Punti di libertà forzata. (Ancora) undici tesi sul materialismo
di ADRIAN JOHNSTON
Nella discussione filosofica odierna sulla configurazione del materialismo e sulle sue possibili combinazioni occorre soffermarsi anche sulla proposta di un “materialismo trascendentale”, recentemente avanzata da Adrian Johnston. Qui presentiamo, introdotta dai suoi curatori, la traduzione del suo “manifesto”.
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Adrian Johnston rappresenta uno degli autori più letti e discussi all’interno del dibattito della teoria critica. Le sue linee di ricerca convergono sulla definizione di ciò che egli chiama materialismo trascendentale. Si tratta di una cornice filosofica che combina un’ontologia materialista, contraddistinta da una forte apertura verso le scienze naturali, e una teoria della soggettività che ne mantiene la complessità e l’autonomia. In questa direzione assume un ruolo preminente il confronto con autori quali Žižek, Lacan, Badiou, Meillassoux.L’articolo che presentiamo è stato pubblicato per la prima volta nel 2013 in "Speculations: A Journal of Speculative Realism", ed esemplifica con chiarezza le ambizioni e gli snodi appena presentati.
(Diego Ferrante e Marco Piasentier)
I
Ogni materialismo degno di questo nome deve prevedere elementi provenienti dal naturalismo e dall’empirismo. D’altro canto, è necessario che non sia semplicemente ed esclusivamente naturalista o empirista nel senso tradizionale (soprattutto pre-kantiano) di queste etichette (e, nel caso dei materialismi sviluppatisi sulla sciadell’idealismo tedesco, includendo tra questi il materialismo trascendentale, non dovrebbero esserlo). Ne consegue che ogni razionalismo anti-naturalista, di qualsiasi guisa esso sia, non può simultaneamente essere qualificato come materialista. Sebbene un razionalismo anti-naturalista possa risultare compatibile con il realismo (metafisico), ciò non lo rende per nessuna ragione compatibile con un materialismo in senso stretto. In altre parole, non esiste alcun materialismo interamente formalista; con riferimento alla nascita delle scienze moderne, non c’è Galileo senza Bacone. L’avversione per il metodo sperimentale delle scienze naturali moderne, e ugualmente il rifiuto di legare la conoscenza a tragitti di acquisizione primariamente empirici, trascinano il pensiero per sentieri che conducono a un pitagorismo anacronistico, dualismi ontologici, idealismi spirituali, misticismi religiosi, e un disordinato e proliferante sciame di confabulazioni, illusioni, fantasticherie, fantasie e deliri che presenta se stesso come un filosofare rigoroso e responsabile. Inoltre, nella misura in cui un materialismo quasi-naturalistico permeato dall’empirismo, alla fin dei conti, non corrisponde e non equivale a un determinismo rigido e meccanico; una sensibilità materialista in sintonia con le scienze naturali non deve essere temuta come se fosse il primo varco per la chiusura immediata di ogni spazio per una soggettività autonoma, e tutto ciò che essa porta con sé.
II
Per più di duemila anni di storia, la relazione tra filosofia non-empirica (in quanto pensiero a-priori) e aree empiriche di investigazione (in quanto conoscenza a posteriori), è stata dominata da un fondamentale sbilanciamento. Il dispiegarsi storico delle varie incarnazioni del pensiero e della conoscenza ha mostrato che la distinzione tra empirico e non-empirico è, per gran parte, una distinzione interna allo stesso campo empirico (per metterla in forma hegeliana). Quantomeno secondo l’opinione consolidata, il trascorrere di un periodo leggermente inferiore fu sufficiente a Kant per concludere che i numerosi sforzi, disseminati lungo la storia, dall’antica Grecia all’Illuminismo europeo, di giungere a una conoscenza metafisica privilegiata all’interno delle realtà ontologiche trascendenti in sé e per sé era sempre intrinsecamente vano. La “dialettica trascendentale” della Critica della Ragion Pura, rivelando i contorni precisi degli stalli che condannano da sempre alla futilità ognuna e tutte le metafisiche classiche, deriva la sua logica critica dalle prove offerte da duemila anni di storia della filosofia.
Ugualmente, i due secoli e più che Kant ha avuto a sua disposizione rivelano un pattern secondo cui gli sviluppi sul piano empirico forzano ripetutamente a tracciare d’accapo la linea di confine che separa la giurisdizione esplicativa empirica da quelle non-empiriche. Sebbene una gamma confusa di forze e fattori abbiano contribuito a questo processo storico – la storia della conoscenza umana è inseparabile dalla straordinaria ricchezza rappresentata dell’affresco della storia umana tout court – la nascita della scienza moderna con Bacone e Galileo, agli inizi del diciassettesimo secolo, aggiunse un nuovo potente accelerante alla trasformazione della filosofia, in riferimento e attraverso le sue relazioni con gli altri metodi e campi di indagine. Le scienze sperimentali si sono rivelate, a posteriori, sempre più capaci di avanzare diritti su questioni e problemi che, in precedenza, apparivano essere questioni teoretiche a priori, prerogativa dei soli filosofi. Nondimeno, ciò non significa disconoscere che molti di questi sviluppi empirici sono, per larga misura, ramificazioni distaccatesi dalla filosofia e dalla sua storia (ovvero, questioni inizialmente intra-filosofiche, divenute susseguentemente campi più-che-filosofici autonomi).
