Mercanti di schiavi virtualiby Citta invisibile |
Aral Balkan non si sente come Davide contro Golia, ma il paragone rende bene l’idea della sfida che ha lanciato. Background assolutamente cosmopolita - cittadino francese, genitori turchi, gioventù in Malesia, formazione accademica in Inghilterra - Balkan è il creatore di Ind.ie, una “impresa sociale” che lavora per sviluppare una tecnologia internet più rispettosa degli utenti e dei loro diritti. Esperto di media, designer e appassionato di informatica fin dalla più tenera età, Balkan ha dichiarato guerra ai colossi del web che si intromettono pesantemente nella privacy di chi naviga su internet, “succhiando” i loro dati per poi rivenderli ai clienti. “Siamo noi, utenti, le nostre vite, il prodotto che queste grandi aziende vendono ai loro inserzionisti”, dice Balkan che non ha paura a usare definizioni dal sapore forte come “moderni mercanti di schiavi virtuali” per imprese come Facebook e Google. Venerdì 27 marzo, Balkan sarà ospite della Facoltà di Design e Arti unibz, a Bolzano, dove terrà una conferenza nell’ambito della manifestazione Glocal Design Spring. A Balkan abbiamo chiesto di spiegarci come intende promuovere valori come il rispetto dei diritti umani nel web 2.0.
Balkan, cosa lega il design alla democrazia e ai diritti umani?
Siamo circondati da oggetti come cellulari, computer - o tantissime altre macchine ancora - che esercitano un profondo effetto sulla nostra vita. Le esperienze create per mezzo di questi oggetti sono importanti perché possono renderci felici e aprirci nuove possibilità. Ad esempio, se usiamo Google Maps, possiamo capire meglio dove andare e orientarci; è una grande esperienza, senza dubbio. Al tempo stesso, in quel caso, stiamo però rinunciando a qualcosa e lo facciamo, nella maggior parte dei casi, senza saperlo. Il prezzo da pagare per l’utilizzo di Google Maps è la tua privacy.
Cioè permettiamo a Google di sapere dove vogliamo andare o cosa ci piacerebbe fare.
Esattamente. Aggiungiamo volontariamente quell’informazione alle miriadi di altri dati su di noi che possono ottenere sbirciando quello che ci interessa e che andiamo a scoprire sul loro motore di ricerca. Noi pensiamo che sia un servizio gratuito ma non è così. Quando usiamo il loro servizio, cediamo una parte di noi. È il loro modello di business. Io invece come utente e come imprenditore, voglio creare soluzioni tecnologiche indipendenti che offrano servizi e aumentino le possibilità delle persone senza che queste siano costrette a vendersi a Yahoo, Facebook o Google. La monetizzazione degli utenti dei loro servizi è il business più redditizio della contemporaneità. Noi non sappiamo che uso facciano delle nostre informazioni. La sorveglianza da parte delle imprese può facilmente sfociare in una sorveglianza statale e ciò ha naturalmente implicazioni molto pesanti per la libertà delle società in cui viviamo.
Qual’è l’alternativa?
Stiamo provando a realizzarne una con Ind.ie, cercando di dare concretezza a soluzioni che rispettino i diritti delle persone e che non remunerino solo gli investitori. Il problema è il web così com’è oggi. 25 anni fa l’idea in voga era che il web dovesse essere una piattaforma orizzontale e decentralizzata.
E oggi non è così?
No, il web è dominato da enormi “silos” dell’informazione come Google e Facebook. Ciò è dovuto al design del web, alla sua architettura basata su client e server. Noi vorremmo decentralizzare quest’economia del web per mezzo della tecnologia Ind.ie, una piattaforma per la comunicazione che si propone, come erede del movimento per il software libero e l’open source, di ricreare un web basato sul collegamento peer-to-peer, orizzontale.
Quanto dovremo aspettare perché Ind.ie veda la luce?
Tra poco testeremo la versione alfa della piattaforma, con il coinvolgimento dei nostri 700 sostenitori. Siamo molto curiosi e impazienti di vedere come reagiranno. Sono convinto che valga la pena provare a creare alternative tecnologiche. Rimango convinto però che se non ci sarà un parallelo cambio di mentalità, con una rivalutazione della comunità e dei legami che ci legano agli altri, ciò non sarà molto utile. La tecnologia in sé è solo un moltiplicatore: può essere dannosa se utilizzata con cattive intenzioni ma anche estremamente positiva se fa crescere le relazioni tra le persone.
Come ne avete finanziato l’avvio?
Io non sono ricco di famiglia ma i miei genitori mi hanno aiutato a fondare Ind.ie vendendo un appartamento comprato in cooperativa ad Ankara. Poi una campagna di finanziamento tra vari donatori ci ha permesso di poter partire e di lavorare liberamente senza essere dipendenti da un sistema finanziario altamente tossico. Noi rifiutiamo il sostegno del venture capital che pretende un enorme e veloce ritorno sul capitale investito. Se lo facessimo, avremmo già fallito perché perderemmo il controllo su ciò che stiamo facendo
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