martedì 31 maggio 2016

una nuova scuola

Un’altra scuola, un’altra società

by JLC
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di Antonio Vigilante*
Tutta un’altra scuola è il titolo di una “festa della scuola che cambia” organizzata dalla rivista Terra Nuova, la cui prima edizione si è tenuta a Vaiano (http://www.tuttaunaltrascuola.it). Tutta un’altra scuola! (quella di oggi ha i giorni contati) è anche il titolo di un libro di Giacomo Stella, professore di Psicologia clinica all’università di Modena e Reggio Emilia. Difficile dire se Stella o la casa editrice si siano ispirati per il titolo all’iniziativa di Terra Nuova (nella prossima sarà presente anche la redazione di Comune, ndr), che non viene citata nel libro. È più probabile che si tratti di un tema nell’aria, per così dire.
È un po’ il motto dei non pochi insegnanti che con entusiasmo stanno sperimentando laflipped classroom, la classe capovolta, una pratica didattica che Stella considera con grande favore. Se in passato si voleva abolire la scuola, oggi si cerca semplicemente di capovolgerla. Ed è anche il motto di quanti vedono nel ricorso a strumenti digitali la possibilità di una rottura radicale con la scuola della tradizione.
La classe diventa un puzzle di etichette
Senza tecnicismi e didatticismi, il libro di Stella in poco più di cento pagine e con una bibliografia di soli otto libri - roba da far inorridire l’Anvur - riesce a dire sulla situazione attuale della scuola italiana non poche cose sensate. Il suo sguardo è quello di un esperto di disturbi specifici di apprendimento, che segue le famiglie alle prese con una scuola che ha grandi difficoltà ad adattarsi ai cambiamenti introdotti dalla legge 170 – legge che l’autore, e a ragione, considera l’unica vera rivoluzione in atto nella scuola italiana. La legge costringe i docenti la scuola a fare i conti con l’individualizzazione dell’insegnamento. È la vecchia questione del “far parti uguali tra disuguali” di don Milani. I disuguali oggi sono tali in base a una certificazione, che consente loro il riconoscimento del diritto a una didattica diversificata. Con l’introduzione dei bisogni educativi speciali, questo diritto viene riconosciuto anche a coloro che sono portatori di qualche “svantaggio socio-culturale”. Non è improbabile che, come paventa Stella, la rincorsa delle famiglie alle certificazioni finisca per “trasformare la classe in un puzzle di etichette: tre dislessici, quattro discalculici, tre con ADHD, due con spettro autistico, ecc.” (p. 25). Ed è anche più concreto il rischio che il pullulare di certificazioni, invece di stimolare una didattica realmente individualizzata, che chieda ad ognuno quello che può dare e preveda percorsi differenziati, finisca per garantire agli studenti “certificati” la promozione assicurata, quale via più semplice e agevole per continuare a fare la scuola di sempre senza avere noie dalle famiglie.
“Gli insegnanti – scrive Stella – non sanno nulla di come si promuove o si sollecita l’apprendimento” (p. 64). Può sembrare una provocazione, ma è vero per moltissimi docenti. Quei professionisti dell’apprendimento che si trovano in seria difficoltà, quando non oppongono un netto e indignato rifiuto, ad apprendere le tecnologie informatiche di base; quei professionisti dell’apprendimento che con estremo disagio, e spesso non senza un atteggiamento oppositivo, si sottopongono a loro volta a esperienze di formazione e aggiornamento. Provate a chiedere a un insegnante cosa vuol dire apprendere. È molto probabile che vi risponda che l’apprendimento è quella cosa che comporta fatica, impegno, sacrificio. Quella cosa che si fa con i libri ed ascoltando l’insegnante. Può essere che vi citi anche Gramsci.
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Non sorprende che la scuola sia così poco efficace. Basta, per sincerarsene, fare la prova con sé stessi. Quante cose ci sono rimaste della scuola media o delle superiori? Quante cose sappiamo di biologia, chimica, matematica, grammatica? Se non abbiamo continuato poi facendo studi in quella disciplina, è molto probabile che ci sia rimasto pochissimo. Quasi niente. E questo indipendentemente dal voto. Viene da chiedersi quanti professori sarebbero in grado di sostenere, oggi, un esame di maturità senza riprendere i libri. Ciò accade per una serie di ragioni. Molte delle cose imparate (anzi: “imparate”) a scuola le abbiamo dimenticate semplicemente perché non erano così importanti. Non hanno alcun rapporto con la nostra esperienza, non servono a risolvere problemi, spesso non fanno nemmeno parte del bagaglio di una persona colta. Sono nozioni, non conoscenze. E molto opportunamente Stella propone di operare una “potatura della didattica inutile” (p. 83). Ma ciò accade anche, e soprattutto, perché l’insegnamento avviene con dinamiche che non tengono conto della reale natura dell’apprendimento. Con una metafora efficace, Stella spiega che bisogna creare un gancio al quale appendere la nuova conoscenza. Questo gancio è una domanda che crea uno “spazio rappresentazionale”. Per liberare questo gancio occorre partire da una domanda. Quel che segue sarà la risposta: qualcosa da appendere a un gancio. E che non cade nel vuoto. Per Stella, “qualunque risposta venga data, anche quella dello studente che provoca le risate della classe per fare ostruzionismo all’attività del docente, apre uno spazio rappresentazionale, libera un gancio a cui rimarrà attaccata la spiegazione dell’insegnante” (p. 77). E qui al docente è lecito esprimere più di qualche dubbio. La situazione di molte classi è tale che la domanda non trova spesso altro, appunto, che risate, quando non assoluta indifferenza. E no, le risate non liberano alcun gancio. C’è il rischio, qui, di una semplificazione non diversa da quella di chi magnifica le virtù e il potere quasi sacrale della parola del docente nella metodologia frontale.