Ammettere e accettare quanto detto non equivale a una deplorevole degradazione scientista della filosofia dalle vette dell’estrema hybris: da regina delle scienze, alla profonda umiliazione di essere loro ancella. Un riconoscimento e una riconciliazione dell’irregolarità che si manifesta storicamente, nella quale è l’empirico a dare avvio al formarsi e riformarsi dei confini tra se stesso e il non-empirico, non comporta una resa della filosofia; tanto meno si tratta di una concessione in base alla quale questa formazione e ridefinizione è sempre, può o dovrebbe essere interamente e completamente decisa solo dal versante empirico che, a ogni modo, di per sé non è mai del tutto empirico. La filosofia continua a essere chiamata a esercitare le sue obbligazioni inalienabili: porre criticamente e valutare le presupposizioni più-che-empiriche che soggiacciono dietro le scienze; facilitare e parzialmente strutturare le discussioni tra le diverse scienze; esplorare teoreticamente le estrapolazioni tratte dall’attuale interazione tra filosofia e scienze, per il futuro beneficio di tutte le discipline coinvolte. Le molteplici relazioni tra l’empirico e il non-empirico non vanno predeterminate, ma, piuttosto, lasciate aperte a ripetute negoziazioni, contraddistinte da un’appropriata sensibilità dialettico-speculativa (oppure, in termini leninisti, da analisi concrete di situazioni concrete).
III
La “rivoluzione copernicana” rappresentata dalla svolta critico-trascendentale avvenuta sul finire del diciottesimo secolo segna un punto di non ritorno, una rottura in due (per dirla in uno stile nietzschiano) della storia della filosofia, e della speculazione teoretica in generale. I tentativi anacronistici di tornare a un momento precedente tale rottura epocale sono destinati, sin dal loro inizio, al fallimento intellettuale, divenendo nient’altro che dogmatismi condannati immancabilmente a una rovina dialettica auto-generata, che terminano per attorcigliarsi in una rete asfissiante di contraddizioni pre-critiche insolvibili (lasciando da parte l’ironia del denunciarne il dogmatismo, mentre si enuncia bruscamente una serie di tesi – che dimostrabilmente possono essere difese su basi non-dogmatiche). Per esempio, gli sforzi contemporanei di rompere con Kant attraverso la ripresa di una metafisica della sostanza – così alla moda e diffusa nel continente europeo durante il diciassettesimo secolo (si veda soprattutto lo spinozismo) – possono solo re-imprigionare la filosofia in un’arena recintata fatta di scontri interminabili e improduttivi, in una proliferazione moltiplicativa e senza limiti di contendenti che puntano i piedi e sbattono i pugni, incapaci di sbarazzarsi definitivamente l’un dell’altro. Contro il kantismo si riattivano solo esplosioni regressive e impotenti, e nulla più.
Ciò non significa che l’idealismo trascendentale kantiano sia la vetta insuperabile della storia della filosofia. Bisogna invece ammettere che il solo percorso davvero disponibile per oltrepassare Kant passa attraverso di lui, ovvero non è possibile superarlo tutto d’un colpo. Una delle lezioni cruciali dell’esplosione idealista tedesca – avviata dalla filosofia kantiana, e dalle controversie che la circondano – è che il solo modo effettivo per superare non-dogmaticamente il soggettivismo kantiano, e la sua opposizione al materialismo e a un robusto realismo, è una critica immanente all’idealismo trascendentale. Alla stessa maniera, se non è plausibile una resurrezione filosofica e una rivitalizzazione della speculazione pre-kantiana, non è nemmeno opzione convincente o accettabile un ritorno innocente a un Kant pre-hegeliano. Come la rivoluzione critica, così la critica hegeliana a Kant, poiché inaugura una traiettoria post-kantiana nella filosofia kantiana e attraverso di essa, non può essere ignorata o elusa. Questa critica include diverse dimostrazioni: delle presupposizioni dogmatiche, perché non-critiche; delle investigazioni apparentemente critiche interne al pensare la soggettività (soprattutto per quanto riguarda un’antropologia e una psicologia filosofica); dell’operazione dialettica di auto-decostruzione della figura del limite basata sulla distinzione tra noumeni e fenomeni; e della tormentata inconsistenza e nullità della scellerata cosa-in-sé. Un materialismo realista e quasi-naturalista non solo non deve essere dogmatico in quanto post-critico, anziché pre-critico – arrivando a criticare l’idealismo trascendentale attraverso un passaggio immanente e non esterno a esso –, ma deve anche tener conto dell’eredità formidabile dell’ “idealismo assoluto” della dialettica speculativa hegeliana.
IV
Seppure sia evidente che tutti i riferimenti appena proposti appartengono al mondo di lingua tedesca della fine del diciottesimo e dell’inizio del diciannovesimo secolo, il materialismo trascendentale, così come i materialismi storici e dialettici di cui sono un’estensione nel ventesimo secolo, è decisamente anti-romantico, anti-pietista e anti-luddista (animosità mutuate felicemente e con riconoscenza dalla tradizione marxista). Come risaputo, il Romanticismo e il Pietismo, condividendo gusti discutibili per l’ineffabile e il privato, finiscono con il convergere, sovrapponendo influenze interne almilieu intellettuale che circonda Kant e gli idealisti a lui contemporanei e successivi. Sfortunatamente, questi irrazionalismi religiosi e pseudo-secolari continuano a gettare le loro ombre sul presente, seppure essere così Sturm und Drang non abbia alcun senso.
