Yemen: se l'Iran esporta la sua rivoluzione
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Con la conquista del controllo dello Yemen l'Iran sale a quattro. Quattro paesi controllati direttamente dao Pasdaran iraniani (Libano e Siria), o indirettamente (Iraq e Yemen, appunto). Controllo non solo quale potenza regionale, ma quali paesi oggetto della "esportazione della rivoluzione" iraniana, come recentemente ha rivendicato con orgoglio il generale Jaafari, il comandante dei Pasdaran. Controllo acquisito dal movimento sciita yemenita Houti con l'appoggio militare determinante dell'Iran (con intere navi di armamenti fornite a Saa'da e del quadro di comando militare della Brigata al Qods del generale dei Pasdaran Suleimaini), fatto di cui s'è reso conto pure l'ineffabile J.F.Kerry (ed è tutto dire). Controllo non definitivo, perché l'appello al Consiglio di sicurezza Onu del presidente yemenita deposto Mansour Hadi (costretto a fuggire, forse a Gibuti) cadrà nel vuoto perché è quasi certo il veto russo, da sempre sponsor dell'Iran. È quindi probabile, se non certo, che nelle prossime ore un'armata dell'Arabia Saudita, già pronta ai confini, entrerà nello Yemen, che sarà teatro della ennesima guerra interaraba e tra sciiti e sunniti. Iran e Arabia Saudita si combatteranno quindi direttamente sul terreno yemenita, primo passo di una escalation rovinosa, ennesima conseguenza anche della politica mediorientale della Amministrazione Obama.
La crisi yemenita infatti, ha antiche dinamiche interne sia politiche che religiose (i rapporti tra lo Yemen del nord e lo Yemen del sud sono stati più bellici che pacifici), ma è diventata deflagrante, con l'assalto manu militari degli sciiti del governo di Sana'a e la cacciata del legittimo presidente Houdi, solo e unicamente grazie alla regia, all'intervento e alla strategia del governo "riformista" del presidente iraniano Rouhani.
La crisi dello Yemen fa infatti parte di una manovra rivoluzionaria e destabilizzante a largo raggio (che si dirigerà a breve probabilmente verso il Kuwait e di nuovo nel Bahrein) nei confronti dei paesi dell'area, dispiegata da Rouhani, in piena continuità con Ahmadinejad, che Barack Obama, non ha minimamente contrastato, in specie in uno Yemen che considerava "modello di riferimento" per la ricomposizione delle crisi innescate col 2011. George W. Bush, al contrario -e a ragione- valutava l'ingerenza irano siriana in Libano - (Hezbollah è formalmente sotto la leadership della Guida della Rivoluzione iraniana Khamenei), elemento fondamentale per inserire il regime di Damasco nell'asse del male (a posteriori, va almeno riconosciuto che la definizione era perfettamente aderente a Beshar al Assad).
Il problema più grave che pone questa nuova crisi yemenita, di cui in Occidente si fatica a comprendere la gravità, non riguarda solo - e sarebbe già motivo grave - la probabile apertura di una nuova guerra mediorientale, ma l'attendibilità stessa del governo di Teheran quale firmatario dell'imminente accordo sul nucleare.
Ogni accordo si basa ovviamente sulla attendibilità dei contraenti, ma in particolare in quello sul nucleare questa è indispensabile. La crisi iniziò nel 2005-2006 quandol'Aiea certificò senza ombra di dubbi che l'Iran era appunto inattendibile perché non solo impediva materialmente le sue ispezioni, ma sviluppava programmi segreti e nascosti di arricchimento dell'uranio (da qui le sanzioni Onu, votate persino da Russia e Cina).
Per di più, la filosofia dell'accordo imminente, accettata irresponsabilmente da Obama non si regge più sulla limitazione drastica delle centrifughe iraniane, che impedirebbe materialmente la fabbricazione della bomba, o sull'arricchimento dell'uranio all'estero (proposta di alcuni anni fa della Russia), ma sulla permanenza in Iran di migliaia di centrifughe che potenzialmente possono raffinare materiale nucleare per la bomba atomica, obbiettivo che l'Iran non potrebbe più perseguire solo e unicamente grazie al meccanismo delle ispezioni Aiea che dovranno verificare di volta in volta che manchi almeno un anno al raggiungimento dell'obbiettivo (questo riferisce l'autorevole Henry Kissinger).
Dunque l'attendibilità dell'Iran è l'elemento fondamentale, la precondizione indispensabile alla firma di un accordo con termini così rischiosi e tutti e solo basati sulla buona fede dei contraenti (non sull'impossibilità materiale di costruire un'atomica, lo ribadiamo).
L'"esportazione della rivoluzione" iraniana in Libano, Siria, Iraq e Yemen, la destabilizzazione montante dell'area, la deflagrazione addirittura di una crisi che vedrebbe l'Iran contrapposto frontalmente e militarmente all'Arabia Saudita, minano alle radici questa attendibilità per una ragione strutturale: l'Iran persegue una rivoluzione eversiva degli ordini statuali stabiliti. Non a costruire assetti politici stabili in Medio Oriente. Ogni accordo è istituzionalmente "un pezzo di carta", non già per ragioni di cinismo politico (ovvie), ma per una fondante aspirazione apocalittica e rivoluzionaria.
Ma, a fronte di questo quadro oggettivo inconfutabile, Obama volta la testa dall'altra parte e tira dritto con le trattative di Ginevra. È esattamente lo schema del 1938 di Monaco, là dove, lo ricordiamo, Hitler non aveva tutti i torti sulla specifica questione dei Sudeti (effettivamente semi schiavizzati dai boemi), ma l'errore fu altro e terribile: non aver compreso la natura apocalittica del nazismo.
Oggi, lo slogan ufficiale degli Houti yemeniti è "morte all'America, morte a Israele, dannazione agli ebrei!"
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