di Luciana Percovich
Ho cominciato a riflettere sistematicamente sui temi che affronta questo articolo negli anni Ottanta, durante un viaggio nel cuore dell’Australia, nel territorio degli Aranda: nello scoprire in maniera del tutto inaspettata la “religione” degli Aborigeni, ho di colpo compreso che nel buttar via la mia educazione cattolica (come molte e molti della mia generazione hanno fatto), avevo buttato via anche l’intera dimensione dello spirito. E che nemmeno la pratica dell’autocoscienza tra donne era riuscita a toccare quegli strati più profondi ed intimi dove si annida l’Occhio di Dio, ossia quell’insieme di narrazioni, simboli e pratiche che controllano lo spazio interiore di ogni singolo individuo. La visione aborigena del sacro, secondo cui spetta singolarmente e direttamente a ogni donna e a ogni uomo farsi carico di continuare la creazione primigenia (quella del “Tempo di Sogno”), ha scompaginato definitivamente le categorie di ciò che per me era religione, cioè trascendenza, ritualità istituzionalizzata, dogmi e atti di fede.
Oggi, mentre un rinnovato bisogno di senso e di sacro si riaffaccia tra donne e uomini, ovunque deluse/i da un susseguirsi ininterrotto di inconcepibili massacri, di promesse illusorie di democrazia e ridistribuzione delle ricchezze e dal vuoto prodotto dalla globalizzazione di merci senz’anima, cresce il rischio di una nuova arroganza ecumenica da parte delle religioni monoteiste, che si manifesta come fondamentalismo.
Sarebbe una grave leggerezza considerare i fondamentalismi religiosi, lo strumento aggressivo che si è rimesso in moto (e questa volta a livello planetario) sull’onda di queste emozioni e bisogni profondi, come momentanee deviazioni o aberrazioni di sistemi religiosi altrimenti sani e moralmente impeccabili: perché i fondamentalismi non sono che gli inevitabili punti d’arrivo delle religioni monoteiste patriarcali. Nella riflessione che segue, sulla genesi e la natura dei monoteismi, concentrerò l’attenzione su due punti insieme storici e concettuali, a mio parere cruciali, che ne rappresentano il nocciolo intrinseco e generatore: la trascendenza di Dio e il suo connotarsi teologicamente come Bene Assoluto. E cercherò, nella forma sintetica permessa da un breve saggio come questo, e quindi assumendomi i rischi di una argomentazione necessariamente limitata, di delineare il significato di questi due aspetti del Dio ebraico, cristiano-cattolico e islamico, così come li ho sempre di più messi a fuoco nel mio percorso di ricerca sulle origini del sacro e delle religioni, animato dallo sconcerto per la sessuazione al maschile del principio generatore e da una domanda: cosa venerava l’umanità prima della nascita di Dio, come organizzava le sue risposte sul senso della vita, che significato dava ai corpi gravidi di vita delle statuette, delle vulve, dei petroglifi e dell’arte rupestre del Paleolitico e del Neolitico?
In questa prospettiva, il primo dato da mettere in evidenza è di natura temporale: dei reperti archeologici più antichi rimane ampia testimonianza in ogni continente a partire da almeno 30.000 anni fa, ossia da molto prima che Dio nascesse alla Storia degli Uomini. I tempi biblici, che abbiamo creduto sinonimo di venerata vetustà, sono in realtà tempi molto giovani - collocabili tra la fine dell’Età del Bronzo e l’Età del Ferro, vale a dire tra il 2000 e il 1000 a.C. nella fascia del Mediterraneo e del Medio Oriente - e acerbi rispetto alla lunga storia precedente della creatività artistica e delle organizzazioni sociali umane.