Oggigiorno, questo Romanticismo con venature religiose è esemplificato da una varietà di heideggerismi antiquati, con le loro fissazioni reazionarie e le preoccupazioni per crisi apparentemente “spirituali”, che esprimono forse la necessità di un re-incantamento e una re-sacralizzazione anti-scientifici. Si tratta di diagnosi erronee che distraggono pericolosamente. Seppur vaghe e indirette, le associazioni tra (neo-)Romanticismo e la destra, fino a giungere al fascismo, non sono coincidenze storiche casuali. Sia filosoficamente che politicamente, dal diciottesimo secolo a oggi, tali pericolosi oscurantismi, che affondano le loro radici nell’atmosfera stagnante del protestantesimo del Sacro Romano Impero, sono stati e rimarranno causa di deplorevoli disastri intellettuali. Uno degli slogan agguerriti – validi per ogni materialismo contemporaneo indebitato con Hegel, Marx, Freud, e Lacan, tra gli altri – è “Dimenticate Heidegger!”. Su un piano teoretico più che immediatamente pratico, ciò comporta il rifiuto di costruire un’ontologia lungo le linee della differenza ontologica heideggeriana. Questa distinzione tra ontologico e ontico, insufficientemente dialettica ed eccessivamente netta e pulita, conduce dritti a un offuscamento fondamental(ista) dell’effettiva esistenza materiale del naturale/non-umano e del non-naturale/umano, nonché a oscure pseudo-spiegazioni spiritualiste che, sulla base di un Essere divinamente opaco, danno ragione delle strutture e dinamiche storiche.
Come i romantici e i pietisti in precedenza, numerosi post-idealisti del diciannovesimo e del ventesimo secolo finiscono con il proporre un facile misticismo, la cui sottesa logica basilare è difficilmente da distinguibile da quella della teologia negativa. La spina dorsale rimane invariata: esiste una data “x”; questa “x” non può essere afferrata razionalmente o discorsivamente da nessuna categoria, concetto, predicato, proprietà, etc.; nondimeno, l’unico vero compito del pensiero è quello di contornare senza fine questo vuoto sacro di ineffabilità, ripetendo ad infinitum, (e ad nauseum) il gesto di afferrare ciò che si presume inafferrabile. I nomi di questa “x” vuota variano, mentre il modello rimane costante: la Volontà, la Vita, il Potere, il Tempo, l’Essere, l’Altro, la Carne, la Differenza, il Trauma, e così via (fino a certe versioni pseudo-lacaniane del Reale). Non solo questo stampo teologico-negativo così noiosamente prevedibile è di per sé uno schema concettuale che afferra tutto con eccessiva facilità, ma anche se si intendesse prendere per valida la verità di una o più di queste ineffabilità, così come propugnate dai loro numerosi ed entusiasti sostenitori, esistono questioni e urgenze molto più forti nel pensare cosa fare, anziché rimanere assorbiti nel sedentario esercizio meditativo di far nulla mentre si fissa il fondo scuro dell’abisso.
V
Affinché un materialismo poggi sulle spalle di Kant, Hegel, Marx e Freud, e non sia né deterministico, o meccanicistico, o riduttivista, né eliminativo, la sua ontologia materialista deve essere retro-progettata a partire da una teoria della soggettività. Nello spirito della diagnosi elaborata da Marx nella prima delle undici “Tesi su Feuerbach” (1845) sui limiti dei materialismi puramente “contemplativi” sviluppatisi dagli antichi fino a Feuerbach – se Marx se ne renda conto o meno, questa diagnosi è una permutazione dell’ingiunzione hegeliana di rendere la sostanza anche come soggetto – i soggetti più-che-materiali/naturali devono essere immaginati come simultaneamente immanenti alle esistenze asoggettive materiali/naturali (ovvero, come sostanze, per rimanere alle parole usate da Hegel). Da un’angolazione post-critica, la soggettività è trascendentale perché condizione di possibilità non solo per ogni materialismo in quanto apparato teoretico, ma per la filosofia e il pensiero in generale. Una via di fuga dai confini mentali delle varianti soggettivamente idealiste del trascendentalismo, se realizzata in maniera filosoficamente difendibile, deve prendere le mosse dall’interno di questi confini (o, come posto da Meillassoux, un “correlazionismo” anti-realista, le cui fondamenta vanno situate nell’idealismo trascendentale kantiano, deve essere disfatto dall’interno). Questo “lavoro dall’interno” di una critica immanente del trascendentalismo soggettivamente idealista è la sola strada per giungere a un meta-trascendentalismo materialista e realista, non dogmatico e razionalmente giustificato, che delinei le condizioni di possibilità sostanziali per una soggettività trascendentale.
Ciò si risolve in una metafisica (in quanto epistemologia e ontologia integrate sistematicamente) del soggetto trascendentale, interconnesso con un’ontologia corrispondente della sostanza meta-trascendentale. Il soggetto del materialismo trascendentale, oltre a essere trascendentale in senso classico, è trascendente specificatamente come trascendenza-in-immanenza in relazione al Reale degli esseri materiali. Con riferimento a “Il più antico programma di sistema dell’idealismo tedesco” (scritto da Hegel di proprio pugno, ma forse originariamente composto da Hölderlin), il materialismo trascendentale presenta se stesso come l’ultimo sistema-programma dell’idealismo tedesco, ovvero, come un nuovo “spinozismo della libertà”, in quanto ontologia (quasi-)naturalista di soggetti autonomi denaturalizzati. Questo materialismo è una riattivazione eterodossa dell’agenda nata a Tubinga all’indomani di quell’evento di rottura rappresentato da Darwin e dall’era emergente dell’antropocene.
VI
Il ponte scientifico per un resoconto materialista post-hegeliano della soggettività trascendent(al)e, in quanto emerge e rimane immanente alla sostanza fisica, deve essere biologico. La transizione dalla Filosofia della Natura di Hegel alla sua Filosofia dello Spirito, e l’antropologia filosofica e la psicologia di quest’ultima, già supportano tacitamente il privilegiare la biologia. Sulla scia di Darwin (e a dispetto dell’affrettato rifiuto da parte di Hegel di certi precursori delle visioni darwiniane), l’evoluzione e la genetica, tra le altre aree della biologia, devono essere componenti integranti di tale materialismo più-che-empirico, senza, al tempo stesso, mettere da parte le sue cruciali connessioni con gli oggetti empirici.
