Anche per il 2015 il debito sarà il tema da cui dipenderà ogni altra scelta. La linea del potere è: sacrifici per crescere, crescere per pagare. L'alternativa è la redistribuzione. Pensiamoci
di Francesco Gesuladi
L’Italia ha il diritto e il dovere di liberarsi dal debito perché 85 miliardi l’anno, solo per interessi, sono un salasso insostenibile che genera disuguaglianze, povertà e disoccupazione. Alcuni numeri posso darci il quadro della drammatica situazione sociale in cui il debito ci ha trascinato.
Da società a uovo, l’Italia si sta trasformando in società a piramide. Prima c’era un piccolo numero di famiglie con redditi bassi, un piccolo numero con redditi molto alti e nel mezzo un gran numero di famiglie con redditi medi. Oggi molte famiglie di mezzo stanno migrando verso il basso mentre quelle di cima sono sempre più esigue.
Da un punto di vista patrimoniale, ossia della ricchezza posseduta sotto forma di case, terreni, auto, gioielli, titoli, capitali, le famiglie italiane possono essere divise in tre fasce. La cima, che accoglie appena il 10 per cento delle famiglie, detiene il 46 per cento dell’intera ricchezza privata. La fascia di mezzo, equivalente al 40 per cento delle famiglie, controlla il 44 per cento della ricchezza. Lo zoccolo di fondo, pur essendo il più ampio, pari al 50 per cento delle famiglie, si aggiudica appena il 9,4 per cento della ricchezza.
I segni di un’Italia sempre più iniqua si ritrovano anche nella distribuzione del reddito. La quota di reddito nazionale intascato dal 20 per cento più ricco corrisponde al 37,5 per cento, mentre quello goduto dal 20 per cento più povero si ferma all’8 per cento. Il sottoprodotto dell’ingiustizia è la povertà che anche in Italia si sta facendo sempre più acuta. In Italia, il numero di persone con grave deprivazione materiale è passato da 4 milioni nel 2010 a 8 milioni e mezzo nel 2012. In termini percentuali l’incidenza è passata dal 6,9 al 14,3 per cento della popolazione.
Se avessimo tempo per analizzare l’evoluzione storica del debito, ci renderemmo conto che la somma mostruosa accumulata fin qui non è frutto di una vita al di sopra delle nostre possibilità, ma l’esito di un progetto deliberato per arricchire il mondo bancario e finanziario a spese della collettività. Lo dimostra il divorzio fra Banca d’Italia e Tesoro messo in atto nel 1981 e il fatto che il nostro debito ha continuato a crescere nonostante una politica di spesa pubblica inferiore alle entrate fiscali. Dal 1992, infatti, realizziamo ogni anno un avanzo primario che in vent’anni ha significato un risparmio governativo complessivo, di 710 miliardi di euro.
Il problema italiano si chiama incapacità di tenere il passo con gli interessi. L’esame del 2013 ce ne dà una conferma. L’anno scorso la pubblica amministrazione ha risparmiato 35 miliardi di euro che ha usato per finanziare gli interessi. I quali sono ammontati, però, a 82 miliardi . Dunque il risparmio non è bastato a finanziarli. Sono rimasti esclusi 47 miliardi che lo stato ha coperto ricorrendo a nuovo debito. Il che dimostra che l’Italia è nella trappola del debito che si autoalimenta: i prestiti per interessi fanno crescere il debito che a sua volta fa crescere gli interessi che a loro volta impongono nuovi prestiti in una rincorsa senza fine.
A conti fatti, dal 1980 al 2013 abbiamo pagato 2310 miliardi di interessi, di cui 1600 a debito. Il che ci permette di concludere che il nostro debito pubblico è formato per il 76 per cento da prestiti per interessi.
Le politiche fin qui perseguite, invece di affrontare il vero problema che è quello degli interessi si sono solo concentrate sull’austerità per garantire ai creditori sempre più soldi. Ma tutti sanno che questa via porta non solo all’impoverimento, ma addirittura alla paralisi economica perché uccide la domanda del sistema, sia quella pubblica che quella privata. I 7 milioni di disoccupati (fra ufficiali e ufficiosi) ci dicono che siamo già molto avanti in questo processo.
