Abraham Yehoshua, intervista: "Israele, la pace è la tua salvezza. Riconoscendo Stato palestinese, Ue aiuta il dialogo"
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“Da tempo ormai sono convinto che negoziare i confini fra due Stati non sia solo un problema di territori, di sicurezza, ma, per quanto riguarda Israele, ciò significa avviare una grande, e per certi tratti dolorosa, riflessione culturale, storica, identitaria. Significa guardare al futuro recuperando il meglio del nostro passato, ritornare in qualche modo agli ideali originari del sionismo, per i quali il carattere peculiare e dello Stato d’Israele non andava ricercato nelle sue dimensioni territoriali né su una visione “messianica” che lo ispirava, bensì nel fare d’Israele un Paese normale, in pace con se stesso oltre che con i vicini arabi. La coscienza del limite: ecco cosa manca alla destra ultranazionalista”.
A parlare, in questa intervista esclusiva concessa all’Huffington Post, è uno dei più affermati scrittori israeliani contemporanei: Abraham Yehoshua. “La pace – rimarca Yehoshua - passa necessariamente attraverso la separazione di due popoli in due Stati. E questo, non mi stancherò mai di ripeterlo, non è una concessione fatta ai palestinesi ma è un’esigenza vitale per un Paese, Israele, che intende preservare i suoi due caratteri fondanti: l’identità ebraica e la democrazia”.
Assieme ad Amos Oz e David Grossman, Yehoshua è stato promotore di un appello all’Europa perché riconosca lo Stato palestinese: “Il voto del Parlamento europeo – rimarca in proposito lo scrittore – ha una grande valenza politica soprattutto perché coglie l’essenza del problema: rafforzare la leadership moderata del presidente Abbas (Abu Mazen) che resta al momento l’unico interlocutore credibile e affidabile per una trattativa di pace”.
L’appello è stato sottoscritto da 878 personalità israeliane, e recita così:
“Noi, cittadini di Israele, che desideriamo un Paese prospero e sicuro, siamo preoccupati per l’immobilismo politico e la continuazione dell’occupazione e degli insediamenti che portano a ulteriori scontri con i Palestinesi e inficiano ogni possibilità di un accordo. È chiaro che le prospettive per la sicurezza e l’esistenza di Israele dipendono dall’esistenza di uno Stato palestinese a fianco di Israele. Israele dovrebbe riconoscere lo Stato di Palestina e la Palestina dovrebbe riconoscere lo Stato di Israele, sulla base dei confini stabiliti il 4 giugno del 1967. La vostra iniziativa per il riconoscimento dello Stato della Palestina avvicinerà le prospettive di pace e incoraggerà Israeliani e Palestinesi a mettere fine al conflitto”.
Quanto al dibattito sull’ebraicità definita anche costituzionalmente dello Stato d’Israele, Yehoshua difende a spada tratta la sua idea di ebraicità che, rimarca, “non deve essere concepita né tanto meno imposta come espressione religiosa, bensì come elemento di incontro, punto di raccordo tra la storia e i valori del popolo ebraico e l’esigenza, altrettanto fondante dell’identità nazionale, di preservare il carattere moderno e democratico dello Stato”.
Il 2014 si chiude con lo stallo del negoziato di pace israelo-palestinese. Il 2015 ha già una data cerchiata di rosso per Israele: martedì 17 Marzo, il giorno delle elezioni legislative.
"Il giorno del giudizio per Benjamin Netanyahu, che queste elezioni anticipate le ha imposte convinto di poter contare sulle divisioni dei suoi avversari e sull’assenza di un’alternativa. Ma ho l’impressione che stavolta “Bibi” abbia fatto male i suoi calcoli, presumendo troppo da sé. Credo che Netanyahu debba passare la mano e uscire di scena. Non è stato un buon primo ministro: non c’è campo nel quale possa dire che la politica del suo governo abbia giovato al Paese, ne abbia migliorato la qualità della vita, ne abbia garantito al meglio coesione sociale e sicurezza. Molto dipenderà dalla volontà e dalla capacità delle forze di centro e di sinistra di far prevalere le ragioni dello stare assieme, realizzando un unico blocco capace di prospettare all'opinione pubblica israeliana non solo un credibile programma di governo ma anche una visione, una speranza per il futuro”.
Lei parla di speranza, di passione civile, di coraggio politico, di onestà intellettuale. Ma quali sono i sentimenti, che poi sono parte di una visione politica e ideale, che più la inquietano guardando al presente e proiettandosi nel futuro prossimo?
"Il fatalismo, la rassegnazione. Vede, la maggior parte dei miei connazionali sono, in linea di principio, favorevoli all’idea di Due Stati, ma poi si chiedono come sarà possibile evacuare centinaia di migliaia di israeliani che vivono negli insediamenti senza innescare una spirale di violenza che sfoci in una guerra civile. E ancora: cosa ne sarebbe della nostra sicurezza se a governare lo Stato palestinese fossero quelli di Hamas. Da qui nasce un senso di scetticismo che va compreso ma contrastato. Sapendo andare anche controcorrente, se è necessario. Perché è il saper guardar lontano ciò che fa la differenza tra un politico e uno statista”.