Le due principali alternative alle scienze della vita per colmare il gap tra la sostanza e il soggetto sono entrambe problematiche seppure in maniera distinta. Da un lato, un a priori puramente filosofico, che rifugge l’a posteriori delle scienze naturali come rilevanti per una tale ontologia materialista e una teoria della soggettività irriducibile, può fornire, tutt’al più, suggestive congetture ipotetiche o, al peggio, voli di fantasia dogmatici senza fondamento. Dall’altro, il gesto di legare il materialismo a domini scientifici al di sopra e al di sotto della scala della biologia (ovvero, a scienze diverse da quelle della vita) porta con sé il rischio imminente di rinforzare, magari inavvertitamente, visioni del mondo materialiste di tipo meccanicistico, riduzionista o eliminativo che non lasciano spazio effettivo per quella negatività autonoma personificata dai soggetti umani e dalla loro mente. Le obiezioni per cui l’affidarsi alla fisica dell’estremamente piccolo, come la meccanica quantistica o la teoria delle stringhe, non reintroduce materialismi classicamente deterministi non sono convincenti. Ci sono due ragioni per dubitarne: primo, non c’è correlazione evidente che l’arcana dinamica dei processi quantici, per quanto misteriosa, comporti degli effetti per l’autonomia del soggetto; e, secondo, la supposta rilevanza di tale processi che operano su una dimensione così piccola per oggetti di scala molto più grande, il loro verificarsi per gli esseri umani e le loro esistenze è questione di fede empiricamente non verificabile nell’unità fisica ultima e nella coesione causale di strati e livelli multipli tra gli esseri materiali. Rispetto a questa seconda ragione di scetticismo, un materialismo non riduzionista, che miri a sostenere una teoria della soggettività che emerga con forza, contraddice nei fatti se stessa se pone una continuità sostanziale tra la fisica del microcosmo e la biologia, in quanto quest’ultima si occupa di entità significativamente più grandi. Tale materialismo non deve seguire le orme di Penrose.
Inoltre, le speculazioni e le esplorazioni al di sopra e al di sotto della banda delle scale di ingresso spaziali e temporali delle scienze biologiche, per quanto riguarda il passato recente fino ai tempi attuali, andrebbero lasciate a quelle discipline scientifiche come la cosmologia, l’astrofisica, la meccanica quantistica, la teoria delle stringhe e simili. Questo per dire, per quanto riguarda l’inimmaginabilmente grande e l’inimmaginabilmente piccolo, che le riflessioni teoretiche, se del tutto disconnesse da ogni elemento empirico, sono solo un misero sostituto della molto più accurato, controllata e limitata teorizzazione lanciata dalla piattaforma fornita da queste discipline (persino la teoria delle stringhe, malgrado i dibattiti sul fatto che vada considerata una teoria scientifica in senso stretto, è derivata con una certa precisione da risultati, questioni e problemi interni alla fisica sperimentale). In altre parole, quando si giunge a oggetti molto più grandi o molto più piccoli della realtà umana – che si pone nel mezzo per dimensioni – può dirsi concluso il tempo storico di una filosofia improvvisata, che legifera. Le riflessioni interamente non-empiriche su questi reami si riducono a fantasie dogmatiche del tutto infruttuose.
VII
Per il materialismo trascendentale, per così dire, non esistono illusioni. Con più esattezza, questa variante del materialismo rifiuta di respingere ogni dimensione soggettiva come epifenomeno, ovvero, come puramente illusoria, in quanto causalmente inefficace. L’enfasi di Hegel sulla necessità di pensare la sostanza anche come soggetto comporta l’obbligo complementare di concettualizzare il soggetto come sostanza. Questa reciprocità riflette il suo immanentismo post-spinozista (in entrambi i sensi del qualificativo “post-”) in cui la soggettività trascendent(al)e nondimeno rimane immanente alla sostanza in una relazione dialettico-speculativa di una “identità di identità e differenza”. Pensare il soggetto come sostanza, passo cruciale per un materialismo trascendentale, implica trattare la soggettività e i fenomeni connessi con essa come “astrazioni reali” – una nozione marxiana presagita da Hegel e reimpiegata dal Lacan che, come è ben noto, respinse e confutò un popolare graffito parigino del maggio sessantottino, sostenendo che “le strutture camminano per strada” che “hanno gambe” (forse congiunte con i piedi della storia che marcia di Marx). In quanto reali, ovvero non illusorie, tali astrazioni sono causalmente efficaci e lontane dall’essere meri epifenomeni. Riprendendo le parole di Hegel, il pensiero del concreto separato dall’astratto è di per sé il culmine dell’astrazione.
Inoltre, concepire la soggettività come sostanziale, come interna nella sua irriducibilità alle basi soggettive del suo vero essere, spinge a rigettare ogni materialismo strettamente contemplativo (sia esso meccanicistico, riduzionista o eliminativista). Al di là delle profonde inadeguatezze epistemologiche della prospettiva contemplativa – come per la critica di Hegel e Schelling a Spinoza, e di Marx a Feuerbach, i contemplatori falliscono nel porre la domanda cruciale, le questioni inevitabili su come o perché ciò che contemplano ha dato origine alla contemplazione (incluse le loro), tanto per cominciare – è insoddisfacente anche da una angolazione ontologica. Se i soggetti, senza escludere quelli contemplativi, sono del tutto immanenti al registro ontologico della sostanza, allora un’ontologia che implicitamente o esplicitamente li esclude è necessariamente incompleta. Questa carenza è particolarmente irritante in quanto segno della mancanza evidente di una spiegazione delle cause per un essere asoggettivo che genera da sé, tra le molte altre cose, ogni e qualsiasi ontologia in quanto riverbero soggettivo che si riflette su (e in) questo stesso essere asoggettivo. Parafrasando Marx, si potrebbe chiedere: Chi contemplerà i contemplatori?