Joseph Campbell, uno dei più noti studiosi di mitologia e religioni comparate, nell’introduzione al libro di Marija Gimbutas Il Linguaggio della dea, scrive: “Maria Gimbutas è stata in grado … di stabilire, sulla base dei segni interpretati, le linee caratterizzanti e i temi principali di una religione che venerava sia l’universo quale corpo vivente della Dea Madre Creatrice, sia tutte le cose viventi dentro di esso, in quanto partecipi della sua divinità: religione, lo si percepisce immediatamente, in contrasto con le parole che il Creatore Padre rivolge ad Adamo in Genesi ‘Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere sei e polvere ritornerai!’ In questa mitologia arcaica, la terra da cui tutte le creature hanno avuto origine non è polvere inanimata, ma vita, Dea Creatrice”.
Nel lungo tempo che precedette la nascita “umana, troppo umana” di Dio, come principio assoluto maschile e astratto, punto zero di una retta temporale unidirezionale che dal nulla con un atto mentale crea l’universo (C. G. Jung definì questo atto una "interessante inversione del fatto biologico"), la vita stessa in tutte le sue manifestazioni umane, animali, vegetali, pietre e argilla, acqua, aria, fuoco e spirito era considerata “divina”, e sacro ed eterno il suo continuo movimento a spirale di nascita, maturazione, morte e rigenerazione.
Il concepimento di Dio da e in menti maschili interruppe questa visione. Le conseguenze si rivelarono pienamente solo nel trascorrere del tempo, man mano che si fece strada l’idea secondo cui universo, natura e creature potevano considerarsi dotati di vita solo se selettivamente animati dal Soffio Divino. Un divino che con un doppio salto mortale si piroettava, elevandosi, fuori dal “creato” e si definiva come principio maschile, esterno, incorporeo, idea pura, immodificata e inalterabile come una figura della geometria euclidea (che ne sarebbe scaturita), la cui forma perfetta modella la realtà. Il movimento eterno del divenire si appiattì, sia in senso temporale che spaziale, in una linea a senso unico che si muove dall’alto al basso (è Dio che crea l’Uomo e non viceversa), dal maschile al femminile (la vita fluisce da un principio maschile astratto anziché da un corpo che genera nella materia).
In un Dio così disincarnato nulla restava della sua origine, né la verità evidente che la vita si crea nel femminile delle specie, che siamo tutti nati da donna, né la spinta che lo genera all’interno della coscienza. Da quel momento, la cura per la sacralità della vita, da quotidiana, attiva e individuale, o esercitata collettivamente nei momenti di passaggio che contrassegnavano i giorni, le stagioni, i passaggi importanti della vita, venne progressivamente avocata da una nuova casta di addetti ai “culti religiosi”. E solo da quel momento in poi entrò nell’universo immaginario dell’umanità la parola “religione”: né “paganesimo” né sciamanesimo né animismo o totemismo possono infatti essere definiti con questo termine.
Le religioni storiche nascono nel e dal momento del capovolgimento e della rimozione del luogo dell’origine. Queste religioni, che occorre perciò distinguere dalle precedenti concezioni e pratiche del sacro, portarono con sé una diversa accezione della dimensione spirituale, inventarono competenze e ruoli fortemente ritualizzati e istituzionalizzati, si impossessarono della gestione di tutto ciò che si configurava come misterioso e potente. Consolidarono e confermarono - trasfigurandolo nell’alto dell’Olimpo o nel Tempio e imprimendolo nella memoria dei popoli con il trauma della guerra e dello stupro - un sistema politico di controllo e di dominio gerarchico, che si stava imponendo con le armi e la sopraffazione nei floridi territori in cui si andavano insediando le nuove popolazioni portatrici di questo ordine sociale e religioso. In questa trasformazione epocale va collocato l’affermarsi del concetto e della parola stessa di “divino”nell’accezione ancora corrente, di cui non esistono tracce né termini corrispondenti nelle lingue pre-indoeuropee o extra-indoeuropee: dal punto di vista linguistico, la radice div-/dev- è infatti indo-europea e fece la sua comparsa nel bacino del Mediterraneo solo a partire dall’Età del Bronzo.
