mercoledì 31 dicembre 2014

"odio il capodanno" firmato Antonio Gramsci

Odio il capodanno di Antonio Gramsci: una riflessione intorno alla fine dell'anno

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GRAMSCI
Questa lunga riflessione di Antonio Gramsci è molto più che un pensiero intorno al Capodanno. È un inno alla ricchezza della vita, alla sua poliedricità, all'importanza fondamentale che ogni giorno rappresenti nella via di un uomo una deadline con cui confrontarsi: perché ognuno di noi renda conto a se stesso in ogni attimo e non solo nei buoni propositi di fine e inizio anno. Vi proponiamo il testo integralmente:
Ogni mattino, quando mi risveglio ancora sotto la cappa del cielo, sento che per me è capodanno.
Perciò odio questi capodanni a scadenza fissa che fanno della vita e dello spirito umano un’azienda commerciale col suo bravo consuntivo, e il suo bilancio e il preventivo per la nuova gestione. Essi fanno perdere il senso della continuità della vita e dello spirito. Si finisce per credere sul serio che tra anno e anno ci sia una soluzione di continuità e che incominci una novella istoria, e si fanno propositi e ci si pente degli spropositi, ecc. ecc. È un torto in genere delle date.
Dicono che la cronologia è l’ossatura della storia; e si può ammettere. Ma bisogna anche ammettere che ci sono quattro o cinque date fondamentali, che ogni persona per bene conserva conficcate nel cervello, che hanno giocato dei brutti tiri alla storia. Sono anch’essi capodanni. Il capodanno della storia romana, o del Medioevo, o dell’età moderna.
E sono diventati così invadenti e così fossilizzanti che ci sorprendiamo noi stessi a pensare talvolta che la vita in Italia sia incominciata nel 752, e che il 1490 0 il 1492 siano come montagne che l’umanità ha valicato di colpo ritrovandosi in un nuovo mondo, entrando in una nuova vita. Così la data diventa un ingombro, un parapetto che impedisce di vedere che la storia continua a svolgersi con la stessa linea fondamentale immutata, senza bruschi arresti, come quando al cinematografo si strappa il film e si ha un intervallo di luce abbarbagliante.
Perciò odio il capodanno. Voglio che ogni mattino sia per me un capodanno. Ogni giorno voglio fare i conti con me stesso, e rinnovarmi ogni giorno. Nessun giorno preventivato per il riposo. Le soste me le scelgo da me, quando mi sento ubriaco di vita intensa e voglio fare un tuffo nell’animalità per ritrarne nuovo vigore.
Nessun travettismo spirituale. Ogni ora della mia vita vorrei fosse nuova, pur riallacciandosi a quelle trascorse. Nessun giorno di tripudio a rime obbligate collettive, da spartire con tutti gli estranei che non mi interessano. Perché hanno tripudiato i nonni dei nostri nonni ecc., dovremmo anche noi sentire il bisogno del tripudio. Tutto ciò stomaca.
Aspetto il socialismo anche per questa ragione. Perché scaraventerà nell’immondezzaio tutte queste date che ormai non hanno più nessuna risonanza nel nostro spirito e, se ne creerà delle altre, saranno almeno le nostre, e non quelle che dobbiamo accettare senza beneficio d’inventario dai nostri sciocchissimi antenati.
Antonio Gramsci, 1 gennaio 1916, Avanti!, edizione torinese, rubrica Sotto la Mole.

Finale Ligure-S.Bernardino dopo i Verdi e il Comune ora intervengono pure gli albergatori

Disboscamento a San Bernardino: l’associazione albergatori del Finalese lancia l’allarme

Bosco Savona
FOTO D'ARCHIVIO
Finale L. L’associazione Alberghi di Finale Ligure e Varigotti non nasconde la propria preoccupazione per le opere di disboscamento che nelle ultime settimane stanno interessando l’area di San Bernardino, area tutelata e riconosciuta come Sito di Interesse Comunitario.
Secondo gli albergatori l’intervento avrà ripercussioni negative sul turismo: “Sappiamo che l’amministrazione comunale sta facendo quanto in suo potere per porre fine a questo scempio e appoggiamo con piena fiducia le iniziative intraprese dal nostro Sindaco Ugo Frascherelli, ma siamo altresì consapevoli che la macchina burocratica sia molto più lenta di quella umana e che i lavori stanno continuando a spron battuto” osserva il Presidente Milena Polliani.
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“In attesa della sentenza del TAR che verrà emessa l’8 gennaio prossimo ogni giorno le opere di disboscamento continuano senza sosta, intervenendo su antiche mulattiere e demolendone parzialmente i muretti ed i selciati di origine medioevale. Purtroppo sarà molto difficile riuscire a rimediare ai danni già fatti e temiamo che questi atti possano avere una ricaduta negativa sul turismo legato all’outdoor che negli ultimi anni sta mantenendo alto il numero di presenze a Finale, soprattutto fuori stagione” conclude il presidente dell’associazione albergatori Milena Polliani.

