CHIARA SARACENO – Lavoro minorile in Italia: invisibile e senza protezione
Si è a lungo discusso nei mesi scorsi sulla necessità di estendere e unificare le tutele a tutti i tipi di lavoratori. Renzi e la sua maggioranza sostengono di averlo fatto con il Jobs Act. I sindacati viceversa, con gradazioni diverse, sostengono che le tutele sono state indebolite per tutti. Staremo a vedere che cosa succederà veramente. Anche se mi permetto di osservare che i sindacati dovrebbero almeno apprezzare che, finalmente, in Italia chi perde il lavoro sarà tutelato nello stesso modo, con lo stesso strumento, indipendentemente dal tipo di contratto e dall’ampiezza dell’azienda. E’ un obiettivo per il quale molti si battono da tempo, innanzitutto per una questione di equità.
Nel dibattito che nei mesi scorsi ha visto contrapporre garantiti a non garantiti, lavoratori a tempo indeterminato a lavoratori precari e a tempo, vecchi contro giovani e così via di polarizzazione in polarizzazione, nessuna voce è stata sollevata per quei lavoratori invisibili che sono i bambini e ragazzi sotto i quattordici anni che lavorano in totale condizione di illegalità e non appaiono in nessuna statistica del lavoro. Dato che non dovrebbero lavorare, non possono neppure ufficialmente essere contati.
Il lavoro minorile sotto i quattordici anni è una galassia composta di realtà eterogenee, talvolta non del tutto illegali, come l’aiuto occasionale o stagionale dato ai genitori in campagna, o in negozio. Per non parlare del lavoro più invisibile di tutti: quello delle bambine che si occupano a pieno tempo della casa e dei fratellini. A volte lavorano, illegalmente, molte ore al giorno e il loro guadagno è necessario alle loro famiglie, a volte ricevono una paghetta più o meno simbolica. A seconda che il loro lavoro sia concepito dai genitori come necessario all’economia famigliare, o invece come una sorta di apprendistato integrativo ad una scuola percepita come non sufficientemente utile, abbandonano precocemente la scuola, o la frequentano ad intermittenza, o invece regolarmente. Le stime del fenomeno, che riguarda sia italiani sia stranieri, variano da una fonte all’altra e sono ferme a una quindicina di anni fa, quando l’ISTAT stimava che vi fossero circa 144.000 bambini tra i 7 e i 14 anni “economicamente attivi” – circa il 3 per cento della fascia di età - mentre uno studio della CGIL ne stimava 400.000 (in entrambi i casi, le bambine-massaie a pieno tempo erano escluse, perché, non guadagnando, non erano economicamente attive). C’è un dato più recente, tuttavia, che apre uno squarcio drammatico sul fenomeno del lavoro dei bambini. E’ passato pressoché sotto silenzio e vale la pena porlo all’attenzione in questo clima di buoni propositi e intenti riformatori. Nell’ultimo rapporto INAIL, relativo al 2013, si trova una tabella che mostra la distribuzione per età degli infortuni sul lavoro denunciati, quindi ufficiali, accertati. Quell’anno, 63.828 minori di 14 anni hanno subìto un infortunio sul lavoro, il 9.19% di tutti gli infortuni dell’anno. Questo numero è rimasto pressoché stabile nell’ultimo triennio (ma è aumentato rispetto al 2009), a fronte di una diminuzione in tutte le altre fasce di età. E’ il doppio circa di quanti quindici anni fa l’ISTAT stimava come piccoli lavoratori soggetti a sfruttamento, all’interno dell’eterogenea galassia dei bambini economicamente attivi. Anche tenendo conto che alcuni di questi incidenti possono essere avvenuti mentre il bambino aiutava occasionalmente un genitore nelle sue attività, segnalo che la cifra è circa il doppio di quella – 31.500 – che l’ISTAT quindici anni fa stimava riguardasse situazioni di vero e proprio sfruttamento. Si tratta, temo, della punta di un iceberg. E’ probabile che, per non incappare in denunce per impiego illegale di bambini, in molti casi l’infortunio non sia stato denunciato come “sul lavoro”, ma come altro tipo di incidente. In ogni caso, una cifra di oltre sessantamila bambini coinvolti in incidenti sul lavoro in un anno suggerisce che i bambini lavoratori siano molti di più.
