Tunisia, se i nazionalisti laici (e un po’ nostalgici) sono inaspettatamente in testa alle elezioni
Sconfitti i Fratelli Musulmani di Ennahda
REUTERS
27/10/2014
Nidaa Tounes, il partito nazionalista laico tunisino che sembra essere sempre più saldamente in testa con almeno 80 seggi, aspetta cauto di brindare alla vittoria di queste elezioni parlamentari, le prime indette sotto il vessillo della nuova Costituzione e le seconde dalla cacciata del dittatore Ben Ali. Eppure, tutti gli exit poll puntano finora sulla coalizione che ha sfidato (e forse sconfitto) i favoritissimi Fratelli Musulmani di Ennahda.
Gli stessi leader di Ennahda cominciano infatti ad ammettere la prima vera battuta d’arresto nella incontenibile corsa alla conquista del consenso popolare che li ha visti protagonisti nei tre anni successivi alla rivoluzione del 2011. «Siamo secondi con un piccolo margine» concede il portavoce dei Fratelli Musulmani Ziad Laadhari. Dal suo punto di vista Ennahda avrebbe pagato «l’alleanza» con il partito del Congresso (quello del presidente Marzouki). Ma anche il Congresso, così come la sinistra di Ettakatol, attribuisce la propria pessima prova all’intesa con il movimento islamico. Il dato veramente nuovo però è la civiltà del dibattito politico, niente recriminazioni, riconoscimento dell’avversario, un passo avanti verso la democrazia.
Come leggere questi primi risultati in attesa che nei prossimi giorni vengano confermati i nomi dei 217 nuovi parlamentari? Pur in assenza di certezze è possibile fare alcune considerazioni e tirare un provvisorio bilancio sulla prova della Tunisia, il paese natale delle primavere arabe, quello con la più solida tradizione secolare ma anche quello che in questi mesi ha visto partire parecchi dei suoi figli alla volta della jihad in Siria, dove i giovani tunisini (e le giovani tunisine) rappresentano la parte più cospicua della legione straniera arruolata con lo Stato Islamico (si parla di almeno 2500 volontari).
La Tunisia ci dice innanzitutto che dopo il 2011 la regione è cambiata e che comunque evolva la situazione non si tornerà più al passato così come l’abbiamo conosciuto. Nonostante tra le fila degli apparenti vincitori di Nidaa Tunes ci siano infatti non pochi personaggi riconducibili all’ex regime, il paese non sembra sulla via di tornare indietro a giorni di Ben Ali. Primo, questi “nostalgici” (non tutti i candidati di Nidaa Tunes lo sono) non si sono trasferiti il potere l’un altro in modo monarchico-feudale ma si sono presentati agli elettori (5,5 milioni di tunisini) e sono stati votati sotto gli occhi di 600 osservatori che hanno giudicato «corretta» la prova delle urne. Secondo, i tunisini hanno dato una chance all’alternativa islamica e, in maggioranza, hanno poi ritenuto meglio mandarla all’opposizione (attenzione, non in esilio come quando sotto Ben Ali Ennahda era al bando: la differenza è fondamentale). Nel 2011 infatti, in Tunisia come in Egitto, i partiti islamici conquistarono la stragrande maggioranza del parlamento (Ennahda ebbe il 37%) , dimostrando che una volta liberi di scegliere i tunisini come gli egiziani premiavano i programmi conservatori che nei decenni precedenti erano stati proibiti o criminalizzati. È la democrazia, la maggioranza vince ma la minoranza resta in campo come legittima opposizione politica. E via andare in civile e rispettosa alternanza.
C’è però da riflettere su cosa sia accaduto dopo il 2011, in Tunisia e nella regione. Sebbene molti analisti si siano affrettati ad archiviare l’entusiasmo per le primavere arabe annunciando l’epilogo di quella esperienza nel cupo autunno islamista e sebbene l’evoluzione delle rivoluzioni in nord Africa e Medioriente abbia spesso assunto tratti contro-rivoluzionari, molti indicatori suggeriscono che sia un po’ troppo presto per cantare il requiem. Soprattutto considerando che nessuna rivoluzione si è mai compiuta nel giro pochi anni e che per esempio quella francese, sommo punto di riferimento occidentale, abbia impiegato circa un secolo ad affermare i principi del 1789. Certo, la Siria è ormai una trincea, ma in quel caso la protervia di Assad nel non seguire i colleghi Mubarak e Ben Ali e la sua ferocia senza limiti hanno massacrato nel sangue le ambizioni dei giovani destinandole all’agonia per mano degli sgherri di Damasco o per mano jihadista. Già in Libia però, nonostante il paese sia una polveriera, la popolazione terrorizzata dal caos non rimpiange Gheddafi: prova che la disintegrazione dello Stato non sia la conseguenza della caduta del Colonnello ma il suo «regalo» maledetto ai ribelli, un’accozzaglia anarchica di tribù da lui stesso frammentate in 40 anni di regime. L’Egitto poi è un’altra storia ancora, e per quanto il presidente el Sisi sia più che tentato dall’autoritarismo nasseriano gli egiziani sono cambiati per sempre, non hanno più paura, patiscono e molto gli arresti arbitrari ma non rinnegano di aver loro stessi chiamato in campo l’esercito per difenderli dall’avidità di potere dei non rimpianti Fratelli Musulmani di Morsi (casomai cercano di organizzarsi per uscire dalla dicotomia blindata caserme/moschee).