Vorrei tornare su un tema a Lei molto caro: quello del rapporto tra identità e confini.
"Si tratta di un rapporto strettissimo, decisivo e non solo per le ricadute che esso ha su un ipotetico accordo di pace. Definire i propri confini non è solo un’operazione geopolitica ma una elaborazione culturale collettiva. È fare i conti con la propria storia e quello dell’altro da noi, il popolo palestinese. Significa riconoscere che quella che per noi è una Festa, la nascita dello Stato d’Israele, per i palestinesi è stata una “Naqba” (Catastrofe). Riconoscere questa verità storica è più doloroso che restituire dei territori. Ma è un passaggio ineludibile. Se dovessi definire in una parola il sionismo userei la parola “confine” e se dovessi aggiungerne un’altra sarebbe “sovranità”. Questo è il senso del sionismo, la realizzazione della sovranità all’interno di confini chiari e duraturi, oltre i quali vive un altro Stato, indipendente e smilitarizzato: quello palestinese. D’altro canto, la negazione del diritto, l’ingiustizia finiranno per minare uno dei fondamenti della nostra identità di Stato e di Nazione: la nostra democrazia. L’occupazione dei Territori ha finito per deteriorare moralmente Israele”.
Nel vivo della seconda Intifada, quella dei kamikaze, Lei giustificò la realizzazione della Barriera di Sicurezza in Cisgiordania, quella che per i palestinesi è il “Muro dell’apartheid”.
"Israele aveva ed ha tutto il diritto a difendersi da chi vuole seminare morte e terrore senza operare alcuna distinzione tra militari e civili. Ciò che invece contestati allora e tanto più lo faccio oggi, è il tracciato di quella Barriera, è la pretesa, in nome della sicurezza, di espropriare terre e annettersi di fatto territori che sono palestinesi e che dovranno far parte di uno Stato di Palestina. Questo è un atto ingiustificabile e, aggiungo, controproducente perché insistere sull’allargamento delle colonie finisce per isolare Israele nella comunità internazionale e indebolire anche richieste che considero giustificate, come la smilitarizzazione, almeno in una prima fase, dello Stato palestinese”.
Dopo l’appello all’Europa, la radio dei coloni, “Canale 7”, ha definito Lei, Oz e Grossman “Quinta colonna'” e “Traditori” .
"Per la verità, non è la prima volta che entro nel mirino di questi signori. La loro violenza verbale non mi spaventa personalmente ma dovrebbe portare a interrogarci, tutti, sul senso di impunità del quale certa gente pensa di poter godere. Costoro non concepiscono l’esistenza di posizioni diverse, per loro non esistono “avversari” ma “nemici”. E i “nemici” si combattono con ogni mezzo. Anche il più estremo”.
Gerusalemme è stata al centro di una ripresa della violenza, di attacchi terroristici. C’è chi parla di una “Terza Intifada”. Qual è, a suo avviso, il rischio da scongiurare. E come farlo?
"C’è il rischio che il conflitto israelo-palestinese da nazionale si trasformi in una guerra di religione. C’è chi punta a questo. L’attacco terroristico alla sinagoga di Har Nof (18 novembre, cinque israeliani uccisi più i due attentatori palestinesi, ndr) ne è una tragica riprova. Sarebbe una sciagura irrimediabile se luoghi di culto - sinagoghe, moschee, chiese – venissero trasformate in campi di battaglia. Ma per evitare questa deriva non basta rafforzare le misure di sicurezza. Occorre che la politica riconquisti uno spazio centrale, ponendo fine all’immobilismo e allo scarico di responsabilità”.
A volte, chi prende posizioni critiche verso le politiche d’Israele viene accusato di antisemitismo.
"È una generalizzazione che contesto e che non può essere utilizzata dal governo del mio Paese ogni qual volta che c’è qualcosa che reputa sbagliata. Ad esempio, il riconoscimento della Palestina votato da alcuni Parlamenti europei e da quello di Bruxelles, non ha proprio nulla di "antisemita". Ma al tempo stesso, e con altrettanta nettezza, ritengo che sia inaccettabile che “sionista” torni ad essere utilizzato come un insulto, un dispregiativo, dietro al quale molto spesso si nasconde l’antisemitismo. Come se fosse un delitto, un marchio d’infamia. È del tutto legittimo criticare Israele. Si può condannare le azioni dei governi, e anche io l’ho fatto più volte. Ma tutto questo non c’entra nulla con il sionismo. Tirarlo in ballo è un’operazione strumentale sia dal punto di vista intellettuale che sul piano politico. Dietro "l’antisionista” spesso si cela l’antisemita”.
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