festival mondiale delle resistenze e delle ribellioni

Una danza comune della dignità

by maomao comune
Al Festival mondiale delle Resistenze e delle Ribellioni, racconta Gustavo Esteva, sono venuti quelli che della rivoluzione hanno fatto un verbo. Sanno che non si tratta di pensarla, di immaginarla, di sognarla. Non si tratta di prepararla, programmarla e, pensate un po', non si tratta neppure di farla. Si tratta di viverla, la rivoluzione. Di sperimentarla giorno per giorno. Si tratta, come diceva Iván Illich, di vivere il cambiamento anziché dipendere dall'ingegneria sociale. Non c'è bisogno di occupare o distruggere gli apparati putrefatti della dominazione per sostituire gli amministratori statali perché ballino un'altra musica. Si tratta di ballare la nostra musica. Gli zapatisti dell'Ezln e gli indigeni messicani del Cni hanno convocato il Festival ma cedono la prima parola ai compagni e ai familiari degli studenti assassinati e desaparecidos della scuola normalista rurale di Ayotzinapa. La loro tragedia è il simbolo della rottura, del momento in cui è caduto il velo che occulta l'orrore in cui vogliono farci vivere. Per questo il Festival nasce nel dolore e per il dolore, celebra l'agonia di un sistema che corre verso la distruzione della società e del pianeta ma è anche una festa, una "danza comune della dignità"
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Primo Festival Mundial de las Resistecias y las Rebeldías contra el Capitalismo, nella comunità nahua de Amilcingo, Morelos. Foto Somos el medio
di Gustavo Esteva
È cominciato, infine, il primo Festival Mondiale delle Resistenze e delle Ribellioni contro il Capitalismo. Vi sono innumerevoli resistenze, ribellioni e lotte anticapitaliste, ma esistono molte e buone ragioni per affermare che questo festival è il primo nel suo genere.
È stato convocato nel dolore e per il dolore. La prima e più importante parola viene data a coloro che rappresentano il dolore di Ayotzinapa, che ha raggiunto una dimensione mondiale. E riguarda l’agonia di un sistema. Però è una festa, un’espressione della militanza gioiosa, non di un funerale.
In una lettera ad alcuni compagni argentini, più di dieci anni or sono, il defunto Sup, osservò "che la musica, il ballo, il cibo e il sentimento sono ingredienti fondamentali per la costruzione di quello che alcuni chiamano utopia". E ricordò che in Messico vi era gente decisa a "smascherare i potenti con una festa che alcuni sconclusionati chiamano sollevazione e che non è altro se non la danza comune della dignità. La danza nella quale l’essere umano sta, ed è umano".
Celebrare, diceva Ivan Illich, è un invito ad affrontare i fatti anziché battersi con le illusioni. È vivere il cambiamento invece di dipendere dall’ingegneria sociale. È scoprire "ciò che dobbiamo fare per usare il potere dell’umanità per creare l’umanità stessa, la dignità e il piacere in ciascuno di noi".
Dobbiamo introdurre il desiderio nel pensiero, nel discorso, nell'azione, come suggeriva Foucault, affinché esso dispieghi le sue forze nel campo della dominazione politica e diventi più intenso nel processo di ribaltare l’ordine costituito. Si tratta diintrecciare l’arte erotica, teorica e politica, per lottare contro il fascismo, in particolarecontro "il fascismo che è dentro tutti noi, nelle nostre teste e nel nostro comportamento quotidiano, il fascismo che è all’origine del nostro amore per il potere, del nostro desiderare proprio ciò che ci domina e ci sfrutta". Per essere militanti non è necessario essere tristi, diceva Illich, "anche se ciò contro cui sta lottando è abominevole".
"La disobbedienza civile non è un nostro problema", diceva Howard Zinn. "Un nostro problema è l’obbedienza civile". Il fatto che la gente segua gli ordini dei suoi leader che la portano alla guerra. Che obbedisca di fronte alla miseria, alla fame, alla stupidità e alla crudeltà. Che continuiamo a essere obbedienti "quando le carceri sono piene di piccoli delinquenti, mentre invece i grandi criminali sono liberi e continuano a derubare il paese. Questo è il nostro problema".