“Sacro” e “divino” possono dunque essere assunti come due termini non interscambiabili e indicatori di due visioni culturali radicalmente diverse. La nozione di “sacro”, fortemente collegata al corpo femminile e alla conoscenza interiore/intima, designa la soglia tra umano e sovra-umano, tra vita e morte, tra niente e vita; è affine al concetto di sofia, sapere spirituale ma collegato all'esperienza, che passa attraverso la complessità delle percezioni del corpo e l’attivazione di energie più sottili di quelle della mente. Si sviluppa e fiorisce in contesti socio-economici egualitari e matrifocali. Quella di “divino” sorge come fantasma di un corpo maschile, dalla percezione di una separazione (del figlio dalla madre, della mente e dello spirito dalla materia) e dalla razionalizzazione di una mancanza (la capacità di generare), successivamente al furto delle funzioni connesse al sacro. È sempre accompagnata a personificazioni gerarchiche e a imprese violente di eroi o semidei; filosoficamente si esprime come logos in tutte le –logie, connotate dall’essere sapere intellettuale astratto.
Questo processo, con il relativo cambiamento di metafore fondanti, compì un ulteriore passo in avanti nell’Europa del Rinascimento, ossia nel passaggio alla Modernità. Carolyn Merchant in La Morte della natura ricostruisce mirabilmente lasostituzione della metafora di “Madre Natura”, ancora sopravvissuta nel senso comune a distanza di qualche millennio, con quella di “natura macchina”: la prima conservava l’attribuzione di corpo vivente alla natura, la seconda la interpretava come inanimata, composta di parti separate, come il meccanismo di un orologio. E spiega bene, per chi faticasse a intuirlo, come le metafore descrittive agiscano in maniera prescrittiva, autorizzando o no certi comportamenti: se si faceva ancora fatica (forse oggi non più, dopo tanto insistente splatter indistinguibile tra cronaca e fiction) a mutilare, maltrattare e squartare un corpo vivente senza provare un senso di profanazione e di disagio, da quel momento ogni traffico, stravolgimento, sfruttamento dei corpi naturali (comprese terra, foreste, acque e montagne, inequivocabilmente connotate come femminili) diventò lecito. In quella tragica e sotto molti aspetti assai mistificata svolta epocale, si verificò un’alleanza “irresistibile” tra religione (sempre in difficoltà contro la resistenza del mondo pagano delle campagne e delle montagne), stati nazionali, capitalismo e scienze nascenti, che inaugurò la modernità nel fumo dei roghi di milioni di “streghe ed eretici”, nello sforzo finale di cancellare una volta per sempre le endemiche rivolte dei contadini, spesso con le donne nei ruoli di guida e di continuatrici di tradizioni e conoscenze basate sulla sacralità del vivente (boschi, erbe, animali, ecc.).
Ma, come abbiamo visto, la radice del cambiamento era assai più antica, e risaliva al tempo in cui le egualitarie, pacifiche e tolleranti ma indifese comunità matrifocali del centro Europa erano state progressivamente travolte dalle aggressive culture del patriarcato, e all’entrata in scena, tra i popoli semiti, del Dio iroso e arrogante, presentatosi con una battuta incomprensibile per chi non sapesse cosa c’era prima di Lui, in apertura della sue Tavole della Legge: “Non avrai altro Dio all’infuori di me!”
Anche se qui tratteggiato solo a grandi linee e solo relativamente alla sua genesi greco-ebraica, questo inarrestabile cambiamento di paradigma culturale, religioso, politico, economico e sociale che ha permesso l’affermarsi delle civiltà del dominio rivela in pieno il ruolo centrale giocato nell’immaginario e nella vita concreta dalla nascita del concetto del Dio unico e trascendente, che si configura come una delle radici inestirpabili del fondamentalismo religioso.