VIII
Il materialismo trascendentale è tutto meno che un positivismo scientifico, una semplicistica e riduzionista metafisica nella quale solo la materia-in-movimento – fisicamente presente nel qui ed ora – è considerata reale. In linea con l’idea della “causalità privativa” – rintracciabile nei lavori che vanno da Locke a Kant, Hegel, e oltre –, esso riconosce la reale efficacia causale delle assenze, dei conflitti, dei vuoti, delle mancanze e via dicendo. In altre parole, le negatività (in primo luogo quelle associate con il soggetto di stampo cartesiano) sono agenzie causali reali, immanenti al solo piano dell’essere materiale (o degli esseri materiali). Allinearsi alle scienze non esime il materialismo dal confronto con queste privazioni e con i loro effetti palpabili, malgrado le scienze naturali siano spesso affette da una sfortunata e problematica tendenza spontanea al positivismo che, per così dire, abborrisce acriticamente il vuoto.
Sebbene il materialismo trascendentale affermi, piuttosto che negare, la realtà della negatività, questa posizione, se intesa in senso propriamente materialista, deve essere contrapposta a un’interpretazione mistica del negativo. Quest’ultima tende a prevalere in quelle filosofie che trattano il negativo come ontologicamente reale, dal pensiero cristiano di Pico della Mirandola nel Rinascimento a quella agambeniana, e altre ben lontane da un ateo status quo. L’oscurantismo di questo tipo di proposte, passate e presenti, consiste nel fare appello al chiarificatore non-chiarificato o spiegato di un Nulla già-da-sempre operativo, che – situato al cuore e nell’anima della soggettività (se non dell’Essere stesso) – è capace di dar conto delle datità fattuali. In riferimento alle origini genetiche (siano esse spiegate in termini ontologici o filogenetici) questo Vuoto enigmatico e opaco proviene da Dio- solo-sa-dove. Con riferimento al fondamentale saggio di Sellars “Empirismo e la filosofia della mente”, si potrebbe dire che i mistici del negativo si basano sul mito del non-dato, ovvero sul non-darsi del Nulla/Vuoto come presunta datità fondante elementare. In contrasto, una teoria materiale della negatività si articola a partire dalla necessità di interrogarsi sull’interconnessione tra origine filogenetica e ontogenetica del Nulla/Vuoto come, del resto, sul bisogno di rispondere a questa domanda in modo strettamente materialista (per esempio senza super-imposizioni spiritualiste, mascherate attraverso il ricorso a presupposti e postulati che implicano entità ed eventi totalmente inspiegabili rispetto alle realtà della materia e della natura). Parallelamente all’elaborazione della filogenesi e dell’ontogenesi all’interno di una cornice teoretica in cui darwinismo, marxismo, e psicoanalisi freudiano-lacaniana si intrecciano tra loro, la teoria non-mistica degli oggetti negativi proposta dal materialismo trascendentale si basa su un principio per cui “more is less”(per ribaltare un cliché). Il “più” di un accrescimento non finalizzato e accidentale di componenti contingenti e costituenti materiali nel corso del tempo ha il potenziale per dare origine a un crescente grado di complessità, nella forma di sistemi che si modellano nelle e attraverso relazioni – tra loro in risonanza – tra queste componenti e costituenti materiali accumulatisi (questo è quanto è accaduto nelle storie naturali e non-naturali alle spalle della realtà contenente gli esseri umani per quello che effettivamente sono). Oltre certe soglie, tale complessità – prodotta da nulla che sia per magia inspiegabile in termini naturali o materiali – genera da sé, in modo immanente e attraverso cortocircuiti e auto-sovvertimenti, il “meno” di antagonismi efficacemente causali, di scontri, disfunzioni, divisioni, malfunzionamenti e così via (ovvero negatività) all’interno e tra i diversi elementi che contribuiscono al sorgere della complessità. Per dirla in altro modo, il “più” rappresentato da un surplus di parti positive produce, in una reale dinamica dialettica, il “meno”, ovvero un deficit di coordinazione equilibrata e armonica nelle forme di strutture e fenomeni negativi caratterizzati da assenze, conflitti, vuoti e mancanze che perturbano sia le realtà materiali naturali che quelle de-naturalizzate dall’interno. La negatività del soggetto di tipo cartesiano può e dovrebbe essere spiegata materialmente, anziché lasciata inspiegata su un piano mistico, essendo l’immagine speculare idealista della giustificazione materialista pre/non-dialettica, messa in circolo da unaWeltanschauungen meccanicistica, riduttivista ed eliminativista.