E sebbene queste note di fine anno siano diventate la casa delle citazioni, ne aggiungo un’altra, di Teodor Shanin: "Finché c’è scelta, c’è speranza. Fin quando c’è speranza, la gente cerca la verità, sogna un mondo migliore e lotta per costruirlo. Finché la gente cerca, sogna e lotta, c’è speranza".
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Foto: Fabiola Gutierréz Quiroz/Somoselmedio.org
Il festival oggi è costruito attorno ad Ayotzinapa perché è chiaramente il simbolo della rottura e della commozione, il momento in cui è stato tolto il velo che occulta. È certo che molti chiudono di nuovo gli occhi, si tappano le orecchie, non vogliono sapere. Alcuni lo fanno per paura. Altri per avidità, per interesse. Altri ancora per l’angoscia, per disperazione, perché non possono evadere dalle loro prigioni mentali o politiche.
Ma vi sono molti e molte altre, milioni di persone, che rifiutano di chiudere gli occhi.Non vogliono, non possono né devono restare tranquilli e tranquille.
Sono venuti al festival coloro che della parola rivoluzione hanno fatto un verbo. Sanno che non si tratta di pensare la rivoluzione, di immaginarla, di sognarla. E neppure di prepararla, programmarla o perfino di farla. Si tratta di viverla, di sperimentarla giorno per giorno.
Il verbo rivoluzionare esprime quella capacità amorosa e gioiosa che tutti e tutte abbiamo quando trasformiamo il dolore e la degna rabbia in ribellione e così facendo costruiamo il cammino dell’emancipazione. Rivoluzionare significa che ormai sappiamo che non c’è bisogno di leader, piattaforme, partiti, strategie o programmi rivoluzionari. E che non si tratta di occupare o di distruggere gli apparati putrefatti della dominazione, di conquistare il "capitale" come se fosse una cosa e non una relazione, di sostituire i suoi amministratori statali, perché questi apparati ballino un’altra musica, la nostra, per esempio, quella di coloro che abbiamo issato su per occupare il posto di coloro che abbiamo scacciato...
Si tratta di ballare la nostra musica, certo, non quella che ci viene suonata da altri; ma bisogna farlo qui in basso, fra quanti abbiamo imparato che lottare è come respirare e che possiamo respirare o vivere solo lottando per costruire un mondo nuovo. Oggi. Qui. Ogni giorno. Ogni notte. Come ha detto il subcomandante Moisés: "Qui in basso, ogni giorno, siamo sempre più numerosi a impegnarci a lottare, senza chiedere scusa per essere ciò che siamo e senza chiedere il permesso per esserlo".
fonte: la Jornada. Titolo originale: La resistencia a obedecer
traduzione per Comune-info: Camminar domandando
Gustavo Esteva vive a Oaxaca, in Messico. I suoi libri vengono pubblicati in diversi paesi del mondo. In Italia, sono stati tradotti: «Elogio dello zapatismo», Karma edizioni: «La Comune di Oaxaca», Carta; e, proprio in questi mesi, per l’editore Asterios gli ultimi tre: «Antistasis. L’insurrezione in corso»; «Torniamo alla Tavola» e «Senza Insegnanti». In Messico Esteva scrive regolarmente per il quotidiano La Jornada ma i suoi saggi vengono pubblicati anche in molti altri paesi. In Italia collabora con Comune-info.
Tutti gli altri articoli di Gustavo Esteva usciti su Comune-info sono qui
Un piccolo nucleo di amici italiani di Esteva, autodenominatosi “camminar domandando”, nei mesi scorsi ha stampato il testo della conversazione tenuta da Esteva a Bologna nell’aprile 2012 (i temi in parte sono gli stessi degli incontri tenutisi nell’occasione a Lucca, in Val di Susa, Torino, Milano, Venezia, Padova, Firenze e Roma):  “Crisi sociale e alternative dal basso. Difesa del territorio, beni comuni, convivialità”. (chi vuole, può scaricarlo su www.camminardomandando.wordpress.com).

2015:anno del clima pure in Italia?