La soluzione che oggi si paventa per continuare a pagare i creditori ed allentare l’austerità è la crescita, secondo la logica che se riusciamo a fare crescere la ricchezza prodotta ce ne sarà abbastanza per permettere ai cittadini di avere alti consumi, nonostante alte tasse, e ce ne sarà abbastanza per permettere allo stato di pagare gli interessi senza tagliare le spese. Ma vista più da vicino la crescita è solo l’ultima novella che ci stanno raccontando per imbonirci. E’ l’ultima novella per indurci a farci strizzare illudendoci in un eldorado che non verrà. La crescita è quattro volte ingannevole.
La prima perché non può esserci crescita nell’austerità. La crescita presuppone rilancio della domanda pubblica e privata. Detta in un altro modo presuppone meno carico fiscale e più spesa pubblica. Un risultato che si può ottenere in due modi: la prima aumentando ulteriormente il debito. La seconda cambiando la politica della Banca Centrale europea, ossia recuperando sovranità monetaria socialmente orientata. Personalmente escluderei la prima e sosterrei la seconda, ma la riforma della BCE oggi non è in agenda.
La seconda ragione per cui la crescita è ingannevole è la globalizzazione. In altre parole anche se riuscissimo a rilanciare la domanda non è detto che gli effetti produttivi si ripercuotano in Italia.
La terza ragione è ambientale: la crescita produttiva presuppone il consumo di più risorse e la produzione di più rifiuti oltre i limiti già oltrepassati della capacità del pianeta. Del resto per avere un aumento di gettito fiscale sufficiente a coprire gli interessi senza austerità, dovremmo avere una crescita del 20 per cento all’anno, mentre per bene che possa andare non possiamo andare oltre l’1 per cento. Perciò di cosa stiamo parlando?
La soluzione del problema del debito passa attraverso un’altra strada che si chiama “redistribuzione”. Che vuol dire fare pagare i più forti attraverso quattro strategie. La prima: riforma fiscale in modo da prendere i soldi da chi li ha e per giunta li investe male perché li usa per scopi speculativi invece che produttivi. Serve il ritorno ad una seria progressività fiscale non solo rispetto al reddito, ma anche rispetto al patrimonio. In questa logica va anche contemplata l’idea del prestito forzoso, concepibile come un prelievo fiscale rimborsabile in tempi lunghi.
La seconda strategia: una riforma della Bce per assegnarle due nuovi incarichi. Il primo, quello di essere prestatrice di ultima istanza dei governi. Il secondo, quello di incamerare il debito pubblico di tutti i paesi europei e curarne lei la gestione, sapendo che nel suo armamentario sono compresi strumenti per potere estinguere gradatamente il debito pubblico senza eccessivi scossoni valutari. Questo progetto è stato messo a punto dall’economista francese Charles Wyplosz ed è definito con l’acronimo Padre (Politically Acceptable Debt Restructuring in the Eurozone).
La terza strategia è l’ autoriduzione e il congelamento degli interessi.
La quarta strategia è la ristrutturazione del debito. Dobbiamo cominciare a dire che questo debito non possiamo pagarlo perché è troppo alto. Dobbiamo dire che il fiscal compact è una follia perché ci obbligherebbe a destinare al debito 140 miliardi l’anno, circa il 20 per cento del gettito fiscale. Per cui dobbiamo contrattare la sua riduzione, come ormai suggeriscono anche autori del Fondo Monetario Internazionale come Reinhart e Rogoff . Dunque invece di stracciarci le vesti per la possibile vittoria di Syriza in Grecia dovremmo gioire perché è l’unica forza in Europa che propone di organizzare una conferenza europea per una ristrutturazione del debito. L’unica voce di buonsenso in un mare di ipocrisia e di vaneggiamento ideologico.
Questo articolo è stato pubblicato anche su Pressessenza
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