Sud: L'eterno ritorno e le nuove (necessarie) alchimie del turismo
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Dentro l'eterno ritorno del sud - su cui occorrerà ritornare, perché non c'è nessun altro argomento in cui le parole si susseguano così identiche a se stesse - c'è l'ancor più eterno ritorno del turismo al sud. Dire che le regioni meridionali potrebbero avere una stagione più lunga; che potrebbero avere più arrivi internazionali degli attuali; che potrebbero trarre qualche maggiore benefico del quasi nulla che oggi traggono dal patrimonio culturale, è talmente ovvio, che non vale spendere una parola in più. L'unica vera, importante, essenziale, domanda è, invece, su quello che, qui e ora, occorre fare per ribaltare la situazione esistente. Io ci provo.
Andiamo per punti. Il turismo è un mercato. Sentendo molti discorsi sembra che non lo sia, sembra che si possa fare una legge per cui i cinesi vengono a vedere Paestum, ma non è così. Il turismo, anzi l'industria dell'ospitalità, è il luogo dove s'incontrano (quando s'incontrano) milioni di micro-decisioni, quasi tutte individuali. Se un residente in Baviera o chissà-dove decide di fare un viaggio, lo decide lui, secondo il suo schema di preferenze e secondo una gamma di convenienze che è sua e solo sua. Allo stesso modo un territorio, qualunque esso sia, se vuole entrare nel mercato turistico deve approntare un qualche servizio da vendere (ripeto: da vendere), perciò una camera alberghiera, un tavolo di ristorante, una visita al museo, e così via. Anche queste sono decisioni individuali. Ci vuole qualcuno che decida di farlo, di investire, di ingegnarsi, insomma di darsi da fare. L'essenza del turismo è in questo reticolo infinito che si compone e si scompone ogni volta che una decisione di viaggio viene concepita e realizzata. Chiedo scusa per la disgressione, ma talvolta si parla dell'industria dell'ospitalità come di un servizio pubblico: non lo è.
Cosa c'entra con il Mezzogiorno? Tutto. Vediamo come si ragiona sul mercato turistico e vediamo di capire cosa implica per il Mezzogiorno. Il mercato turistico italiano (limitiamoci solo a questo, per il momento) è diviso secondo il tempo investito nel viaggio. Perciò c'è il mercato estivo delle ferie (quello che svuota le città e riempie ogni specchio d'acqua). Lo chiamiamo delle vacanze lunghe, così ci capiamo. Questo mercato, per abitudini decennali che nessuno riesce a scalfire, si concentra nel mese di agosto, con una breve estensione a luglio. Questo mercato non si può spostare ad aprile e neppure a maggio. È un fatto. Questo mercato costituisce la gran parte (anzi la quasi totalità) del mercato turistico delle regioni meridionali.
L'industria dell'ospitalità, invece, non vive solo di questo segmento, perché c'è il grande mercato dei fine settimana. Questo mercato, con l'unica eccezione di alcune destinazioni, al sud praticamente non esiste. Affinché esista bisogna metter mano alla logistica (e ai prezzi del trasporto). Non è un problema di immagine: il punto è che se si parte venerdì e si ritorna domenica, il viaggio complessivamente non può durare più di quattro ore. È quasi una legge della fisica. Se costa come una vacanza lunga, semplicemente non si fa. Queste sono le due colonne d'Ercole del segmento dei week end. O li risolviamo, o è inutile parlare di destagionalizzazione.
Gli altri mercati: la settimana bianca, la settimana pasquale (quando spesso le strutture sono chiuse, proprio perché l'assenza dei week end non ne permette l'apertura), la gita in automobile, sono quasi del tutto assenti. Ci potrebbe essere un turismo da week end interno al Mezzogiorno: ad esempio da Palermo a Bari o da Napoli a Catania. Ma non c'è quasi nessun collegamento tra queste città, almeno in aereo e quelli stradali e ferroviarie suggeriscono di fare un week end a Londra, invece. Senza il turismo breve, da due-tre notti, non ci sarà mai la destagionalizzazione.
Ci sarebbe il turismo internazionale, ma quello è ancora più competitivo, sia sul piano della logistica (se in molti aeroporti agiscono prevalentemente le low-cost, chi arriva da un altro continente dovrebbe prendere due biglietti senza utilizzare i network delle compagnie internazionali, perciò nessuna sincronia, nessuna ottimizzazione degli scali e prezzo maggiore) sia sul piano degli standard di servizi (ci si aspetta wi-fi dovunque, trasporti interni facili, qualità competitiva dei servizi). Per avere più turisti internazionali bisogna fare perciò ancora di più. E poi questa divisione tra turisti nazionali e internazionali, in cui la gente è classificata secondo il passaporto, non ha molto senso sul piano del marketing. È più importante, ad esempio, il fattore generazionale.