Francesca Santolini Headshot

Il 2015 sarà l'anno del clima (speriamo anche in Italia)

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INQUINAMENTO
Nel corso del 2014 ogni settore della nostra economia industriale ha avvertito il peso del cambiamento climatico. Ancora più significativo è stato il fatto che il tema delle conseguenze del cambiamento climatico è stato finalmente associato, nella percezione di molti, a temi come la povertà, l'urbanizzazione, gli stili di vita, gli standard economici e lo sviluppo delle comunità. Tutte questioni che fino a poco tempo fa eravamo abituati a vedere rappresentate come rette parallele su qualunque grafico.
Anche la politica ha compiuto qualche passo. E l'anno che finisce ha visto, ad esempio,iniziative molto coraggiose da parte del presidente Obama insieme all'assunzione di impegni più precisi da parte dell'Unione europea e un'inedita disponibilità dell'India a tenere conto della scienza del clima e dunque a modificare i propri piani energetici.
Esiste dunque la possibilità che il prossimo anno sia decisivo per l'economia sostenibile, soprattutto se guardiamo ad alcuni temi che domineranno le nostre decisioni. Sono sempre più numerose le aziende che riconoscono il cambiamento climatico come una realtà. Si prevede che l'impatto economico dell'innalzamento della temperatura e del cambiamento climatico sarà percepito entro quattro o cinque anni. E un buon indizio è il Rapporto Standards & Poor nel quale si valutano le aziende anche sulla base della loro consapevolezza dei temi ambientali e del loro impatto sugli andamenti dei mercati.
Dovremmo immaginare che già nel prossimo futuro previsioni di questo genere assumano proporzioni concrete e diventino un elemento permanente di ogni valutazione del rischio economico, di ogni piano di sviluppo aziendale, di ogni decisione finanziaria o di nuovo investimento. D'altra parte alcune grandi aziende, si pensi ad esempio alla Microsoft, hanno già definito una valutazione economica interna per le emissioni di carbonio allo scopo di "educare" le proprie scelte di investimento. Altre aziende hanno iniziato ad associare le quantità di emissioni di carbonio con i risultati di mercato, la qualità di vita delle comunità, i dati sull'urbanizzazione e gli altri elementi che definiscono la crescita economica.
Numerose aziende adattano le proprie strategie agli "Obiettivi del Millennio per uno sviluppo sostenibile" delle Nazioni Unite. La nuova agenda per lo sviluppo e la sostenibilità delle Nazioni Unite per il post 2015 ha focalizzato le priorità da obiettivi tradizionali come la riduzione della povertà e l'aumento dell'igiene ad obiettivi più inclusivi e integrati come lo Stato di diritto, la dignità e la prosperità sociale. Con implicazioni molto significative anche per il mondo imprenditoriale: per la prima volta le aziende sono chiamate a farsi parte attiva nel collegare ambiente e crescita economica. Per la prima volta i capitalisti sono accolti, benvenuti e caldamente richiesti al tavolo. Per la prima volta c'è piena consapevolezza del fatto che la strada verso un'economia interconnessa richiederà la forza specifica di ogni singolo settore.
Ma come può un'azienda assicurarsi di coordinare i propri piani di sviluppo con i nuovi obiettivi delle Nazioni Unite? Ad esempio iniziando ad investire sulla pianificazione strategica. Se la maggior parte dei fornitori di un'azienda è localizzata in Bangladesh, ad esempio, le domande da farsi saranno: l'azienda è pronta a gestire le implicazioni distruttive di un uragano o di un'inondazione nella regione, con la conseguente perdita di vite umane e di infrastrutture logistiche? Investire in riserve di acqua o nella formazione di personale specializzato in emergenze di questo tipo non potrebbe rafforzare l'azienda? Una pianificazione strategica di questo tipo è in grado di assicurare non solo una maggiore solidità dell'azienda, ma anche un più vasto coinvolgimento del personale e delle comunità locali nelle decisioni fondamentali sul suo sviluppo.
"A prova di futuro", è così che si stanno reinventando le grandi aziende nel ventunesimo secolo, il secolo del cambiamento climatico. Essere "a prova di futuro" - sia per un'organizzazione che per un'impresa - significa avere una visione di lungo termine e la responsabilità di agire anche per i diritti delle future generazioni.