Ma veniamo altrettanto sinteticamente al secondo punto, la connotazione teologica di Dio come Bene Assoluto. Anche qui lo slittamento concettuale si configura come una inversione accompagnata da una riduzione; la Dea dai Mille Nomi conteneva in sé tutti gli aspetti dell’apparentemente discorde fluttuare dell’essere: era colei che dava la vita ma anche la morte, era accogliente e seducente ma sapeva respingere senza rimpianti ed esercitare la severità del contrappasso; era bianca e nera come la luna, era assenza e presenza, era insieme bene e male, perché questi sono i caratteri cangianti propri della transitorietà del piano fisico, che si tiene combinando polarità e doppie direzioni nel suo continuo farsi e disfarsi. La potenza del sacro, la sua inafferrabilità e lo sconcerto che provocava erano stati egregiamente condensati nelle figure della sfinge, della medusa e del daimon, ancora molto presenti nell’arte greca classica; nel daimon in particolare (che il cristianesimo trasformerà nel Demonio, la quintessenza del male), rappresentazione metà umana e metà animale, con il torso di uomo o donna ma la coda di serpente o di pesce, che rimase vivo nell’immaginario fino al Rinascimento europeo e oltre come Melusina (topos per altro ricorrente anche nelle mitologie degli altri continenti).
L’immagine di Zeus che a un certo punto si affianca al daimon, nella posizione di fulminare un “mostro” che non trova più posto nell’Olimpo né nel sistema logico binario oppositivo che si afferma nel pensiero filosofico, esprime simbolicamente la rottura e il rifiuto della sapienza contenuta nei più antichi miti di creazione, quando nella dea - che ha corpo di donna perché maschi e femmine si nasce da femmine o, per dirla nel linguaggio della moderna narrazione scientifica, perché il cromosoma X contiene il cromosoma Y e non viceversa - coabitano principio femminile e maschile, yoni e lingam , “divino” e “bestiale”, forma e materia, energia yin e yang. Nel sistema di pensiero statico e dicotomico dei Greci, il tema della compresenza di femminile e maschile (e di animale e umano) che coabitano in tutto e tutti, linguisticamente espresso dalla dualità delle antiche radici ricorrenti –yn e –ng, si separano definitivamente nelle definizioni riduttive di gyné e andròs, o donna o uomo. E se gerarchia ormai ha da esserci, il segno positivo spetta all’uomo, quello negativo (che diventerà la mancanza del fallo nel linguaggio psicanalitico) alla donna.
Negata la necessità e la naturalità della compresenza, la polarità esclusivamente oppositiva si prepara per andare a nozze sterili (laddove lo ieros gamos era attività sacra di compresenza) con uno smaterializzato Dio solitario e geloso. Quintessenza del polo positivo maschile, Dio si espande come Bene Assoluto, uni-verso; la donna, non più nemmeno sacra, viene ridotta a solo corpo (mero contenitore dell’homunculus per Aristotile), materia, caducità, tentazione (in quanto, nonostante tutto, capace sempre di evocare il ricordo rimosso e la momentanea nostalgia di un tutto indiviso), peccato, morte. In quanto Bene, Dio è anche Verità Universale, e questa verrà contrapposta ai pagani di tutti i tempi e di tutti i continenti come la Rivelazione, la svolta spirituale vincente. La Buona Novella dovrà essere portata e imposta, non importa con quali sistemi, perché il fine buono giustifica i mezzi, calpesta le concezioni “sbagliate” semplicemente perché “altre”, libera dall’Errore e porta la Salvezza Uni-versale!
Per queste ragioni, contenute nella formulazione teologica del Dio patriarcale, così come si è venuta delineando storicamente e non senza lunghi dibattiti e sanguinosi contrasti anche al suo interno, i fondamentalismi esprimono lo sbocco inevitabile di una visione sbilanciata della natura umana e della natura/cosmo, che è riuscita a imporsi e tenderà a imporsi con tutti i mezzi a sua disposizione.
Può essere interessante a questo punto uno sguardo al sistema di credenze dellosciamanesimo siberiano, qui assunto come esempio per ragioni di brevità ma anche perché, allo stato attuale delle conoscenze sulla diffusione dell’homo sapiens, potrebbe essere considerato la matrice delle culture sciamaniche di tutti i continenti. In questa cornice di pensiero non c’è dicotomia tra bene e male, forse sarebbe addirittura più corretto dire non esiste una concezione astratta e personificata del bene e del male, ma invece la consapevolezza di stati di “perdita di equilibrio”, di “uscita dall’equilibrio” che genera sofferenza, oscurità, pericolo, disconnessione, mutilazioni e paura. Al posto della lotta eterna tra Bene e Male, nello sciamanesimo mongolo e siberiano i principi cruciali sono: l’equilibrio, il rispetto per la terra e per le sue creature, la responsabilità personale di ciascuno (nel mantenere l’equilibrio dentro e fuori di sé e nell’esercitare il rispetto). Gli stessi principi che verosimilmente governarono le società egualitarie della pre-istoria, quei principi scomparsi nelle civiltà del dominio, basate sulla gerarchia e l’obbedienza, il dogma e lo sfruttamento.