La generazione è fondamentale sul mercato turistico. Tendenzialmente ognuno cerca quelli della propria generazione. Il turismo delle famiglie numerose che si ritrovano, dai nipotini ai nonni, nello stesso luogo, non è più centrale, giusto qualcosa solo in agosto. Sul mercato turistico conta la generazione. Ne abbiamo due che hanno stili di vita molto distinti: la generazione dei Baby Boomers e dei Millennials. I primi hanno tra i 50 e i 60 anni, sono affluenti, vogliono la comodità, standard elevati, un certo ordine esterno, letti comodi e se non c'è il wi-fi (ancora per un po') non si disperano. I Millennials non badano alla qualità dei servizi e se il cameriere ha una divisa, diventa inviso, mentre non vivono senza connessione. Una battuta: "casa è dove ti colleghi automaticamente al wi-fi", la dice tutta. Vanno in gruppo, ma ognuno ha il suo spazio autonomo e vitale, che si condensa nei pochi centimetri che occupa lo spazio di uno smart phone. Il sud dove sta rispetto a questi due grandi segmenti? Chi lo sa. Ibiza, Formentera, Londra, un po' anche la Grecia, Barcellona e altre destinazioni dominano il mercato dei Millennials; mentre su quello dei Baby Boomers, per altro il più ricco e fedele, il dominio è della Costa Romagnola, della Versilia (lì c'è poi anche il luxury di Forte dei Marmi, che costituisce un sub segmento dei Baby Boomers) e del sud della Francia. Le low cost tendenzialmente attraggono i Millennials, i voli di linea i Baby Boomers. Una qualche decisione sarebbe opportuna. Non si dica che vanno bene tutti, perché i due gruppi francamente si disprezzano.
Occorre allora passare da una visione geografica a una nuova alchimia di segmenti di mercato e di destinazioni. Non si compra una regione, ma una destinazione. Poi ovviamente ogni regione ha una collezione di destinazioni. Il sud ha alcune destinazioni superstar: Capri, Costa Smeralda, Taormina, Amalfi con le sue sorelle e Ischia. Queste hanno una percezione di mercato e una solidità invidiabile. Qui lo sviluppo c'è già, perciò la battaglia competitiva non è "facciamoci conoscere", ma come vinciamo su Saint-Tropez, Cannes, St Moritz, insomma fra le destinazioni top europee. Su queste destinazioni il sud può scommettere senza timore.
C'è un nugolo di destinazioni che potrebbero avere ambizioni da star: Tropea, Gallipoli e altre nella Puglia, tante della Sardegna, le città come Bari, Palermo e Napoli e così via. Si può lavorare su queste? Ogni regione dovrebbe fare un'operazione di valorizzazione, scegliendo le sue perle e cercando di risolvere, ad esempio, i problemi logistici soprattutto per quelle, se per loro vogliono un mercato internazionale. È consigliabile lavorare per destinazioni, per specializzazione e per selezione. Quali sono destinate a un certo mercato? quali ad altri? insomma una politica di differenziazione dei brand. Pensiamoci bene: è impossibile che in regioni grandi, con destinazioni turistiche numerose e molto distanti tra loro, si possa avere, per tutte e per tutto il tempo, una perfetta logistica. Bisogna scegliere, magari capovolgendo la situazione e valorizzando soprattutto quelle che hanno, a oggi, una migliore organizzazione. Non tutta la Spagna è facilmente raggiungibile, ma le Baleari sono piene di aeroporti e di voli; non tutte le destinazioni della Francia sono facilmente raggiungibili, ma Parigi e Nizza senz'altro sì.
La lista delle "raccomandazioni" potrebbe continuare e sarebbe necessario andare sui dettagli, molto più di quanto un articolo conceda, ma l'essenziale è che sia abbia coraggio e si metta da parte il sentimentalismo. Il coraggio consiste nel trattare il turismo, anzi l'industria dell'ospitalità, come un'impresa collettiva sì, ma un'impresa, in cui contano i numeri, le valutazioni di mercato, la scala delle convenienze. Mettere da parte il sentimentalismo, che induce all'indulgenza, al nascondimento, e a chiudere gli occhi di fronte alla verità, ma poi occorre mantenere ben vivo il sentimento di prender parte a una cosa straordinaria che è conquistare la fiducia (e i soldi) di tanta gente che potrebbe scegliere chiunque, e che sceglie noi. Quanta bellezza, amor proprio, soddisfazione, c'è quando si viene scelti; quando si viene eletti (le persone elette sono quelle scelte, e i luoghi eletti sono quelli scelti; per essere eletto bisogna che qualcuno ti scelga, non ti puoi auto-scegliere). Quando il nostro mondo è interessante per qualcuno e lo è talmente tanto che è disposto a spendere del tempo e dei soldi per darne prova, è un bene che va oltre il fatturato, perché induce un circolo virtuoso, crea compattezza, alimenta l'orgoglio collettivo. Questa è la bellezza di vincere sul mercato. E per il turismo (anzi, per l'industria dell'ospitalità) non c'è un altro tipo di vittoria.
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