martedì 1 marzo 2016

il furto della vita

Il furto della vita: nuove forme di schiavitù

by JLC
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di Lea Melandri*
«La versione moderna della tratta - scrive Kevin Bales (I nuovi schiavi, Feltrinelli 2000) - si serve di passaporti falsi e biglietti aerei. Carica gli schiavi su camion e compra le guardie di frontiera. Copre le proprie tracce con finti contratti di lavoro e visti contraffatti. Fa con gli esseri umani ciò che il crimine organizzato fa con l’eroina». Ancora più esplicito è il giudizio di Alessandro Dal lago (Non-persone, Feltrinelli 1999): «È vero che esistono i ‘negrieri’ che realizzano profitti sulla pelle dei migranti e li lasciano annegare al primo segnale di pericolo. Ma è anche vero che l’evocazione ossessiva di ‘negrieri’ e ‘trafficanti di uomini’, quando si parla di clandestini, è un comodo alibi per non parlare del significato delle migrazioni. In realtà l’opinione pubblica prevalente non riesce ad ammettere che all’offerta criminale del trasporto corrisponda una domanda, e cioè il fatto che gli stranieri avranno pur scelto, per qualsiasi ragione, di intraprendere questo viaggio dall’altra parte del mondo».
Al di là delle forme storiche in cui si è manifestata, e delle ragioni di volta in volta diverse che ne sono alla radice - la cattura, la miseria, il vincolo da indebitamento -, la schiavitù ha sempre avuto due aspetti prevalenti, anche se risulta a tutt’oggi difficile distinguerli e metterli in relazione. Il profilo sotto il quale viene letta quasi unanimemente è quello economico: “carne da lavoro”, merce a basso costo, spesso non pagata, priva di qualsiasi diritto, eccellente risorsa per l’impresa capitalistica, sia che venga utilizzata fuori dai confini nazionali, sia che viva negli “interstizi” della nostra società. Più misteriosa, sepolta nelle oscure origini della specie umana, è invece la parte che ha la componente biologica, sessuale e psichica nel giustificare il “furto della vita”, nel mettere gli uni di fronte agli altri “individui con potere assoluto e individui senza nessun potere”.
Su quel particolare dominio, fatto di violenza e seduzione, assoggettamento e presa in custodia, che ha lasciato segni così duraturi nel rapporto tra maschi e femmine, adulti e bambini, bianche e neri, non c’è dubbio che ha influito l’elemento naturale, corporeo visto, nella sua diversità, come pericoloso. L’attrazione suscitata dal corpo femminile conosciuto in uno stato di primordiale indistinzione alla nascita, e poi di dipendenza totale nelle prime cure, non poteva che radicare nella memoria degli individui desideri opposti di passività e attività, di morte e di vita. Nonostante sia cambiata nel tempo la condizione femminile, e più diffusa l’attenzione alle sofferenze che si infliggono, consapevolmente o meno, ai più piccoli, le donne e i bambini restano le figure emblematiche di una schiavitù in cui appaiono insieme, inscindibili, abuso sessuale e sfruttamento economico, esercizio violento del controllo e offerta di protezione, messa al bando dai riconoscimenti sociali e giuridici e riduzione allo stato di “non-persone”: corpo biologico, cose, merci.
Non è solo l’esplosione demografica e il crollo delle economie tradizionali, sotto l’urto della mondializzazione del mercato, a lasciare allo scoperto una popolazione di bambini e di giovani donne, materia umana già addestrata all’obbedienza, caricata precocemente di responsabilità verso i famigliari, abituata a trasformare la coercizione in adattamento. Le strade per “sensali”, agenti, trafficanti assoldati dalle grandi imprese, alla ricerca di manodopera a basso costo, sono già aperte da vincoli affettivi e ideologici sedimentati in una lontana memoria senza tempo.
In India, in Brasile, in Pakistan, in Thailandia, come nei quartieri di Palermo e Napoli, sono i genitori a consegnare bambini in “esubero”, figlie disposte a garantire con la loro vita un debito contratto dalla famiglia. Inoltre, quand’anche mancasse il consenso dei genitori, o l’iniziativa personale, resta sempre, comunque, quell’elemento di debolezza, suggestionabilità e resa di fronte all’uso della forza, che fa delle donne e dei bambini gli esseri umani più esposti al rapimento, e più inclini a ritorcere in colpa propria la violenza subìta.
Se “razze”, popoli e gruppi sociali hanno potuto essere considerati solo come “nuda vita”, privi di ogni diritto, costretti a lavorare in cattività o destinati allo sterminio, e se oggi un trattamento analogo viene riservato a persone “colpevoli” di spostarsi da un punto all’altro del pianeta per guadagnarsi da vivere, non è solamente per la potenza delle armi e del denaro, ma perché non si è voluto, o potuto, finora guardare a fondo nel retroterra della civiltà, in quel misterioso snodo tra biologia e storia che ha visto confinata una parte degli esseri umani nella “natura”, fuori dalle regole della civile convivenza. Fatti “sparire” dalla scena pubblica, lasciati a lungo nel “limbo” di un’esistenza solo fisica, alle donne e ai bambini è toccata la “visibilità” che ha dato loro l’uomo come figure immaginarie della nostalgia, del desiderio, della paura, della speranza. Forse è per questo che le loro ombre ancora inquietano i sonni della civiltà.
JLC | marzo 1, 2016 alle 10:03 am | Etichette: dominiodonnemigran

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