Expo e cibo: come non trasformarla in una grande abbuffata di oligarchi
Loretta Napoleoni
Economista
L’Expo non poteva scegliere un argomento migliore del cibo quale sua tema, l‘industria alimentare è tra le poche che continuano a crescere a ritmi sostenuti sia nei paesi industrializzati che nelle economie emergenti. Nel 2015 il settore agricolo e quello dell’alimentazione contribuiranno per il 10 per cento al Pil mondiale. Un trend che difficilmente cambierà nei prossimi anni, le proiezioni per il 2050 ci dicono infatti che la popolazione mondiale aumenterà di ben 2 miliardi (per un totale di 9) rispetto ad oggi. Secondo gli analisti tutte queste nuove bocche da sfamare e dissetare contribuiranno alla crescita esponenziale del settore.
L’industria alimentare e delle bevande viene spesso citata quale modello di successo dell’economia capitalista. Naturalmente, ci si riferisce a quello alimentare occidentale. Le statistiche ci dicono che in occidente negli ultimi 100 anni il costo del cibo e la percentuale della spesa alimentare rispetto a quella totale delle famiglie sono scesi. Mangiare in occidente, poi, costa meno che nel resto del mondo, negli Usa le famiglie spendono meno del 13 per cento della spesa totale contro il 23 per cento in Asia. Che l’esborso alimentare sia diminuito in occidente non c’è dubbio: nel 1091 una famiglia americana spendeva circa il 46,4 per cento del proprio reddito nell’alimentazione, nel 1995 questo rapporto era appena il 14 per cento.
Tuttavia queste statistiche sono il prodotto di una serie di fattori tra cui l’aumento dei salari medi, la riduzione dei costi di produzione agricoli ed il miglior funzionamento del mercato. Quest’ultimo fenomeno ci interessa particolarmente perché legato al modello capitalista. Una grossa fetta del settore alimentare mondiale è nelle mani di una manciata di multinazionali: Unilever, Cadbury Schweppes, H. J. Heinz, Kraft Foods Group, Mendelez International (che faceva parte della Kraft Foods, Inc.), General Mills e Nestlé, sono le più’ importanti. Queste imprese ormai controllano ciò che mangiamo – la Uniliver, ad esempio, stima che ogni giorno 150 milioni di persone acquistano i suoi prodotti che vanno dal dado Knorr ai pasti dietetici della slim fast. Spesso non sappiamo neppure che i prodotti che acquistiamo al supermercato appartengono a queste multinazionali, dal 1989 tutte quelle del cibo hanno fatto vaste acquisizioni a livello locale, lasciando i marchi inalterati per confondere il consumatore.
Non solo una manciata di imprese controlla ciò che mangiamo, ma è probabile che possano decidere il futuro del cibo senza interpellare il consumatore. Dal alcuni anni, la natura oligopolistica del settore alimentare e le proiezioni demografiche sono alla base di una serie di fusioni ed acquisizioni a livello globale che molti sostengono saranno benefiche per il consumatore delle economie emergenti – dove ancora il modello occidentale non ha attecchito completamente – perché farà scendere i prezzi. In altre parole si ripeterà quanto già osservato in occidente durante il secolo scorso.
Le imprese più agguerrite sono le brasiliane come 3G Capital Partners, una private equity che dal 2013 acquista imprese alimentari nel nord America. Ha comprato infatti la Heinz con l’aiuto della Berkshire Hataway di Warren Baffet e la Burger King e Tim Horton, una società canadese famosa per la sua catena didoughnut, le celeberrime frittelle dolci americane. Nel 2015 ha annunciato che la Heinz acquisterà la Kraft Food, tra le più grandi multinazionali del cibo al mondo. Una volta completata la fusione, il gruppo sarà proprietario dei marchi più conosciuti e godrà di entroiti annuali pari a 28 miliardi di dollari.
Il futuro del cibo sta per finire nelle mani dell’alta finanza che considera questo prodotto come una merce di scambio qualunque, alla stregua dei derivati finanziari. E questo è vero perché sulla carta il modello oligopolista occidentale ha abbattuto i costi di produzione e quelli al dettaglio e massimizzato i profitti grazie anche e soprattutto alle economie di scala. Insomma è un modello di successo.
Ma il cibo non è un prodotto come un altro, è un bene politico e come tale va gestito. Dall’inquinamento degli oceani che la plastica utilizzata dalle multinazionali dell’alimentazione per riempire gli scaffali dei supermercati del mondo produce, fino alla distruzione delle economie agricole locali, dall’obesità dilagante legata ai fast food alle malattie prodotte dai cibi ipercalorici, il cibo può anche uccidere il pianeta ed i suoi abitanti.
Su questi temi bisognerebbe riflettere durante l’Expo invece di trasformare l’evento, sotto tutti i punti di vista, in una grande abbuffata degli oligarchi del cibo.
Nessun commento:
Posta un commento