la concreta utopia di adriano olivetti
paolo fai
Nessun commentoLa rinascita del pensiero di Adriano Olivetti è ormai un fatto incontestabile, che fa giustizia di un silenzio omissivo troppo prolungato su un personaggio impareggiabile nella storia dell’industria italiana. Certo, in parte, presso il grosso pubblico, vi ha contribuito anche la recente fiction televisiva (forse troppo romanzata) con Luca Zingaretti nei panni dell’imprenditore di Ivrea, ma anche – per chi vuol meglio conoscerne la singolare avventura imprenditoriale, culturale e politica – la ripubblicazione degli scritti del padre delle macchine per scrivere da parte delle Nuove Edizioni di Comunità, che, per volontà del nipote di Olivetti, Beniamino De Liguori, ridanno voce alla casa editrice fondata dal vulcanico Ingegnere. Tra le recenti pubblicazioni un posto a parte, e di rilievo, spetta a un piccolo ma prezioso libretto che Franco Ferrarotti ha pubblicato per le EDB di Bologna col titolo «La concreta utopia di Adriano Olivetti». Ferrarotti, decano dei sociologi italiani, ha tutti i titoli per farlo. Principalmente perché, dal 1948 al 1960, lavorò al fianco di Olivetti e – come scrive egli stesso nella Prefazione – oggi è «l’unico sopravvissuto, l’unico superstite e superteste, dei tre stretti collaboratori di Adriano Olivetti» (gli altri due, il critico letterario Geno Pampaloni e il giornalista e scrittore Renzo Zorzi, sono morti). Accostare “concreta” a “utopia” è certo prova di azzardo linguistico. Ma Ferrarotti spiega, in modo convincente, in appena una settantina di pagine (le ultime trenta sono documenti di discorsi e scritti olivettiani), come e perché le due parole non siano un retorico ossimoro, ma la definizione di una realtà effettuale che si incarnò, purtroppo per breve tempo, nello stabilimento di Ivrea. Perché ad Olivetti «non bastava parlare di riforme», ma «studiava la tecnica delle riforme» anche sul piano pragmatico, «dell’attuazione effettiva e del successivo controllo delle conseguenze pratiche e delle “ricadute” impreviste». Con l’occhio sempre rivolto agli operai che, parlando ai suoi ingegneri, «non si addestrano», diceva, perché «gli animali si addestrano. Gli uomini si educano». Era infatti convinto che «le classi lavoratrici, più che ogni altro ceto sociale, sono le rappresentanti autentiche di un insopprimibile valore: la giustizia; ed incarnano questo sentimento con slancio talora drammatico e sempre generoso».In Olivetti si incontravano mirabilmente l’ingegnere e l’umanista. E proprio perché uomo di cultura, «riteneva indispensabile e moralmente necessario mettere alla prova, sul banco della pratica quotidiana, le sue idee. Era un uomo di cultura che non poteva limitarsi a scrivere libri o a tenere discorsi». Insomma, «la figura di Olivetti era quella di un autentico riformatore, per temperamento e per intima convinzione, intellettuale e morale». Tra i meriti che al profetismo olivettiano Ferrarotti riconosce c’è quello di aver visto la crisi dei partiti politici con quarant’anni di anticipo. Olivetti fa sue le posizioni severe di Simone Weil che giudicava l’operazione di «prendere partito, ossia di prendere posizione pro o contro», una “lebbra” che si è sostituita all’«operazione del pensiero» critico. Il rimedio è la soppressione dei partiti politici o di quella che, già nel 1949, Olivetti chiamò “partitocrazia”. A questo stato di cose Olivetti opponeva una “democrazia compensata”, che puntasse allo «sviluppo della comunità in un società industriale, o semplicemente post-contadina, tendenzialmente alienata». Gridava nel deserto, Olivetti, ma denunciava una crisi di rappresentatività dei partiti che, dopo, si è ingigantita al punto che oggi i cittadini – sostiene Ferrarotti –percepiscono i partiti «come distratte truppe di occupazione in un Paese che non conoscono e che si limitano a spremere fiscalmente e a sfruttare. Parassiti, non rappresentanti».
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