Italia.fuga di cervelli ma anche di servitori dello stato

CARLO BERNARDINI – La ricerca scientifica e la fuga dei servitori dello Stato

carlobernardiniSi è molto parlato del problema della fuga dei cervelli, fino a farlo diventare un luogo comune. E, in effetti, per l’Italia questo è stato un problema cronico, come dimostrato, per esempio, dalla dissoluzione pre-bellica della Scuola di fisica di Roma, aggravata delle minacce razziste. Eppure, nei personaggi come Pietro Blaserna, Orso Mario Corbino, Enrico Fermi e i loro allievi e collaboratori, c’erano tutte le premesse per una vera “politica della ricerca” di straordinario livello; azzerata negli anni da miserevoli fatti politici e non da corruzione dell’ambiente accademico. E non penso solo ai fisici, ma anche ai biologi come Renato Dulbecco, Daniel Bovet, Giuseppe Montalenti, Rita Levi Montalcini; a chimici come Natta, a matematici come De Giorgi: tutti nomi da ripescare da un ingiusto dimenticatoio: quanti sanno che grazie a Antonio Ruberti l’Italia ha avuto una stazione di ricerca in Antartide? I nostri giovani sanno davvero cosa era la “politica della ricerca”?
Tuttavia, possiamo ricordare che subito dopo la fine della guerra, il fenomeno ha stimolato le menti rimaste fortunosamente in patria a riorganizzare la struttura del sistema di ricerca, particolarmente in alcuni settori molto avanzati come quello della fisica. Sono spuntati perciò, allora, accanto a ricercatori di eccellente cultura e competenza, anche alcuni scienziati che hanno ritenuto indispensabile “far politica”, cioè sviluppare un settore di importanza primaria per lo sviluppo del Paese e del welfare. Per esempio, Edoardo Amaldi, allievo di Enrico Fermi (che già aveva conquistato il Nobel nel 1938 con le sue ricerche romane sulla fisica dei neutroni).
Amaldi comprese ben presto che bisognava riattivare le collaborazioni sia tra i fisici italiani che tra gli italiani e quelli di tutto il resto del mondo, avendo una chiara idea – ben prima che si parlasse di unificazione europea – del fatto che l’evoluzione culturale non può essere che un’impresa sovranazionale. Amaldi si rivelò così quello che oggi possiamo chiamare un perfetto servitore dello Stato perché le sue proposte, più che mirare al soddisfacimento di suoi interessi personali o accademici, puntavano alla promozione dell’accreditamento mondiale della fisica italiana.
Fu così che Amaldi, già ben noto a tutta la comunità internazionale, si qualificò come il promotore principale di imprese (Europee!!!) come la CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio), EURATOM (per lo sviluppo dello sfruttamento dell’Energia Atomica), il CERN (Centro Europeo di Ricerca Nucleare) e, più tardi, dell’ESA (European Space Agency): in tutte queste imprese gli scienziati italiani ebbero collocazioni e ruoli di primo piano, ivi compresa una intensa attività di freno delle attività militari industriali accompagnata da una politica disarmista internazionale (Movimento Einstein Russell; Unione degli Scienziati per il Disarmo).
Amaldi trovò un terreno fertile sia nel suo campo specialistico che in quello politico, indipendentemente dalle esigenze ideologiche di ciascuna politica): sicché le sue imprese lasciarono un segno che ancora oggi è chiaramente visibile nelle strutture di ricerca che abbiamo ereditato: particolarmente l’INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare), con i suoi laboratori nazionali,  aperti all’attività senza limiti geografici. Le modalità di gestione potevano vantarsi, per precisa scelta dei promotori, di servire a tenere a bada gli eccessivi vincoli burocratici degli ambienti ministeriali ed erano in particolare affidate a consigli scientifici elettivi, che pure contenevano un esiguo numero di funzionari con mero ruolo di consulenza nel merito, e non da Consigli di amministrazione.
Amaldi si giovò del contributo di tutti i suoi colleghi, ma, in particolare, di alcune figure dinamiche e intraprendenti, come quella di Felice Ippolito, che staccò dal CNR – Consiglio Nazionale della Ricerche – un CNRN dedicato al settore nucleare. Tutta la comunità scientifica nazionale dette il pieno consenso a queste iniziative.
Un fenomeno da segnalare è quello del reclutamento di laureati che, nonostante la giovanissima età, si vedevano affidate responsabilità di realizzazione di progetti, sotto la direzione di esperti appena più anziani di loro. Tra questi, la memoria va in particolare al già menzionato professor Felice Ippolito, che arrivò a sfidare le resistenze del vecchio apparato industriale procedendo alla pretesa del controllo pubblico di attività remunerative come l’uso delle risorse energetiche, pagando personalmente con un processo memorabile il suo coraggio lungimirante.
Nello stesso periodo, si svolsero altri avvenimenti dovuti a questa dinamica intraprendenza di dirigenti non condizionati dalla politica che già difendeva interessi privati (vedi il caso estremo di Enrico Mattei).
A questo punto, è il caso di chiedersi: dove sono finiti i veri servitori dello Stato? Oggi, infatti, sembra che l’ambiente scientifico italiano sia progressivamente ricaduto nella palude stagnante degli interessi meramente accademici, come se fosse una componente anomala della società politico-intellettuale.
Se non avremo figure di “illuminati decisionisti” disposti ad assumersi la responsabilità di mettere in moto progetti nuovi e promettenti di ricerca, liberandosi da modelli economici senza prospettive di lunga durata, l’Italia è destinata a subire le pretese di altre sovranità nazionali. E’ quindi interesse e compito di tutti noi orientare l’informazione sulle figure promettenti, senza esaurire il dibattito nei meandri dell’inefficienza spesso anche dolosa: invece di continuare a rotolarci nel fango dei corrotti, incominciamo finalmente a fare rivivere la memoria dei migliori, se ci sono ancora Servitori dello Stato rimasti in questo paese che non può essere straordinario solo nei ricordi degli anziani.
Carlo Bernardini
(22 dicembre 2014)

