giovedì 4 giugno 2015

il sacrificio sull'altare dell'iperproduttività

Il sacrificio

by JLC
Chiudere gli impianti produttivi, a favore di attività commerciali o pubblicitarie, turistiche o spettacolari. Hanno deciso di lasciar sopravvivere solo le imprese di produzione situate nelle zone di non-diritto del Sud del mondo e le imprese di lavoro immaginario del Nord. È l'ipercapitalismo, per dirla con il filosofo francese Jean-Paul Galibert, autore di Suicidio e sacrificio. Il modo di distruzione ipercapitalistico (testo, edito Stampa alternativa, di cui pubblichiamo alcuni stralci). Ha soltanto un problema questa nuova tormenta capitalistica: che fare degli operai diventati disoccupati? cosa vendere in continenti come l’Africa, in tutti quei paesi di cui non conosciamo neppure il nome? L'ipercapitalismo ha una soluzione semplice ed efficace, tanto definitiva quanto redditizia: il suicidio
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di Jean-Paul Galibert*
Ormai è l’iperredditività a imporre il suo dominio al mondo nella sua interezza: essa esige che ogni essere umano sia assolutamente redditizio, vale a dire che renda tutto il possibile e non costi nulla. Precisiamo subito che l’iperredditività ammette i costi ma non gli oneri sociali: accetta di farsi carico di un costo reale o di un investimento ma mai della responsabilità di un destino umano o di un’esistenza reale.
L’iperredditività si lascia alle spalle il buon vecchio capitalismo, che aveva confinato la redditività classica in un mondo doppiamente positivo, in cui si trattava sempre implicitamente di produrre merci reali per soddisfare bisogni umani, e si avvicina all’ideale della redditività assoluta, facendo saltare questi due paletti immaginari: non si cura né della realtà né dell’umanità. L’iperredditività può anche fornire qualcosa di inesistente a persone inesistenti se ciò è più redditizio. Ora, come si vedrà, niente è più redditizio della vendita di cose immaginarie a chi immagina. (…)
(Immagine JPEG, 364x511 pixel)È il principio dell’iperlavoro1: colui che immagina aggiunge valore alla cosa immaginata, il valore del tempo passato a immaginarne il valore, l’uso e le qualità. Non vede dunque nulla da obiettare nel pagare questo supplemento di valore al giusto prezzo della sua forza lavoro, di modo che accetta di dare alla stessa persona il suo lavoro e il suo denaro.
L’iperlavoro è il modo di sfruttamento più redditizio, perché è un doppio sfruttamento che si aggiunge allo sfruttamento classico del lavoro: al di là del tempo di lavoro reale e del suo valore, si immagina e si paga. Il tempo trascorso a immaginare e ad avvalorare, che costa solo investimenti pubblicitari, raddoppia il valore delle merci. In effetti, si accetta di pagare il lavoro svolto aumentando con l’immaginazione il valore della merce ai propri stessi occhi.
L’ipersfruttamento del consumatore non raggiunge la redditività assoluta, poiché vi sono dei costi da sostenere, in particolare pubblicitari, per innescare e intrattenere il lavoro dell’immaginazione. Ma è iperredditizio, perché il lavoro dell’immaginazione è il primo lavoro pagante della storia dell’umanità.
L’iperlavoro5 è il modo di sfruttamento più popolare, perché sembra il più giusto. Viene accettato proprio in virtù del suo rispetto scrupoloso dell’equivalenza dei termini di scambio. In effetti, perché il consumatore accetta di lavorare per il venditore e poi di acquistare? Perché offre due volte il valore della merce in cambio di niente? Semplicemente perché paga la merce al giusto prezzo del proprio lavoro d’immaginazione. Vede bene il valore supplementare che lui stesso ha conferito alla merce, tanto da comprarlo come se fosse reale. È proprio perché è doppiamente sfruttato che non ha l’impressione di esserlo, per il semplice fatto che queste due forme di sfruttamento sono esattamente uguali, e questa uguaglianza può essere vissuta come qualcosa di giusto.
L’iperlavoro è l’ultima opportunità di esistere, la sola porta rimasta aperta, perché è il solo modo d’accesso all’iperreale, che ormai passa per ciò che vi è di più reale. Tutti gli schermi fanno vedere ma solo gli schermi fanno vedere. Di conseguenza, si può vedere tutto ma non si può avere niente. È questo l’iperreale: la convinzione che le immagini e il virtuale siano ciò che vi è di più reale, perché più redditizi, più valorizzati e più spettacolari.La televisione, il computer e il cellulare diventano strumenti di cattura del tempo di lavoro del consumatore, l’iperlavoro, il più redditizio di tutti i tempi di lavoro.