Questi piccoli lavoratori sono esclusi non solo dal Jobs Act e dall’articolo 18, che per definizione non li prevedono. Sono esclusi di fatto da ogni tipo di protezione: invisibili agli ispettori del lavoro, spesso sono anche invisibili alla scuola e pressoché sempre ai politici, che sembrano ignorarne del tutto l’esistenza. Eppure, come testimoniano i dati INAIL, il lavoro dei bambini, anche quello che può minarne il fisico e la possibilità di crescita, non è solo un fenomeno da terzo mondo. Riguarda anche noi.
Chiara Saraceno
Nel dibattito che nei mesi scorsi ha visto contrapporre garantiti a non garantiti, lavoratori a tempo indeterminato a lavoratori precari e a tempo, vecchi contro giovani e così via di polarizzazione in polarizzazione, nessuna voce è stata sollevata per quei lavoratori invisibili che sono i bambini e ragazzi sotto i quattordici anni che lavorano in totale condizione di illegalità e non appaiono in nessuna statistica del lavoro. Dato che non dovrebbero lavorare, non possono neppure ufficialmente essere contati.
Il lavoro minorile sotto i quattordici anni è una galassia composta di realtà eterogenee, talvolta non del tutto illegali, come l’aiuto occasionale o stagionale dato ai genitori in campagna, o in negozio. Per non parlare del lavoro più invisibile di tutti: quello delle bambine che si occupano a pieno tempo della casa e dei fratellini. A volte lavorano, illegalmente, molte ore al giorno e il loro guadagno è necessario alle loro famiglie, a volte ricevono una paghetta più o meno simbolica. A seconda che il loro lavoro sia concepito dai genitori come necessario all’economia famigliare, o invece come una sorta di apprendistato integrativo ad una scuola percepita come non sufficientemente utile, abbandonano precocemente la scuola, o la frequentano ad intermittenza, o invece regolarmente. Le stime del fenomeno, che riguarda sia italiani sia stranieri, variano da una fonte all’altra e sono ferme a una quindicina di anni fa, quando l’ISTAT stimava che vi fossero circa 144.000 bambini tra i 7 e i 14 anni “economicamente attivi” – circa il 3 per cento della fascia di età - mentre uno studio della CGIL ne stimava 400.000 (in entrambi i casi, le bambine-massaie a pieno tempo erano escluse, perché, non guadagnando, non erano economicamente attive). C’è un dato più recente, tuttavia, che apre uno squarcio drammatico sul fenomeno del lavoro dei bambini. E’ passato pressoché sotto silenzio e vale la pena porlo all’attenzione in questo clima di buoni propositi e intenti riformatori. Nell’ultimo rapporto INAIL, relativo al 2013, si trova una tabella che mostra la distribuzione per età degli infortuni sul lavoro denunciati, quindi ufficiali, accertati. Quell’anno, 63.828 minori di 14 anni hanno subìto un infortunio sul lavoro, il 9.19% di tutti gli infortuni dell’anno. Questo numero è rimasto pressoché stabile nell’ultimo triennio (ma è aumentato rispetto al 2009), a fronte di una diminuzione in tutte le altre fasce di età. E’ il doppio circa di quanti quindici anni fa l’ISTAT stimava come piccoli lavoratori soggetti a sfruttamento, all’interno dell’eterogenea galassia dei bambini economicamente attivi. Anche tenendo conto che alcuni di questi incidenti possono essere avvenuti mentre il bambino aiutava occasionalmente un genitore nelle sue attività, segnalo che la cifra è circa il doppio di quella – 31.500 – che l’ISTAT quindici anni fa stimava riguardasse situazioni di vero e proprio sfruttamento. Si tratta, temo, della punta di un iceberg. E’ probabile che, per non incappare in denunce per impiego illegale di bambini, in molti casi l’infortunio non sia stato denunciato come “sul lavoro”, ma come altro tipo di incidente. In ogni caso, una cifra di oltre sessantamila bambini coinvolti in incidenti sul lavoro in un anno suggerisce che i bambini lavoratori siano molti di più.
Questi piccoli lavoratori sono esclusi non solo dal Jobs Act e dall’articolo 18, che per definizione non li prevedono. Sono esclusi di fatto da ogni tipo di protezione: invisibili agli ispettori del lavoro, spesso sono anche invisibili alla scuola e pressoché sempre ai politici, che sembrano ignorarne del tutto l’esistenza. Eppure, come testimoniano i dati INAIL, il lavoro dei bambini, anche quello che può minarne il fisico e la possibilità di crescita, non è solo un fenomeno da terzo mondo. Riguarda anche noi.
Chiara Saraceno
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