Infiniti corollari dei due punti cruciali fin qui esposti possono essere osservati, vivi e vegeti, da ciascuno di noi nel tempo in cui viviamo: il modello divino (Dio lo vuole!) legittima ogni gerarchia politica, sociale ed economica (nel momento più rampante del protestantesimo la ricchezza fu considerata una manifestazione della “grazia” divina), razziale, intrapsichica (il super-ego), tecnologica (artificiale e/o virtuale come superiori al naturale: volete mettere la bellezza dei pomodori o delle mele o del grano geneticamente modificati con quelli non trattati…o di un naso o di un seno rifatto…di un parto cesareo rispetto a un parto naturale!). Anche in chi si definisce laico, o proclama che dio è morto, e si affida alla scienza o alla scientificità, in mancanza di una messa in discussione delle radici dei presupposti storico-culturali impliciti che agiscono e da cui siamo agiti a partire dalla struttura sintattica delle lingue indoeuropee, vediamo ripetersi lo stesso paradigma razionalista, dicotomico e gerarchico, ereditato dalla costruzione gnoseologica greco-ebraica.
Tuttavia, all’interno dei tre monoteismi il paesaggio non è e non è mai stato privo di incrinature e di spazi di movimento. Nel cristianesimo, la sua radice, Gesù, costituisce ancora oggi, paradossalmente, la sua più radicale messa in discussione e la presenza della Madonna (Madre di Dio e Assunta in cielo col suo corpo fisico!), ha continuato il ricordo della insopprimibile pur se addomesticata potenza femminile; nell’ebraismo, privo di una struttura gerarchica di controllo simile alla Chiesa e al Vaticano, esistono da sempre scuole rabbiniche profondamente impegnate in lavori capillari di esegesi dei libri sacri che danno spazio a forme di conoscenza e ad assunzioni di responsabilità intime e personali; nell’islam, più si torna indietro verso le origini più gli hadith del Profeta sono scevri di intolleranza e le cinque preghiere giornaliere riflettono ancora uno schema legato ai ritmi naturali della linfa nel mondo vegetale, mantenendo in vita – all’insaputa della maggioranza dei credenti – un legame con le conoscenze degli antichi.
Esistono cioè spazi non visibili sul palcoscenico massmediologico, nel Retroscena, dove le Radici si sono mantenute vive e intrecciate, anche là dove le foreste sono state abbattute o date alle fiamme. Forse stanno premendo per riemergere alla luce, per buttare nuovi getti, forse sarebbe possibile riattivare questi legami. Interrogandoci, per esempio, sulla fragilità delle culture pacifiche ed egualitarie di fronte a un mutamento provocato dall’esterno; o sul perdurare della necessità, in termini darwiniani, del successo del più aggressivo della specie, quando questo tipo di aggressività abbia esaurito il suo compito e, non contenuto, giri a vuoto come impazzito seminando distruzione intorno a sé. O ancora, chiedendoci se la fase del patriarcato attraversata dalla storia di quasi tutte le culture non debba essere paragonata a una furibonda crisi adolescenziale dell’umanità, utile però a diventare adulti. E se maschile e femminile non siano riducibili schizofrenicamente a uomo e donna e si possa ancora cercare di riportarli in equilibrio, perché l’Uno torni ad essere inclusiva di tutte le sfaccettature di un cristallo.
Pubblicato anche su Guerra e Pace, novembre/dicembre 2008
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sabato 28 marzo 2015
Dio e Dea
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