venerdì 21 novembre 2014

Gerusalemme:basta con le chiacchere

Gerusalemme, dove muore la diplomazia delle chiacchiere

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GERUSALEMME
C'è un rituale insopportabile che accompagna i fatti di sangue che, ciclicamente, marchiano la Terrasanta. Il rituale delle condanne, degli appelli, del "occorre riprendere il dialogo", che vede protagonisti i Grandi, o presunti tali, della Terra. Reazioni automatiche, dichiarazioni in facsimile, sempre eguali a se stesse.
È la diplomazia dell'impotenza che, non da oggi, si manifesta sul conflitto israelo-palestinese. Cambiano gli inquilini della Casa Bianca, si succedono primi ministri nelle varie cancellerie europee, si sommano le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, si moltiplicano le (inutili) missioni di segretari di Stato Usa, di Lady Pesc europee, ma nulla cambia sotto il cielo di Gerusalemme. O di Gaza. E se cambia, peggiora. Se cresce qualcosa, è la rabbia, non certo la speranza.
È la diplomazia delle chiacchiere e delle lacrime di coccodrillo. È l'impotenza, o la complicità, che prova a nascondersi dietro formule usurate, prospettive ormai impraticabili, come quella di una pace fra Israeliani e Palestinesi fondata sulla soluzione a "due Stati". Una formula ripetuta per anni, mentre sul campo crescevano gli insediamenti israeliani nei Territori palestinesi occupati, mentre a Gaza l'alternativa ad Hamas assume sempre più gli inquietanti connotati dei miliziani salafiti che hanno a modello Abu Bakr al-Baghdadi e il suo esercito di tagliatori di teste.
Niente è stato fatto per costringere le leadership dei due campi, israeliano e palestinese, a negoziare seriamente compromessi che avrebbero comportato sacrifici e rinunce reciproche. Conferenze sono succedute a Conferenze, senza raggiungere alcun risultato tangibile. Nessuna pressione concreta, nessun credibile aut aut, nessuna sanzione, neanche ventilata, a fronte di documentate violazioni dei diritti umani o della stessa Convenzione di Ginevra, nessun vincolo politico agli aiuti economici e/o militari elargiti ai propri alleati.
A ogni riesplodere della violenza tornano alla ribalta i nostalgici della diplomazia dei "piccoli passi": la diplomazia del fallimento. Quella che aveva ispirato gli accordi di Oslo-Washington, celebrati come "storici" dalle cronache di quei giorni, immortalati dalla "storica" stretta di mano, sui prati della Casa Bianca, fra Yitzhak Rabin e Yasser Arafat, con un benedicente Bill Clinton, allora presidente degli Stati Uniti. Alla base di quella strategia diplomatica c'era la logica del rinvio: per non sancire il fallimento, rinviamo a data da destinarsi la discussione dei nodi strategici del conflitto: dai confini dei due Status al futuro di Gerusalemme. Il risultato è che quei nodi si sono ulteriormente aggrovigliati e la politica dei rinvii ha generato nuove crisi, irrigidimenti, rotture.
Le suggestioni hanno sostituito i fatti. Come il "Nuovo Inizio" in Medio Oriente decantato (2009) in un suo "storico" discorso da Barack Obama. Cinque anni dopo, di quel "Nuovo Inizio" non c'è traccia in una Regione in fiamme. Quanto all'informazione, anch'essa è stata "militarizzata", riducendosi in tanti, troppi casi, ad uno schierarsi preventivo: come se fossimo in uno stadio, a tifare e non a provare a scavare in una realtà che non è si presta a semplificazioni stereotipate, a verità preconfezionate, in cui il Torto è solo in una parte (scegliere quale) e la Ragione dall'altra.
A Gerusalemme, come a Gaza, a essere seppellita, assieme alle vittime di una guerra trasformatasi in faida, è la credibilità, oltre che la legittimità internazionale. Nel vuoto lasciato da una diplomazia imbelle, come sempre, s'inserisce l'azione di chi punta allo sfascio, alla sistematica distruzione di ogni chance negoziale.