ILVA:un decreto fuorilegge

Ilva, un decreto fuorilegge

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di Antonia Battaglia

Nella seduta del 24 dicembre il Consiglio dei Ministri ha varato un nuovo decreto per lo stabilimento siderurgico Ilva di Taranto, documento non ancora completo e che dovrebbe essere approvato in una nuova riunione prevista per il prossimo 31 dicembre. Se ne conoscono, tuttavia, i punti principali annunciati dal Governo stesso e dal Premier in una nota e in diverse interviste.

Il principio di questo decreto sarebbe la volontà ferma di salvare lo stabilimento Ilva e di dilatare in modo eclatante i tempi, seppur urgentissimi, della messa a norma e della realizzazione delle prescrizioni dell’AIA (Autorizzazione Integrata Ambientale). Senza il rispetto dell’AIA (permesso a produrre), così come aveva sottolineato anche la Corte Costituzionale nel 2013, l’Ilva non può garantire il bilanciamento tra diritto alla salute e diritto al lavoro e pertanto il sequestro degli impianti dovrebbe diventare di nuovo senza facoltà d’uso. Lo ha detto anche la Commissione Europea, che proprio sul non rispetto della direttiva sulle emissioni industriali e sul non rispetto dell’AIA ha mandato all’Italia, il 16 ottobre scorso, il Parere Motivato che fa avanzare la procedura d’infrazione sull’Ilva dritta verso la fase Corte di Giustizia. L’AIA non è stata mai rispettata e sembra quindi, stando a questo nuovo decreto, che continuerà a non esserlo.

Il decreto prevederebbe, infatti, la messa in opera dell’80% delle prescrizioni del piano ambientale entro luglio 2015, rimandando il restante 20% entro una data da definire con un successivo decreto governativo. 20% in cui potrebbero esserci proprio gli interventi più urgenti e costosi, quelli che potrebbero fare la differenza sulla salute dei cittadini.
Il Governo, nella sua nota ufficiale, parla di misure speciali per Taranto, per rilanciare interventi di bonifica e riqualifica della città, mettendo tutto in un unico calderone: emergenze industriali, bellezze naturali e storiche, rilancio del porto, etc. Un pot-pourri di annunci e declamazioni ad effetto che cancella quello che sarebbe dovuto essere il punto centrale di un qualsiasi intervento legislativo su Taranto: la urgente e indifferibile emergenza sanitaria che sta decimando la città.

A monte di tutto c’è la decisione su come affrontare la questione, ovvero: cosa deve essere la siderurgia in Italia? Un settore industriale che basa la sua competitività sulla morte e la malattia senza nessuna remora o un settore industriale moderno, similare a quello di altri paesi industrializzati, che mette al centro i diritti naturali delle persone e che li protegge con le tecnologie necessarie, cosa per la quale occorrerebbero risorse dedicate pari a oltre 8 miliardi di euro (secondo la stima dei tecnici-custodi giudiziari nominati dal Tribunale di Taranto per la gestione del sequestro)? Il Governo risponde, invece, con una cifra imprecisata che sembra non arrivare nemmeno a 1 miliardo.