IX
Affinché questo “più recente programma-sistema dell’idealismo tedesco” (per esempio il materialismo trascendentale), nel quale la sostanza è pensata come soggetto e viceversa, possa darsi in maniera soddisfacente, è necessario sia un trascendetalismo del soggetto (da intendersi come le condizioni sufficienti per il corretto costituirsi di soggetti autonomi) sia un meta-trascendetalismo della sostanzialità (da intendersi come le condizioni necessarie di questo soggetto). Riguardo alle necessarie condizioni meta-trascendentali, il materialismo trascendentale, come anche un (quasi-)naturalismo attentamente definito, propone solo una “natura debole” come il grado-zero della sua ontologia. Combinando vocabolario lacaniano, badioudiano e žižekiano, la nozione di naturale non fa riferimento alla Natura con la “N” maiuscola come il Tutto-Uno di un ulteriore grande Altro, e non propone nemmeno una archi-macchina altamente coordinata come le lancette di un orologio (in linea con il demone di Laplace e il materialismo meccanicista) né, tanto meno, un super-organismo cosmico olistico (sulla scia di un organicismo romantico che include i lati più romantici e spinoziani della Naturphilosophie di Schellining). Anziché essere una grandiosa totalità apparentemente auto-sufficiente e chiusa entro se stessa (e quindi “forte”), il Grund als Ur/Un-Grund della natura senza-Altro è “debole” poiché frammentario e inconsistente, definito attraverso negatività irriducibili che impediscono qualsiasi sintesi totalizzante del campo degli innumerabili esseri materiali. In aggiunta alle analisi di Lacan, Badiou e Žižek, alle intuizioni di Hegel sull’“Ohnmacht der Natur”, il “naturalismo della seconda natura” di McDowell e il “mondo screziato” di Cartwright (forma di “pluralismo nomologico” ottenuto attraverso una ontologizzazione delle analisi epistemologiche di Hume sulla causalità) sono gli ingredienti chiave di questa riconcettualizzazione della natura, nella quale la sua forza apparente è neutralizzata (specialmente il suo potere deterministico apparentemente esercitato attraverso una rete di cause efficienti esaustivamente interconnesse come inviolabili e ferree). In questo contesto è facile comprendere ciò che si intende con debolezza della natura prendendo ad esempio l’essere umano. Tali esseri sono la progenie della storia naturale, dei suoi processi evolutivi intesi come accozzaglie di contingenze costituitesi in maniera non teleologica nel corso della stratificazione temporale che presuppone, come unico requisito delle entità viventi, l’essere “sufficientemente capaci per sopravvivere e riprodursi” (difficilmente una ricetta che promette la creazione di funzionalità ottimizzate al massimo; sulla scorta di un detto tedesco: Dumm kann ficken). Certo, questa storia ha dato luogo ad animali umani altamente complessi. Sulla scorta di una proposta di negatività non mistica, la complessità bio-materiale degli esseri umani oltrepassa il punto critico oltre il quale questi organismi non sono più completamente organici, in quanto unità le cui parti sono tra loro armonicamente orchestrate e sincronizzate senza frizioni. Come per il modello “kludge” del sistema nervoso centrale, le discrepanze e le tensioni possono e, infatti, si presentano entro e tra le complessità dei componenti e le sub-componenti delle intricate anatomie e fisiologie umane. (Nel linguaggio di Lacan, il corpo-Reale barrato dei cervello-e-corpi-in-frammenti). Se dall’inorganico emerge l’organico, gli esseri umani sono esempi dell’emersione dell’anorganico dall’organico. L’anorganico non coincide con l’inorganico (ad esempio la fisica e la chimica dei non-viventi) ma, piuttosto, indica le negatività (ovvero le discordanze, le irregolarità, ecc.) generate nelle e dalle faglie intrinseche all’intricata struttura degli organismi. Per usare un linguaggio più generale e meno specialistico, l’umanità è il prodotto dell’auto-denaturalizzazione della natura (come una sostanza auto-separatrice di tipo hegeliano). Le creature umane sono i bambini dell’evoluzione e la genetica è il genitore indifferente e non curante. Questa antica autorità è troppo fievole e divisa per prevenire o reprimere le ribellioni filogenetiche e ontogenetiche, per bloccare o interrompere la corsa avviata dalle rivoluzioni culturali che hanno originato storie di denaturalizzazione come trascendenze-nella-immanenza interne ma irriducibili rispetto alla storia naturale stessa. Senza la debolezza della natura (in)sostanziale, in quanto condizione necessaria meta-trascendentale materiale per soggetti trascendentali più-che-materiali, non potrebbe esserci alcuna eccezione alla eteronomia del naturale. In altre parole, se il naturale fosse più forte, le soggettività umane, per come esse realmente sono, non sarebbero potute darsi in tutta la loro unicità.
La complessità scatenata dalla logica dialettica per cui “more is less” vale tanto per la dimensione culturale che per quella naturale, per il registro Simbolico della dimensione storica, linguistica e sociale e per il registro Reale dell’evoluzione della genetica e dell’organico. Quindi, non solo la natura è sottodeterminata in virtù della sua impotenza (come anorganica, intricata, ecc.), ma allo stesso modo lo è lo sviluppo delle strutture collettive. Secondo il principio more-is-less, sistemi sufficientemente elaborati sia naturali che non-naturali generano inevitabilmente vie di fuga interne, ovvero zone intrasistemiche nulle, non valide, in quanto estimità (per prendere in prestito uno dei neologismi lacaniani più conosciuti) SNAFU (Situation Normal, All Fucked Up, “tutto a posto, niente in ordine”). Una volta raggiunti questi punti eccezionali di estimità, tali sistemi privi di ogni forma di intenzionalità, grazie alla complessa articolazione della loro struttura, sospendono le loro leggi e comandi, creando zone grigie immanenti al sistema stesso nelle quali le cose posso andare in modo differente rispetto a come le regole predefinite del sistema avrebbero solitamente prescritto. Invertendo l’interpellazione althusseriana, per cui un sistema forte inevitabilmente determina i soggetti eterogenei che incontra, la possibilità di una soggettivazione che raggiunga l’autonomia sia dalla natura che dall’educazione scaturisce dall’incontro simultaneo di due vuoti che si sovrappongono: la negatività del Reale barrato più quella del Simbolico barrato.