Ma ciò che si sta consumando nelle vie insanguinate di Gerusalemme non è un ritorno al passato. Una novità c'è. Ma non cercatela in un progetto, in uno straccio di strategia, per quanto estremista. Non pensate ad una proiezione del "Califfo Ibrahim", in Terrasanta. Pensate invece alla rabbia, alla disperazione, a chi scambia la vendetta per giustizia. Non guardate al passato, alla prima Intifada, la rivolta delle pietre (1987), né alla seconda, tragica Intifada (2000), quella dei kamikaze. Niente di tutto questo c'è nella "terza Intifada", che ha fatto di Gerusalemme la sua "capitale".
Quella che si è scatenata, e non da oggi, è l'intifada dei "lupi solitari", sconosciuti ai pur efficienti servizi di sicurezza israeliani. Gli autori della strage alla sinagoga, come i palestinesi della "Car intifada" sono animati dall'odio, dalla frustrazione. E sono armati di asce, mannaie, coltelli da cucina, pistole. Ora Hamas li rivendica a sé, cerca di cavalcare qualcosa che l'ha spiazzata, ma la realtà è un'altra. Più sfuggente, più insidiosa. Più disperata. La realtà di chi non ha futuro. Di chi ha identificato Israele con l'assedio di Gaza, i ceck point che spezzano in mille frammenti territoriali la Cisgiordania, con la "pulizia etnica" programmata e messa in atto nei quartieri arabi di Gerusalemme Est, con l'arroganza del più forte. Ma non più invincibile.
Più che a una "guerra", la terza Intifada assomiglia a una faida. Sangue chiama sangue, in una spirale di violenza senza fine. Una violenza fine a se stessa. Le reazioni dei leader, o presunti tali, esse sì assomigliano a un film già visto. La volontà di rivalsa di Netanyahu, la condanna di Abu Mazen, l'esultanza postuma dei capi di Hamas e della Jihad islamica. Ma ai "lupi solitari" palestinesi tutto ciò non interessa.
Bastano le umiliazioni quotidiane, un futuro che non esiste. Basta un'ascia, un coltellaccio, una mannaia per ergersi a giudici ed emettere la sentenza: condanna a morte. Non importa a chi inflitta, un rabbino, un soldato, i ragazzi alla fermata del bus. Non importa: chiunque è un obiettivo potenziale. La disperazione non guarda la carta d'identità e non distingue tra chi porta una divisa militare e un civile. Colpire, e poi colpire. E poi morire.
La cifra comune è il dolore. E l'impotenza mascherata dalla forza. Non cercate un filo logico in questa nuova mattanza. Il filo è rosso. Rosso sangue. I "lupi solitari" palestinesi, come i falchi del fronte opposto, non hanno nel loro vocabolario la parola "compromesso". A dominare è la legge della giungla. Diritti nazionali e sicurezza sono concetti astratti, spesso utilizzati strumentalmente da chi non ha altra mira che rilegittimarsi a vicenda nel fermare il tempo e perpetuare uno status quo che non concede speranza ma perpetua rendite di potere. A Gaza come a Tel Aviv. Il resto è cronaca. Più che di guerra, cronaca nera. Spazzeremo via i terroristi di Hamas, tornano a proclamare i governati israeliani, sapendo - Gaza docet - che ciò è impossibile. Esaltano i "nuovi shahid", i capi di Hamas, inneggiano all'"eroica resistenza all'entità sionista", sapendo bene che non esisterà mai una scorciatoia militarista all'affermazione del diritto all'autodeterminazione nazionale. Si seppelliscono i morti, e con essi i residui spiragli di dialogo. Così è nella martoriata Terrasanta.
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Le prime immagini dopo l'attentato alla sinagoga a Gerusalemme
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ansa

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