Perché continuare a produrre basando l’efficienza industriale sempre e soltanto a detrimento della salute dei cittadini?
La strada intrapresa appare, ancora una volta, quella del disconoscimento della realtà dello stato di inquinamento di suolo, falda, acque, e dello stato di salute, gravemente compromesso, della popolazione, la cui aspettativa di vita media (caso eccezionale nel Paese) dà segni di pauroso declino. Secondo dati forniti dalla ASL, infatti, e resi pubblici da Peacelink e Verdi, a Taranto c’è un aumento costante dei casi di cancro, circa 1.000 nuovi malati ogni anno, in controtendenza rispetto al resto d’Italia, il cui tasso è in diminuzione. Il numero di persone che nella provincia di Taranto usufruisce dell’esenzione ticket 048, perché malate di tumore, è passato da 10.964 del 2004 a 21.730 del 2013.

La strada scelta sarebbe, quindi, quella della creazione di una new company, da affittare o vendere tra due o tre anni, in cui confluirebbero risorse provenienti anche dal FESR (Fondo Europeo di Sviluppo Regionale) e dal Fondo di Coesione Sociale. En passant, si ricorda che i fondi europei dovrebbero essere utilizzati dalla Regione Puglia per progetti di sviluppo nei campi dell’innovazione e delle infrastrutture, in linea con i principi europei dello sviluppo sostenibile e della coesione sociale. Inoltre, il Governo recluterebbe una cifra significativa dalla Cassa Depositi e Prestiti generando così una situazione di conflitto con la legislazione europea in materia di aiuti di Stato.

Il primo punto della nota ufficiale sul decreto è dedicato a quella che viene definita la valorizzazione delle “emergenze urbane, storiche e culturali”, da risolvere alla maniera trendy in voga da qualche tempo nella politica governativa, moderna e selfiezzata, con interventi disciplinati da un “Contratto Istituzionale di Sviluppo Taranto” e con la utilissima creazione di un ennesimo “Tavolo” composto da esponenti di varie istituzioni. Le stesse istituzioni che da decenni conoscono lo stato di generale disastro in cui versa la città e che da oggi si dotano di nuovi inutili strumenti, in un trionfo di terminologia amata da una certa sinistra e dai sindacati, per far finta di apportare mirabolanti novità e la definitiva soluzione al caso.

Da oggi “per legge” è lecito immaginare che sarà fatto ciò che da DECENNI gli stessi attori non hanno voluto/saputo fare!
Commissari come se piovesse. Tre commissari: per rilanciare l’azienda, operare il risanamento ambientale e gestire l’investimento pubblico, con una lista incredibile di obiettivi da raggiungere tutti insieme e non si capisce in quale ordine. Proteggere l’ambiente, le persone, rilanciare industrie e economia, ravvivare la storia ritrovando le origini spartane, realizzare gli interventi infrastrutturali necessari per l’ampliamento del porto e renderlo compatibile con il traffico mediterraneo. E poi cultura, turismo, tutto insieme, tutto da fare adesso, subito, con il nuovo “tavolo”. E ancora, accelerazione e semplificazione di tutti gli interventi per ridare al più presto un volto umano e nuovo ad una città che Renzi si è preoccupato di definire “abbandonata dalla politica”.

C’è da rimanere allibiti. Il Governo sembra andare dritto contro la legge europea e sembra voler mettere in ginocchio definitivamente la speranza di vita di migliaia di bambini e di adulti che nascono e vivono ogni giorno a Taranto.

Si vocifera che il decreto potrebbe prevedere la somma di 30 milioni di euro da destinare alla ricerca sui tumori infantili. Una misura straordinariamente terribile. Sembra infatti che, scientemente prevedendo un altissimo numero di casi di tumori persistenti a Taranto, nessun altro luogo come questo appaia ideale per la conduzione di una simile ricerca.

Chi approverà in aula quel decreto deve sapere che allungare ancora i tempi di attuazione dell’AIA vuol dire consegnare la città e i suoi bambini ad anni di malattia e di morte. Lo dicono i dati sui malati di tumore, lo dice la Magistratura con le sue perizie, lo dice lo studio Sentieri, lo dice la Commissione Europea.