L’ipercapitalismo ne trae le conseguenze: tutto il resto deve sparire! Occorre smantellare il capitalismo e venderlo pezzo a pezzo, al prezzo del ferro vecchio e senza curarsi dei disoccupati. Le fabbriche redditizie dovranno chiudere, i lavoratori produttivi saranno licenziati, tutto sarà sacrificato alla nuova iperredditività. (…)
La conseguenza di questa redditività senza precedenti è che nessuna impresa ha più interesse a operare nel settore della produzione. Si assiste così a una corsa generale alla chiusura degli impianti produttivi, a favore di attività commerciali o pubblicitarie, turistiche o spettacolari, tutte ad alto coefficiente di iperlavoro. Tutte le attività produttive producono chiudono e licenziano. Tutte quelle che si fondano sull’immaginazione prosperano e si sviluppano.
Che fare degli operai? Dei disoccupati. Ma che fare dei disoccupati? E perché non dei suicidi? Certo, la società ipercapitalistica ha bisogno di cervelli oziosi e disponibili6 ai suoi spettacoli e all’acquisto delle sue merci; ma devono essere ricchi o, almeno, solvibili. Ora, che cosa vendere ai disoccupati privi di sussidi sociali? Che cosa si può sperare di vendere a quella metà degli abitanti del mondo che sono tanto giovani quanto disperatamente poveri? Che vendere all’Africa e a tutti quei paesi di cui non conosciamo neppure il nome? A tutti i suoi problemi insolubili, l’ipercapitalismo apporta una soluzione semplice ed efficace, tanto definitiva quanto redditizia: il suicidio.
Quando i fondi pensione o quelli che vengono chiamati pudicamente “i mercati” hanno cominciato a esigere dalla imprese una redditività a due cifre, che si avvicina ormai al 20 per cento, queste hanno scientemente deciso di lasciar sopravvivere a lungo termine solo le imprese di produzione situate nelle zone di non-diritto del Sud del mondo e le imprese di lavoro immaginario del Nord (commercio, pubblicità, media, turismo, tempo libero). Tutte le imprese di produzione del Nord, così come tutti i lavoratori, possono conseguire la redditività richiesta solo accettando un piano progressivo di autodistruzione redditizia. L’iperredditività distrugge il capitalismo a beneficio dell’ipercapitalismo: ci porta da un modo di produzione a un modo di distruzione. (…)
L’ipercapitalismo7 è un modo di distruzione in cui l’elevata redditività dipende essenzialmente dallo smantellamento di intere parti dell’apparato produttivo. La caccia al salario è aperta. Le imprese più redditizie sono quelle che eliminano più salari: riduzione del personale, disoccupazione tecnica, piani sociali, licenziamenti, smantellamenti. Che ne sarà di coloro che non avranno più un salario? Ma è affar loro! Un problema privato, personale, psicologico forse… In fondo, di chi è la colpa se commettete l’irreparabile?
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NOTE
1 Con “iper” si intende immaginario, ossia che si ottiene attraverso un lavoro d’immaginazione, come, ad esempio, in “ipermercato”: si offre uno stock e il cliente immagina che si tratti di un mercato o “ipermoderno”: ci si immagina che sia moderno. Spetta all’acquirente assicurare il montaggio e soprattutto di completare il prodotto attraverso il lavoro della sua immaginazione: viene fornito il necessario per immaginare il resto.
2 J.-P. Galibert, Pour une économie négative, “Futur antérieur”, n. 18, 1993/1994. Riproposto dal sito Multitudes.
3 Ci si ricorderà della franchezza di Patrick Le Lay, direttore di TF1: «Ciò che vendiamo alla Coca-Cola, è il tempo disponibile di cervelli umani».
4 J.-P. Galibert: L’hypercapitalisme, discorso pronunciato al convegno Marx International nel settembre 1995 e pubblicato in Politique et Philosophie, Parigi, Presses Universitaires de France, Actuel Marx n. 19, 1996. Riproposto nel sito Multitudes.

* Jean-Paul Galibert (1959), filosofo e professore di filosofia, è l’autore di Invitations philosophiques à la pensée du rien (2004) e di Les Chronofages (2014). Anima un blog molto seguito in Francia.

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