X
Il materialismo trascendentale non consiste semplicemente in una ontologia della sostanza meta-trascendentale, ma anche in una meta-fisica della soggettività trascendentale. In questa particolare prospettiva filosofica, la teoria dell’essere delinea le condizioni necessarie (ma non sufficienti) per la teoria del soggetto, un soggetto trascendet(ale)-mentre-immanente a questo stesso essere come una identità-in-differenza speculativo-dialettica. Eppure, in contrasto con alcune versioni del materialismo dialettico, il soggetto che emerge con forza dal materialismo trascendentale può e, in effetti, raggiunge, almeno di tanto in tanto, una piena indipendenza dal suo fondamento ontologico-materiale (ad esempio le sue necessarie condizioni meta-trascendentali). Questo soggetto introduce fratture irreparabili nel suo essere resistente ad ogni tipo di Aufhebung sintetizzante. Ma quali sono le condizioni sufficienti per tale soggetto trascendent(ale) all’interno di questo specifico contesto materialista?
Come suggerito un attimo fa, una variante forte dell’emergentismo è una componente chiave della teoria del soggetto propria del materialismo trascendentale. Se si danno emergenze di un tipo peculiare con sufficiente forza – queste riguardano ciò che i teorici dell’emergentismo, gli scienziati cognitivi, i filosofi analitici della mente definiscono come il potere della “causazione verso il basso”, secondo la quale un livello emergente “più alto” produce un effetto di ritorno sui livelli “inferiori” – il risultato di questo processo è quel tipo soggetto proposto dal materialismo antiriduzionista-eliminativista che si configura come una forma aggiornata di “spinozismo della libertà”. Altre due variabili sono legate all’emergentismo proprio del materialismo trascendentale. La prima concerne l’epigenetica e la plasticità del sistema nervoso centrale dell’essere umano come inestricabilmente invischiato con, e soffuso da, estesi matrici esogene di mediazione naturali e non naturali (ciò che certi filosofi analitici chiamano “mente/cervello estesa”). La seconda riguarda i processi attraverso cui questo ingrovigliamento dei corpi-mentali umani con reti esterne sia naturali che non naturali, piuttosto che rimanere materia di (sovra)determinazione eteronoma dalle varie esternalità, determina strutture ricorsive e dinamiche attraverso cui luoghi di auto-connessione riflessiva ideazionale/rappresentazionale (in quanto impalcatura scheletrica della soggettività) definiscono autonomi vis-à-vis con la natura, l’educazione, o qualsiasi combinazione di esse (avendo queste ultime a che fare con le risposte catalizzate da interpellazioni inverse che provengono sia dal Reale che dal Simbolico, in quanto barrati). Una proposta sistematica inerente questi fattori e forze multipli si auspica conduca a pensare la sostanza come soggetto e vice versa.
XI
Una delle virtù più importanti della filosofia di Badiou risiede nel confronto che intesse con coloro che lui stesso definisce i “maestri” francesi del ventesimo secolo: Sartre, Althusser e Lacan – con particolare attenzione all’esistenzialismo sartriano dell’autonomia che si interfaccia con lo strutturalismo althusseriano dell’eteronomia, un confronto significativamente prefigurato dalla psicoanalisi lacaniana. Nei termini del Freiheitschrift (1809) di Schelling, Badiou vuole combinare la “libertà” si Sartre (rappresentata per Schelling da Kant e Fichte) e il “sistema” di Althusser (rappresentato per Schelling da Spinoza). Il vero punto d’inizio del sistema filosofico di Badiou riflette, quindi, la perdurante influenza di Sartre. In riferimento al concetto badioudiano di “punto” (ovvero il luogo o il nodo nel quale, sulla scorta della sartriana “condanna della libertà,” si rende d’obbligo una scelta tra due direzioni divergenti: si o no, destra o sinistra, persistere o desistere, eccetera), si dà veramente e propriamente filosofia, secondo Badiou, quando si propongono risposte – sotto forma di sistemi assiomatici – a domande inevitabili sui punti (quali il parmenideo-platonico “Essere, Uno o Molti?”). I pilastri assiomatici che sorreggono questo sistematico edificio filosofico sono eretti come conseguenze di risposte assolutamente libere ad alcune questioni ultime e inevitabili, che obbligano a decisioni infondate/auto-fondate sulle intuizioni ultime di una filosofia resa possibile proprio da queste ultime. Ma una filosofia instaurata in questo modo non è, per tale ragione, meno sistematica: Badiou fa proprie le lezioni fondamentali dall’esistenzialismo, senza soccombere alle sue tendenze irrazionali, per denunciare la classica costruzione di un sistema. Le dieci tesi precedenti del materialismo trascendentale sono precisamente i punti assiomatici richiesti per questo sistema.
Allo stesso modo, l’arco completo di L’essere e l’evento, il libro del 1988 che funge da fulcro della filosofia matura di Badiou, può essere giustamente descritto come la costruzione di un circolo virtuoso auto-fondante. Lo stile sartriano degli atti autonomi, che sviluppa la prima metà del libro (l’ “essere” e la sua ontologia) sono giustificati retroattivamente, spiegati après-coup, dalla seconda metà del libro (la parte dedicata all’ “evento”, e che implica una teoria del soggetto come immanente eppure irriducibile “all’essere in quanto essere” [l’être en tant qu’être]). In linea con questa lettura diL’essere e l’evento, che definisce la relazione tra le tesi e il sistema del materialismo trascendentale, solo una ontologia della libertà sistematica (non-contemplativa e implacabilmente ostile al riduzionismo e all’epifenomenismo) può davvero auto-fondarsi grazie all’inclusione in se stessa di una spiegazione del fondamento infondato dell’autonomia. L’avvio di qualsiasi filosofia è quindi reso possibile (senza escludere quelle filosofie che negano tale autonomia) a partire dalla libera decisone compiuta dal soggetto-filosofo degli assiomi, delle intuizioni e delle tesi.