La Tunisia, dunque. Ennadha secondo partito e i laici un po’ passatisti primi. Rispetto al 2011 queste elezioni sono state caratterizzate da una forte polarizzazione. Allora si moltiplicarono voci, volti, liste, partiti. Stavolta si è andati alle urne pro Ennadha (anche in quanto icona della complicata gestione del paese nei passati 3 anni) o contro Ennahda. La eterna condanna a barcamenarsi senza uscita tra dittatori religiosi o dittatori laici? No. Un passo avanti e due indietro i tunisini hanno fatto i conti con la loro storia, si sono trovati di fronte al mondo grande e terribile dopo aver ammazzato il padre e hanno cominciato a prendere coscienza delle possibilità ma anche delle responsabilità del diventare adulti.
Nel 2011, come si diceva, i tunisini premiarono Ennahda. Ricordo il ritorno da Londra di Rachid Gannouchi (il presidente di Ennahda) che non fu il bagno di folla di Komehini ma comunque un bel «welcome back» da parte del paese fiero della sua tradizione laica, la Costituzione senza menzione della sharia, la partecipazione femminile, il divorzio, l’aborto, il diritto di voto a 360 gradi. Eppure i tunisini scelsero liberamente ciò che fino a quel momento gli era stato negato come la libertà. Lo stesso accadde in Egitto, i perseguitati Fratelli Musulmani ottennero la maggioranza anche grazie ai voti di molti liberal fiduciosi nella loro capacità politica e nelle promesse democratiche. Ma se in Egitto i Fratelli Musulmani hanno mancato la chance storica di accreditarsi come credibile forza democratica - governano per un anno male, con avidità di potere, umiliando la minoranza, scrivendosi la Costituzione da soli - in Tunisia sembrano essersi fermati in tempo. Di più, anziché trasformarsi come in Egitto in nemici della patria potrebbero accreditarsi ora come i salvatori della patria, quelli che hanno rinunciato a tenere il punto per traghettare tutti fuori dall’empasse politico del 2013.
Il 2013 è stato un anno per certi versi simile in Egitto e in Tunisia. Anche in Tunisia infatti la popolazione che pure li aveva votati ha cominciato presto a denunciare il pericoloso flirt dei Fratelli Musulmani con i salafiti, rei di attacchi sempre più violenti contro i locali per turisti, le associazioni sindacali, i simboli della Tunisia laica. Nell’estate del 2013, mentre l’esercito egiziano sterminava la protesta dei Fratelli Musulmani accampati nella cairota Nasr City dopo la rimozione di Morsi, la Tunisia, già colpita dagli omicidi politici dei liberal i Chokri Belaïd e Mohamed Brahmi, scivolava pericolosamente verso una analoga contrapposizione senza uscita. Anche perché analoga era l’incapacità dei partiti liberal democratici di associarsi in una coalizione credibile e competitiva. Racconta chi c’era che a quel punto Ennahda ha capito. Che la paura di una soluzione «alla egiziana» ha ricondotto i radicali a più miti consigli e il governo (islamico) a fare un passo indietro e riconsegnare il proprio mandato. A gennaio 2014 è stata approvata la Costituzione, non una Costituzione a forte impronta islamista come quella voluta da Morsi alla fine del 2012, ma una mediazione in cui dopo un duro braccio di ferro si è convenuto nel non menzionare la sharia. Adesso il voto: la volta scorsa i partiti islamici, stavolta Nidaa Tounes che diversamente da Ettakatol e il Congresso può rivendicare di non aver governato in passato con gli avversari di Ennahda. Nulla osta tra l’altro a questo punto che i due rivali decidano a un certo punto di tendersi la mano e formare un governo di unità nazionale, soluzione quasi obbligata in mancanza di una maggioranza assoluto.
È il trionfo delle primavere arabe vendicate da una alternanza alla urne tutto sommato rispettosa delle parti in campo? Presto per dirlo. La crisi economica divora l’anima della Tunisia arricchendo le fila di quelli senza speranza che partono alla volta dell’Europa, per un lavoro, o alla volta della Siria, per la jihad. Tra un paio di settimane c’è da eleggere il presidente. La confinante Libia è in fiamme. Ma la storia è tutto fuorché finita e oggi è il giorno di congratularsi con i tunisini, con i vincitori e con Ennadha.
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