(28 dicembre 2014)

appunti sul lavoro minorile in Italia

CHIARA SARACENO – Lavoro minorile in Italia: invisibile e senza protezione

chiara-saracenoSi è a lungo discusso nei mesi scorsi sulla necessità di estendere e unificare le tutele a tutti i tipi di lavoratori. Renzi e la sua maggioranza sostengono di averlo fatto con il Jobs Act. I sindacati viceversa, con gradazioni diverse, sostengono che le tutele sono state indebolite per tutti. Staremo a vedere che cosa succederà veramente. Anche se mi permetto di osservare che i sindacati dovrebbero almeno apprezzare che, finalmente,  in Italia chi perde il lavoro sarà tutelato nello stesso modo, con lo stesso strumento, indipendentemente dal tipo di contratto e dall’ampiezza dell’azienda. E’ un obiettivo per il quale molti si battono da tempo, innanzitutto per una questione di equità.
Nel dibattito che nei mesi scorsi ha visto contrapporre garantiti a non garantiti, lavoratori a tempo indeterminato a lavoratori precari e a tempo, vecchi contro giovani e così via di polarizzazione in polarizzazione, nessuna voce è stata sollevata per quei lavoratori invisibili che sono i bambini e ragazzi sotto i quattordici anni che lavorano in totale condizione di illegalità e non appaiono in nessuna statistica del lavoro. Dato che non dovrebbero lavorare, non possono neppure ufficialmente essere contati.
Il lavoro minorile sotto i quattordici anni è una galassia composta di realtà eterogenee, talvolta non del tutto illegali, come l’aiuto occasionale o stagionale dato ai genitori in campagna, o in negozio. Per non parlare del lavoro più invisibile di tutti: quello delle bambine che si occupano a pieno tempo della casa e dei fratellini. A volte lavorano, illegalmente, molte ore al giorno e il loro guadagno è necessario alle loro famiglie, a volte ricevono una paghetta più o meno simbolica. A seconda che il loro lavoro sia concepito dai genitori come necessario all’economia famigliare, o invece come una sorta di apprendistato integrativo ad una scuola percepita come non sufficientemente utile, abbandonano precocemente la scuola, o la frequentano ad intermittenza, o invece regolarmente. Le stime del fenomeno, che riguarda sia italiani sia stranieri, variano da una fonte all’altra e sono ferme a una quindicina di anni fa, quando l’ISTAT stimava che vi fossero circa 144.000 bambini tra i 7 e i 14 anni “economicamente attivi” – circa il 3 per cento della fascia di età -  mentre uno studio della CGIL ne stimava 400.000 (in entrambi i casi, le bambine-massaie a pieno tempo erano escluse, perché, non guadagnando, non erano economicamente attive). C’è un dato più recente, tuttavia, che apre uno squarcio drammatico sul fenomeno del lavoro dei bambini. E’ passato pressoché sotto silenzio e vale la pena porlo all’attenzione in questo clima di buoni propositi e intenti riformatori. Nell’ultimo rapporto INAIL, relativo al 2013, si trova una tabella che mostra la distribuzione per età degli infortuni sul lavoro denunciati, quindi ufficiali, accertati. Quell’anno, 63.828 minori di 14 anni hanno subìto un infortunio sul lavoro, il 9.19% di tutti gli infortuni dell’anno. Questo numero è rimasto pressoché stabile nell’ultimo triennio (ma è aumentato rispetto al 2009), a fronte di una diminuzione in tutte le altre fasce di età. E’ il doppio circa di quanti quindici anni fa l’ISTAT stimava come piccoli lavoratori soggetti a sfruttamento, all’interno dell’eterogenea galassia dei bambini economicamente attivi. Anche tenendo conto che alcuni di questi incidenti possono essere avvenuti mentre il bambino aiutava occasionalmente un genitore nelle sue attività, segnalo che la cifra è circa il doppio di quella – 31.500 – che l’ISTAT quindici anni fa stimava riguardasse situazioni di vero e proprio sfruttamento. Si tratta, temo,  della punta di un iceberg. E’ probabile che, per non incappare in denunce per impiego illegale di bambini, in molti casi l’infortunio non sia stato denunciato come “sul lavoro”, ma come altro tipo di incidente. In ogni caso, una cifra di oltre sessantamila bambini coinvolti in incidenti sul lavoro in un anno suggerisce che i bambini lavoratori siano molti di più.
Questi piccoli lavoratori sono esclusi non solo dal Jobs Act e dall’articolo 18, che per definizione non li prevedono. Sono esclusi di fatto da ogni tipo di protezione: invisibili agli ispettori del lavoro, spesso sono anche invisibili alla scuola e pressoché sempre ai politici, che sembrano ignorarne del tutto l’esistenza. Eppure, come testimoniano i dati INAIL, il lavoro dei bambini, anche quello che può minarne il fisico e la possibilità di crescita, non è solo un fenomeno da terzo mondo. Riguarda anche noi.
Chiara Saraceno