Il deserto assolato, il mare tempestoso, le angherie degli scafisti non lo avevano scoraggiato. La fame, la sete, il freddo, la stanchezza non lo avevano piegato. Troppo grande era in lui il desiderio di libertà. E di dignità. Il bisogno di sentirsi uomo. Si chiamava Celestine e aveva 20 anni appena. Era partito dalla Nigeria. In Libia si era imbarcato poi su uno dei tanti barconi malandati. Da Lampedusa era approdato ad Aversa, la diocesi guidata dal vescovo Angelo Spinillo. Nel centro Caritas aveva finalmente avuto un letto. E un piatto caldo. I soprusi, gli oltraggi, i maltrattamenti dei mesi passati erano ormai alle spalle.
Nel centro Celestine era benvoluto e rispettato dagli ospiti e dai volontari. Dal vescovo e da don Carmine, il direttore. Ma a Celestine non bastava. Lui non voleva mangiare a sbafo. Non voleva essere accudito, voleva lavorare. Lui aveva 20 anni e una forza da leone. Lui voleva essere protagonista della sua vita. Il centro gli stava stretto, ma non lo dava a vedere. A volte cadeva, è vero, in una sorta di muta malinconia. Ma chi, tra gli ospiti, non cede a momenti di tristezza, di solitudine, di angoscia? Nella vita c’è chi si avverte come la radice di una grande quercia e rimane legato al luogo dove è nato e chi, invece, sente di avere le ali ai piedi. E vola come seguendo il richiamo di una sirena. E sa che la sua patria è il mondo. E dovunque si sente a casa. Si chiamava Celestine. Un nome che ricorda il cielo quando il tempo è bello. E il mare quando, calmo, fa l’amore con il sole. Celestine: come il manto di Maria dopo il dolore della croce.
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Aspettava il permesso di soggiorno, Celestine. E contava i giorni. Erano già passati nove mesi da quando era arrivato in Italia. Aveva ancora negli occhi il terrore della morte e il ricordo degli amici ingoiati dal Mediterraneo. Emigrare non è reato. Non può esserlo. Non deve esserlo. Mai. Tutti hanno il diritto di scappare dai luoghi dove non si può più vivere. Dove tanti uomini si fanno lupi rapaci e serpi velenose per i fratelli. Dove la terra è arida e i corsi d’acqua vengono deviati. Dove il sottosuolo viene saccheggiato. E i bambini e le donne vengono stuprati e uccisi. La terra è di tutti. A tutti è stata donata in dono. “Anche Gesù – ha detto papa Francesco – è stato un profugo”. Non è difficile comprendere che cosa passi nel cuore di chi fugge affrontando il mare su una “bagnarola” in balia di criminali senza scrupoli. Non è difficile, basta solo scambiarsi per un attimo camicia, giacca e pantaloni. Dismettere i propri e indossare quelli bagnati e sporchi di chi, febbricitante, giunge sulle nostre coste.
Pochi giorni fa la sentenza che Celestine attendeva, è arrivata ed è stata come una picconata in testa. Un pugno nello stomaco. Una ferita al cuore. Lo status tanto desiderato non gli era stato riconosciuto. E adesso? Che sarebbe accaduto adesso? “Non ti scoraggiare, Celestine, non perdere la speranza. Ora prepariamo il ricorso in tribunale. Vedrai che ce la farai. Su, non farti vedere con quel muso …”, gli diceva don Carmine. Anche gli amici gli davano forza. Lunedì scorso, a tratti, era apparso finanche allegro. Le prime ombre della notte avevano spinto nelle loro stanze ospiti e volontari.
Che cosa è successo, poi? Celestine si è messo a passeggiare sul terrazzo. Un turbinio di pensieri lo hanno soffocato. Si è sentito solo. Tanto solo e indesiderato in un paese straniero. Ci sono momenti in cui la forza di lottare ti abbandona e tu avverti nel cuore un vuoto spaventoso. La vita è un mistero insondabile come lo è la morte. Celestine ha ceduto, si è arreso, si è lasciato andare. Lo hanno trovato agonizzante sul selciato del cortile. Pochi minuti dopo, tra le braccia di chi aveva imparato a volergli bene, esalava l’ultimo respiro. Lontano dalla sua terra e dal suo popolo.
La Chiesa di Aversa piange come un figlio questo giovane africano assetato di libertà e di dignità.