Clima, siamo a un punto di svolta?by Citta invisibile |
di Alberto Castagnola
Domenica 2 novembre, a Copenhagen, è stato presentato ufficialmente all’Assemblea dell’Onu il V° rapporto dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) e i dati già resi noti nel corso di quest’anno hanno ricevuto una approvazione formale. Nessuno può ormai discutere la sua importanza o cercare di sminuire la sua scientificità: il rapporto presenta i risultati raccolti da 30.000 ricerche, che sono state poi analizzate da 800 scienziati, commentate da un altro migliaio e riviste da altri 2.000 studiosi. Alcuni aspetti sono ormai da considerarsi acquisiti: la temperatura è aumentata globalmente di 0,85 gradi nella bassa atmosfera terrestre dalla fine del XIX ° secolo e il livello degli oceani è salito di 19 centimetri. Il rapporto inoltre sottolinea che le analisi sono ormai così approfondite e concordi tra loro che “Non ci sono più scuse, l’ignoranza non può più essere un pretesto”. Non casualmente, un giornalista negazionista, che scrive sul Corriere della Sera, per criticare si può solamente appoggiare al fatto che un singolo scienziato si è rifiutato di firmare i risultati descritti dal rapporto.
Le indicazioni del rapporto Ipcc
Quali sono le principali indicazioni relative alle scelte politiche da adottare e alle misure da approvare al più presto, contenute nel Rapporto ma che gli Stati dovrebbero ormai considerare delle indicazioni incontrovertibili e vincolanti?
Le emissioni di Co2 dovranno superare il loro picco, cioè il loro livello massimo, nel 2020.
Le emissioni mondiali a effetto serra dovranno diminuire tra il 40 e il 70 per cento entro il 2050 rispetto al 2010.
E dovranno essere totalmente scomparse (se non addirittura raggiungere livelli inferiori allo zero) entro il 2100.
Nel 2050 bisognerà arrivare ad avere almeno l’80 per cento di energie rinnovabili.
Ed entro il 2100 l’energia da fonti fossili dovrà essere eliminata.
Gli investimenti in energie alternative e nell’aumento dell’efficienza dovranno ammontare a svariate centinaia di miliardi di dollari prima del 2020 (cioè nei prossimi sei anni).
Il rapporto, come è noto, afferma pure che abbiamo solo quindici anni per invertire radicalmente le tendenze del sistema economico internazionale e che le relative misure dovranno essere approvate il più presto possibile e non verso la fine del periodo; questi tempi così imprescindibili e impegnativi sono ancora molto lontani dalle percezioni del mondo politico italiano.
I negoziati internazionali dovranno pervenire a un accordo firmato a Parigi da 195 paesi entro il mese di dicembre 2015, mentre a dicembre prossimo ci sarà a Lima, Perù, un primo incontro preparatorio.
Tuttavia non possiamo dimenticare che sono venticinque anni che l’Ipcc lancia allarmi sempre più documentati e verificati ma senza esiti apprezzabili sul piano delle scelte politiche in materia ambientale e delle misure dirette a modificare l’accelerato mutamento climatico. In particolare, per quanto riguarda l’Europa, i 28 paesi dell’Unione hanno raggiunto un accordo alla fine di ottobre che però è solo un compromesso ai minimi livelli, per cercare di compensare tra loro situazioni ancora molto distanti; ad esempio, la Germania ha un buon livello di energie alternative ma fa ancora funzionare molte centrali a carbone, la Francia sembra avere una situazione ottimale ma che dipende dall’esistenza di 56 centrali nucleari, l’Inghilterra si è finora rifiutata di affrontare questi problemi, e solo i paesi nordici mostrano di aver fatto delle scelte reali a favore delle energie solari ed eoliche.
E l'Italia?
L’Italia sta addirittura approvando le trivellazioni nel mare Adriatico e aumentando quelle da tempo in corso di moltiplicazione in tutta la Basilicata (aggiornamenti suOlambientalista.it), cioè in sostanza non ha ancora deciso di partecipare attivamente alle linee di intervento di fatto approvate dall’Assemblea dell’Onu e che saranno trasformate in accordi vincolanti entro la fine del prossimo anno. Anche i risultati apparentemente positivi registrati nel solare sono dovuti principalmente ai grandi impianti di pannelli che occupano però terreni che andrebbero riservati alle produzioni agricole. Solo per il risparmio energetico sono state approvate delle norme qualche mese fa, ma è ovvio che ancora non hanno minimamente inciso sui livelli di consumo e di emissioni dannose.
Usa e Cina
Ma l’evento più importante e forse cruciale si è verificato soli pochi giorni fa e senza essere stato preceduto da segnali percepibili dall’opinione pubblica. Il 12 novembre, Barack Obama e Xi Jimping hanno raggiunto un accordo di larga massima sugli impegni dei loro paesi per il cambiamento climatico. Lo scarno comunicato diffuso al termine dell’incontro evidenzia solo due obiettivi indicati dai due presidenti: gli Stati Uniti intendono tagliare le loro emissioni dannose del 26-28 per cento rispetto ai livelli del 2005 entro il 2025, la Cina ha deciso di ricavare il 20 per cento della sua energia da fonti rinnovabili entro il 2030. Non si può sottovalutare il fatto che per la prima volta i due paesi maggiori inquinatori, che insieme rappresentano quasi la metà di tutte le emissioni nocive per il clima, abbiano messo sul tavolo dei dati significativi; la data prescelta, in pratica subito prima dell’inizio ufficiale del percorso deciso dall’Onu per arrivare ad un trattato internazionale vincolante, significa anche che questi paesi, così responsabili dei più drammatici danni ambientali, hanno finalmente di darsi degli obiettivi di azione, che non si possono non accogliere con il massimo interesse.
Un accordo poco significativo
Le cifre fornite, peraltro, non sembrano abbastanza significative e adeguate alla drammatica situazione del pianeta. Gli Stati Uniti, ad esempio, hanno preso come anno di riferimento per le loro riduzioni il 2005, invece del 2010: se in quell’anno le loro emissioni erano relativamente basse, potrebbero in realtà aver indicato degli obiettivi relativamente più facili da raggiungere. La Cina, dal canto suo, non ha parlato di riduzione delle emissioni – che per loro comporterebbero subito l’avvio dello smantellamento degli impianti a carbone, obiettivo quindi più difficile da raggiungere – e sembra abbia indicato di poter raggiungere il picco delle emissioni nel 2030, mentre l’Ipcc indica come limite il 2020; inoltre l’indicazione del livello di energia rinnovabile per il 2025 (20 per cento) è molto basso rispetto alle scadenze indicate dall’Ipcc.
È quindi possibile attribuire all’intesa di Pechino solo il valore di indicazioni di massima, la cui importanza deriva dal fatto che negli ultimi diciassette anni le due potenze hanno sempre impedito con veti reciproci di adottare misure a scala internazionale, mentre oggi potrebbe essere iniziato un primo vero confronto su scelte essenziali per la salvezza del pianeta. Ciò che governi e popolazioni decideranno realmente di fare durante il 2015 permetterà di chiarire quale destino attende un ambiente vitale per la sopravvivenza della specie umana.
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