Il punto è che ogni vero apprendimento nasce da un interesse. Da un interesse reale, non fittizio. Da un interesse impellente, che non ha bisogno di essere stimolato. Come tanti, Stella attribuisce al docente il compito di far nascere, sollecitare, suscitare l’interesse. Cosa che può riuscire, qualche volta: ma è da escludere che riesca per tutte le discipline che uno studente si trova ad affrontare durante la giornata scolastica, e per tutti gli argomenti di tutte le discipline. Un adulto ha interesse per un numero ristretto di cose, e protesterebbe vivacemente se gli si chiedesse di dedicarsi a qualcosa per cui non prova interesse. Si pretende invece che uno studente abbia, nell’arco di cinque ore, un interesse per cose diversissime tra di loro, e spesso disperatamente lontane dalla sua esperienza e dai suoi bisogni. Il disinteresse appare come una sfida all’insegnante, che non mancherà di lamentarsene con i genitori.
La scuola come comunità di discussione e di confronto
Certo, ci sono didattiche che meno di altre riescono a suscitare interesse o a impedire che un interesse si spenga. Stella ritiene che la lezione frontale sia un metodo tanto diffuso quanto inefficace, ed è difficile dargli torto. Come alternative propone due cose che sembrano in contrasto. La prima è l’informatica, la seconda è il dialogo. Da un lato vede nell’informatica quello strumento, anzi quell’insieme di strumenti che consentono di rendere l’apprendimento più agevole e creativo, e quindi meno frustrante; dall’altro scrive: “Perché in classe non viene utilizzato il confronto e la discussione, univo vero modo per accendere il desiderio di apprendere?” (p. 63). Domanda sensatissima, dalla quale dovrebbe forse cominciare ogni serio confronto sulla scuola italiana. Perché una metodologia come la maieutica reciproca di Danilo Dolci, ossia una pratica di discussione fondata su anni di esperienze e riflessioni tra le più alte della storia recente dell’educazione italiana, è ancora sostanzialmente sconosciuta per i docenti italiani? Bisogna mettere gli studenti a discutere. Bisogna che si confrontino, che si aprano l’un l’altro, che si cimentino sui grandi temi. Ma questa scuola del dialogo è la stessa cosa della scuola dell’informatica? Fino a che punto le tecnologie informatiche favoriscono il dialogo? Non c’è naturalmente alcun aut aut, la scuola può impiegare al tempo stesso il dialogo e l’informatica, e forse anche l’informatica quale via per il dialogo, ma è importante liberarsi dalla illusione che l’innovazione e il cambiamento di cui la scuola italiana ha bisogno passino attraverso l’informatica. In una società informatizzata, è inevitabile che si informatizzino anche le aule e che la lavagna elettronica prenda il posto della vecchia lavagna e del gesso. Ma informatizzare non vuol dire cambiare davvero. Il cambiamento profondo si avrà quando si passerà dalla trasmissione di contenuti culturali al confronto dialogico. Un passaggio anche più difficile di quello rappresentato dall’informatizzazione, perché richiede una trasformazione dei rapporti e un ripensamento profondo della figura dell’insegnante. Ha assolutamente ragione Stella quando afferma che
la classe deve funzionare come una comunità di discussione e di confronto” (p. 48).
Questo è con ogni probabilità il punto decisivo. Introdurre una lavagna elettronica ed un computer in un’aula con il setting tradizionale significa cambiare tutto perché tutto resti come prima. Restano come prima la cattedra, i banchi, la frontalità. Restano immutate le relazioni umane: inautentiche, gerarchiche, competitive. Al modello frontale bisogna contrapporre il modello circolare. Togliere la cattedra, mettere gli studenti in cerchio e farne una comunità. Passare dalla parola che scende dall’alto, con la sua pretesa di verità garantita dall’autorità, alla parola che circola, e che giunge alla verità – o all’esattezza – solo attraverso la discussione ed il confronto. Questa non è solo la via per tentare un’altra scuola. È anche la via per tentare un’altra società.
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Fonte: http://educazionedemocratica.org/
Antonio Vigilante insegna Filosofia e Scienze Umane al Liceo “Piccolomini” di Siena. È autore di diverse pubblicazioni sulla teoria della nonviolenza e la pedagogia antiautoritaria. Il suo ultimo libro è L’educazione è pace. Scritti per una pedagogia nonviolenta (Edizioni del Rosone, Foggia 2014).
JLC | maggio 31, 2016 alle 12:24 a

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