In relazione a quanto detto, la visone filosofica articolata da Badiou, poiché chiamata a pensare la “compossibilità” delle verità del suo tempo prodotte nei domini delle sue quattro “condizioni” extra-filosofiche (arte, amore, politica e scienza), riflette anche certe sensibilità esistenzialiste. Una di queste è riconducibile a Pascal (per non menzionare gli echi della prefazione degli Elementi di filosofia del diritto scritta da Hegel nel 1821). Infatti, le risposte che si è liberamente deciso di dare alle domande originarie sui “punti” sono definite dalla relazione del filosofo con queste condizioni, e con i reciproci richiami tra gli eventi artistici, amorosi, politici e scientifici e le loro verità che il filosofo decide di riconoscere come tali. Per essere più precisi, la filosofia à la Badiou è costretta a scommettere su quegli aspetti delle fonti extra-filosofiche che stabiliscono le sue tesi assiomatiche. Inoltre, come per la famosa scommessa di Pascal, non ci sono posizioni sicure, neutre e prive di implicazioni quando si ha a che fare con questi punti di interrogazione, che rendono ogni filosofia, implicitamente o esplicitamente, già-da-sempre incline a porre e rispondere a certe domande fondamentali. Per Pascal, l’agnosticismo, in quanto non scegliere di credere in Dio, è equivalente all’ateismo, in quanto scegliere di non credere in Dio. La scommessa di Pascal, come del resto dell’esistenzialismo sartriano con essa indebitato, implica che il non scegliere sia una scelta, il non agire sia un’azione. Allo stesso modo, secondo la concezione di Badiou sui presupposti fondanti di ogni filosofia, senza eccezione alcuna, il filosofo è costretto a scegliere liberamente, in modo conscio o inconscio, da cosa essere o non essere condizionato, tra tutto ciò che a lui/lei si mostra nei reami più-che-filosofici dell’arte, dell’amore, della politica e della scienza. Verosimilmente, non-decidere di essere condizionato dagli eventi e dalle verità artistici, amorosi, politici e/o scientifici che si offrono significa decidere di non essere condizionati da loro. Oppure, quando si tratta di porre i fondamenti di una filosofia (come di molto altro) omnis determiantio est negatio, per usare un’espressione ibrida tra Spinoza ed Hegel. Delle quattro condizioni di Badiou, la scienza assume un rilievo particolare per le fondazioni del suo sistema filosofico post-1988, poiché fornisce l’ossatura che sostiene sia la sua ontologia che la sua fenomenologa, rispettivamente nella forme della scienza matematica della teoria degli insiemi e di quella della teoria delle categorie. Ben consapevole che si tratta di una scommessa, Badiou decide di puntare su alcuni eventi selezionati tra le matematiche, a partire dall’infinitizzazione dell’infinito proposta da Cantor, e intesi come fratture insanabili nella storia del pensiero che richiedono un riconoscimento filosofico. In contrasto con il razionalismo formalista della metafisica badioudiana, in quanto “materialismo dialettico”, il materialismo trascendentale, divergendo da quel Badiou ispirato da Koyré che limita l’ambito del scientifico al (puramente) matematico, colloca alcuni dei suoi momenti di frattura nelle scienze naturali (piuttosto che formali). Le scommesse del materialismo trascendentale sulla biologia sono tanto essenziali per esso, quanto le scommesse di Badiou sulla teoria insiemistica del trans-finito sono essenziali per l’interconnessione che stabilisce tra ontologia e teoria della soggettività. Sebbene i due approcci differiscano sulla definizione di scientificità, essi condividono la convinzione nella necessità di arrischiarsi in un impegno della filosofia verso le scienze extra-filosofiche (e altre discipline e pratiche).
Nulla garantisce che queste scommesse non saranno messe in discussione nel futuro. Ma, allo stesso modo, nulla garantisce il contrario. Decidere di credere nella impermanenza storica delle proposizioni scientifiche, nella presunta inevitabilità del loro essere prima o poi contestate e sorpassate, è una credenza tanto dogmatica quanto la più naïf e acritica convinzione nella non questionabile validità universale di tutto ciò che appare oggi come la scienza più accurata e corretta. La falsa sicurezza offerta da agnosticismo slegato e privo di alcun rapporto con le scienze, che evita qualsiasi scommessa su queste discipline più-che-filosofiche, si autogiustifica sulla base della credenza nella finitezza di tutti i fatti asseriti e di tutte le verità scientifiche. Ma soprattutto per le filosofie verosimilmente materialiste, un tale agnosticismo non solo corre il rischio concreto di una presente e futura incoerenza e mancanza di pertinenza, se misurato sulla necessità di una filosofia che sia al passo con i tempi (come lo era sia per Hegel che per Badiou), ma finisce anche per arenarsi nell’arido e sterile vicolo cieco di uno scetticismo idealista soggettivista. Il prezzo da pagare per un fintamente cauto e rassicurante attentisme, indeciso e fatalista, dunque, è quello di abbandonare un aspetto vitale della vocazione filosofica, nonché la rinuncia a ogni legittima attestazione di essere materialisti. In breve, il materialismo filosofico non può permettersi di non correre i suoi rischi.
Adrian Johnston è autore di numerosi libri tra cui Time Driven: Metapsychology and the Splitting of the Drive (2005), Žižek’s Ontology: A Transcendental Materialist Theory of Subjectivity (2008), Badiou, Žižek, and Political Transformations: The Cadence of Change (2009), e Prolegomena to Any Future Materialism, Volume One: The Outcome of contemporary French Philosophy (2013). È inoltre co-autore con Catherine Malabou di Self and Emotional Life: Philosophy, Psychoanalysis, and Neuroscience (2013). Il suo lavoro più recente si intitola Adventures in Transcendental Materialism: Dialogues with Contemporary Thinkers (2014).
(25 giugno 2015)
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