’inferno. Mi fece pena.
Chissà perché, quando si parla dei pericoli mediatici cui sono esposti i bambini il riferimento è sempre e solo a spettacoli che toccano la sfera sessuale, poco importa se stupidamente pornografici o più semplicemente erotici; gli spettacoli a base di gente trucidata invece non destano alcuna preoccupazione, nessuno pensa di promuovere petizioni o di scendere in piazza contro di essi. Naturalmente se sei tu a sollevare il problema non c’è persona che non ti dia ragione ma l’omissione rimane: spontaneamente il problema degli spettacoli violenti non viene posto mai. Carl Popper e uno sparuto drappello di alleati molti anni fa osarono parlarne, e ne venne fuori il bel libricino che eraCattiva maestra televisione, ma oggi chi se ne ricorda più? Lo udii citare l’ultima volta in un’aula universitaria poco tempo dopo la sua uscita, durante un master pesantemente inquinato dalla sezione comunicazione della Confindustria quando uno dei suoi emissari, metamorfizzatosi in docente, lo citò appunto, ma solo per dire che lui non era d’accordo su niente e che fare televisione «è un’attività imprenditoriale qualsiasi, come produrre scarpe». Questa affermazione fu assorbita dall’uditorio senza batter ciglio e molte penne scricchiolarono sui fogli mentre essa passava dall’ugola dell’oratore agli appunti degli studenti.
Alcuni anni fa un’insegnante romana fu licenziata e dovette subire un processo penale perché lei e una studentessa quindicenne si erano scambiate un po’ di confidenze intime, subito bollate dalla stampa come “morbose”. Non c’era nemmeno stato alcun rapporto sessuale, solo un po’ di confidenze ma questo era bastato per mandare al rogo la “corruttrice”. Scontato notare che se le due donne avessero trascorso il loro tempo davanti a uno di quei videogiochi a base di gente squartata che ogni buon genitore non vede perché non debba esser regalato al proprio figlio, l’insegnante sarebbe ancora al suo posto. Perché il codice penale, lì dove definisce il reato di “corruzione di minorenne” lo fa esclusivamente con riferimento alla sfera della sessualità; un’educazione alla violenza, fosse pure la più efferata, non è corruzione, non è perseguibile.
Vogliamo aggiungere l’abbondanza di simboli necrofili (teschi dai denti digrignati e altre simili beltà) che furoreggiano su magliette e gadget vari? Ed anche il fatto che in Italia non esiste il reato di apologia della guerra, tanto è vero che un libro dal titolo Elogio della guerra, il cui contenuto mantiene le promesse del titolo stesso, è da anni legalmente in commercio senza che nessuno lo trovi osceno e senza che avanzi il timore che possa finire sotto gli occhi “innocenti” di un bambino.
Tutto ciò mi fa nascere il sospetto che cotanto impegno nel “proteggere” i bambini dalla “depravazione morale”, coi bambini non c’entri nulla e che “l’oggetto della tutela” come lo chiamano i maestri di codici e codicilli sia tutt’altro. Quale dunque?
Fin qui ho fatto soltanto una (sappiamo bene quanto incompleta) lista della spesa dei sintomi, ma ora appunto domandiamoci: perché? Cosa fa sì che nella sociocultura in cui viviamo l’immagine vitale e serena di due persone che fanno l’amore sia concepita come “oscena” mentre l’immagine delle più atroci violenze sia tollerata con indifferenza quando non addirittura goduta con diletto?
Partiamo da Eric Fromm che nel suo Anatomia della distruttività umana parla delle persone dotate di “carattere necrofilo” ovvero persone in ogni altra cosa del tutto “normali” (il carattere necrofilo è cosa diversa dalla necrofilia intesa in senso patologico), ma avverse a ogni manifestazione vitale, persone che amano circondarsi di ambienti grigi, spenti, che rifuggono da tutto ciò che rimanda, anche indirettamente, al fiorire della vita. È autoevidente che carattere necrofilo e sessuofobo sono le classiche due facce della stessa medaglia. Cosa infatti è più vitale (e non solo perché generatrice di vita) della sessualità? È facile poi fare un passo ulteriore ed affermare che il carattere necrofilo può essere posseduto non solo da singoli individui ma da intere socioculture, che può esistere insomma un costume sociale dal carattere necrofilo. Se poi affermiamo che una di esse è proprio quella in cui viviamo, la sociocultura occidentale, industrializzata e di massa, la sociocultura che ha fatto proprio fin dalle sue origini il dogma della crescita, allora tutto torna. Ma cosa c’entra la crescita adesso? In realtà c’entra con molte più cose di quante non si creda. Non è solo una faccenda per economisti ma al contrario impregna in profondità il costume sociale, l’identità di gruppo.
Andiamo per gradi: in un sistema chiuso quale è la Terra è ovvio che una parte può crescere solo a spese di altre parti le quali, per conseguenza, devono essere costrette a contrarsi. È inevitabile pertanto che la prassi della crescita implichi un metodo, il dominio, che pertanto diventa un valore, un’ideologia, un elemento fondante dell’identità di gruppo. L’intera nostra sociocultura infatti ne è pervasa, l’intera storia dell’Europa e dell’Occidente ne è impregnata. Ma il dominio si esercita attraverso azioni cruente. Se il dominio è un valore, allora la violenza, in tutte le sue forme, lo è. E tutto ciò che è educazione alla violenza è, in maniera esplicita o sottaciuta, considerato parte della corretta formazione sociale del bambino. Nessuno naturalmente ammetterà la veridicità di quest’ultima affermazione ma la realtà rimane quella che è e i fatti parlano più chiaro di qualsiasi manfrina di facciata.
Ma la crescita come fine, il dominio come metodo e la violenza come prassi non sono certo attività vitali; sono generatrici di morte, desolazione, vuoto di vita e di valori positivi. Tutto ciò in una simile sociocultura deve essere percepito come cosa buona e giusta; di qui il suo intrinseco carattere necrofilo.
E la sessualità? L’ho già detto prima: è l’esatta negazione di tutto ciò. E dunque va imbrigliata attraverso una strategia che non potrebbe essere più molteplice. C’è innanzi tutto la sua sterilizzazione attraverso la trasformazione in prodotto, come nel sesso-spettacolo; c’è la sua istituzionalizzazione attraverso la definizione di contesti “leciti” in cui essa può essere praticata (famiglia, matrimonio) a esclusione totale di altri, ci sono assiomi socioculturali come la rigida definizione dei ruoli di genere e c’è infine la sua demonizzazione ovunque essa non rientri in nessuno dei contesti messi “a norma”.
Da parte mia, lasciatemi dire che «non mi lego a questa schiera» e, a proposito di immagini orribili e immorali, eccovene una che ho trovato in un libro scolastico di storia. È tratta da un codice miniato medioevale e raffigura non so quale battaglia. Un gruppo di cavalieri avanza trionfalmente al galoppo brandendo spade, lance, scudi e calpestando sotto gli zoccoli soldati sconfitti della parte avversa che giacciono impotenti a terra, coperti di sangue. Ecco un’immagine oscena. Ecco da cosa proteggere i bambini.
E infine, credo che tutto ciò ci aiuti a collocare nel suo giusto posto anche quella tesserina del nostro mosaico socioculturale che è la folla radunatasi nei giorni scorsi a Roma per manifestare, secondo la versione ufficiale dei fatti, contro non so che “ideologia di genere” (leggi Quella folla in piazza San Giovanni), in realtà contro ciò che a questo punto abbiamo tutti capito: contro ogni libera manifestazione del carattere vitale dell’essere umano.
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