Tutta la cultura è digitale ma in Italia molti ancora non lo sanno
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Per il supplemento domenicale del Sole 24Ore del 21 settembre 2014 ho scritto un articolo - in qualità di presidente della Fondazione Sistema Toscana - sui ritardi della cultura italiana nel confrontarsi e fare i conti con la rivoluzione digitale. Lo ripropongo sull'Huffington Post.
Come sempre, ci si deve anzitutto intendere sul significato delle parole. Per esempio, la frase udita cento volte "la cultura italiana non risponde adeguatamente alla sfida digitale" sottolinea solo l'ovvietà che nelle nostre scuole e università s'insegnano molta letteratura, un po' di storia ma poca informatica? O anche che l'industria culturale - l'editoria, la televisione, le mostre - hanno tardato decenni prima di adottare modalità di costruzione e diffusione non-analogica dei propri prodotti? Essendo il nostro il paese degli steccati che nessuno abbatte, la stessa frase è applicabile a molti altri ambiti di mancata digitalizzazione senza che ciò dia consapevolezza della pervasività orizzontale delle tecnologie informatiche, che tendono a eliminare le divisioni.
Peraltro, chi ha ruoli di responsabilità nella gestione dell'istruzione e dei beni culturali continua a difendere steccati e divisioni quasi fossero un valore in sé. Si pensi a quanto accaduto qualche mese fa alla Sapienza durante il confronto pubblico tra il ministro Dario Franceschini ed Eric Schmidt, presidente del consiglio di amministrazione di Google. Quest'ultimo ebbe l'ardire di notare che "ai giovani italiani manca una formazione digitale" facendo scattare la reazione del politico: "Ogni paese ha la sua peculiarità. Noi magari abbiamo giovani più competenti in storia medievale". Schmidt: "Il sistema educativo italiano non forma persone adatte al nuovo mondo. Serve un cambiamento. Negli Usa in tutte le scuole si insegna informatica". Franceschini, stizzito: "Un ragazzo italiano sa meno d'informatica ma più di storia medievale. Un nostro ragazzo potrà andare in America a insegnare storia medievale e un americano potrà venire qui a insegnare informatica".
Le osservazioni suggerite dal vivace scambio sono almeno un paio: la prima è che qualsiasi buon medievista italiano deve disporre non di rudimenti bensì di approfondite basi d'informatica se vuole competere nella ricerca e nell'insegnamento con i colleghi di Harvard. La seconda: il "mercato" dei medievisti si rinnova nell'ordine di alcune centinaia di unità l'anno su base globale, la richiesta di informatici è di centinaia di migliaia, forse milioni ogni dodici mesi. In un paese che vorrebbe tornare a crescere non si tratta di scegliere dove investire sulla base delle preferenze personali e della tradizione umanistica. Se formare medievisti è un lusso che dobbiamo assolutamente permetterci (ma non facciamolo più come ai tempi di Armando Saitta!), imparare i codici di programmazione è indispensabile. Per tutti. Informatica e Medioevo non fanno a pugni nella cultura del nuovo millennio, anzi.
Rispetto ai milioni di anni di vicende della razza umana, in un batter di ciglio siamo approdati alle cineteche e alle biblioteche online partendo dai graffiti rupestri e dai poemi tramandati oralmente: clicca qui e vedi subito "Metropolis" di Lang, scarica qui e leggi la prima edizione dei "Canterbury Tales" di Chaucer, iscriviti qui e stampa il tuo primo libro. Viviamo immersi nella cultura digitale per la semplice ragione che qualsiasi azione o iniziativa che produca cultura è in parte o per intero progettata su piattaforme digitali, realizzata con componenti digitali, fruita su strumenti digitali. Se oggi Internet consente a chiunque di raggiungere e partecipare a eventi e processi culturali ovunque avvengano in modalità sincrona o asincrona, nei millenni senza tecnologie digitali - durante quali sono stati plasmati i profili culturali delle nostre società - la forma, lo spazio e il tempo condizionavano la produzione culturale e ne limitavano la disponibilità. Il problema riguarda dunque il passato, che non va perso ma recuperato. Poco per volta il patrimonio culturale che abbiamo ereditato, talmente vasto da risultare irraggiungibile in quote rilevanti (si pensi alle aree archeologiche dimenticate, ai depositi museali blindati, al teatro morente, per fare qualche esempio), dovrà essere digitalizzato e diventare finalmente di tutti.
Con quali risorse economiche, però? Qualche risposta arriverà dall'Internet Festival di Pisa (9-13 ottobre), parte integrante della Settimana della Cultura toscana. Una sezione della manifestazione è intitolata "Culture in smarter" perché vuol ribadire che "con la cultura si può mangiare", quasi in risposta a un altro fenomenale ex ministro della Repubblica, Giulio Tremonti. L'innovazione, spesso pensata e proposta da chi non ha specifiche competenze culturali classiche (ma non per questo dev'essere escluso), sta innescando qui e là i focolai di un nuovo Rinascimento in sedicesimo. Riaccendere i riflettori sui beni culturali mantenendoli collegati al proprio territorio consente di realizzare catene che coinvolgono operatori che un tempo non trovavano ragioni per incontrarsi: creativi, ricercatori, artigiani, comunicatori. Catene di valore, dunque, che dovrebbero - come scriveva in un documento di due anni fa il ministero di Beni Culturali - "Rendere accessibili musei, aree archeologiche, archivi, biblioteche ai cittadini e ai turisti in modo più agevole. La qualità dell'offerta deve migliorare, anche sperimentando forme di collaborazione tra il privato sociale e le istituzioni statali". Da allora a marcare visita sono state proprio le istituzioni statali. Occorre costruire altre sinergie digitali tra soggetti provenienti da tradizioni diverse, che devono cominciare a scambiarsi esperienze, raccontarsi l'un l'altro le proprie storie, verificare nuove soluzioni condivisibili. Non è questa la migliore cultura?
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