mercoledì 19 novembre 2014

lottare per la vita delle comunità indigene

Il nostro compito è lottare per la vita

by maomao comune
Trentadue nazioni indigene vivono ancora oggi in Argentina ma continuano a subire una vera e propria persecuzione: vengono private, tra le altre cose, dell'accesso all'acqua e a molti altri diritti fondamentali. I governi si credono padroni dei nostri territori e delle nostre vite, racconta Félix Díaz,querashe (portavoce) del popolo indigeno Qom. La radice è proprio nel territorio. Prima del 2000 non percepivo il razzismo e la discriminazione, volevo essere parte di una società. La nostra storia non è scritta nei libri ma nella memoria degli anziani. Siamo di fronte a un'inganno enorme: la nostra vita non può aver relazione con un'economia che stabilisce un prezzo per la vita e per la terra. Quando pensiamo di essere padroni del territorio, ci poniamo al di fuori dal diritto ancestrale che ha consentito ai padri e ai nonni di convivere senza problemi coi pesci, gli uccelli, i serpenti. Lottiamo per l'autonomia, ma come si fa a lottare se non hai da mangiare, se non hai acqua?
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a cura di Aldo Zanchetta
L'ampia conversazione con Félix Díaz, querashe (figura simile a un portavoce) del popolo indigeno Qom del nord dell'Argentina, da cui è tratto questo testo, è stata realizzata via skype nello scorso agosto. L'hanno realizzata una ventina di persone che fanno parte della rete Pueblos en Camino , un'esperienza di straordinario interesse per leggere e comprendere le vicende dell'América Latina. Pueblos en Camino si presenta come "una proposta, una scommessa e una sfida davanti allo specchio e di fronte alle transizioni (verso il male o verso il bene) dei nostri tempi. Il punto di partenza, per Pueblos en camino, è l'impegno a tessere resistenze e autonomie tra i popoli e i processi".
Emanuel Rozental e Vilma Almendra. Don Félix (il "don" è in molti luoghi latinoamericani un segno di rispetto, in particolare per le persone anziane, ndt), benvenuto in questo spazio di discussione. Abbiamo seguito da lontano la vostra lotta ma sentiamo, da compagni e compagne, di poter condividere una piena fiducia reciproca. Proveniamo da processi distinti, e alcuni di noi hanno condiviso situazioni simili a quelle che lei vive oggi. Abbiamo il cuore aperto all’ascolto.
Félix Díaz. È una gioia essere con ciascuno di voi e sono molto felice di parlare con amici e compagni che sono su questo cammino e sono riusciti a riunirci per cercare soluzioni ai problemi. In Argentina siamo 32 nazioni indigene ad abitare il paese. Viviamo un momento molto critico a causa delle persecuzioni che subiamo. Stiamo chiedendo di essere rispettati. Soffriamo per varie carenze: acqua, salute, ma in realtà tutti i servizi e i diritti fondamentali sono carenti. Patiamo specialmente la mancanza di garanzie giuridiche per i nostri territori. I governi se ne credono padroni, così come pensano di poter essere padroni delle nostre vite. Ah, se potessimo lottare e lavorare tutti uniti!
Il processo che stiamo portando avanti è molto duro e disuguale. Ora però ci siamo riorganizzati. Nel mio caso, questa lotta ha significato e ha richiesto la capacità di riscoprire me stesso. Bisognava che capissi chi sono, da dove vengo, chi sono i miei antenati e dove voglio dirigermi. La nostra storia non è scritta nei libri bensì nella memoria degli anziani. Quando ho cominciato a lavorare con loro, ho scoperto cose che non conoscevo. Molti anni fa qui giunsero gli evangelizzatori, uno dei primi fu un britannico. Riuscì a toglierci le piume e le frecce affinché vivessimo come cristiani e non come selvaggi. Quel processo ha ridotto al silenzio la nostra voce. Siamo stati vittime di questo sistema.
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Nel 2000 ho iniziato a lavorare sul tema dell’identità. E' stato il mio incontro con il razzismo e la discriminazione. Prima non li avvertivo, perché volevo essere parte di una società. Poi ho scoperto di non trovarmi a mio agio in quello spazio. Mi sono messo a lavorare cercando una traccia, un'orma lasciata nella memoria degli anziani (majores nel testo originale, può significare sia anziani che antenati, ndt). Quell'orma non si trova nei palazzi, nei templi, nelle città. È nei territori. Così ho incominciato a rendermi conto della nostra medicina, del modo di cibarci, della spiritualità. È nel territorio che si ritrova la nostra esistenza, la nostra radice.
Ho iniziato a studiare i diritti costituzionali. Ho conosciuto questa menzogna quando sono andato nelle strade a fare manifestazioni per esigere che non si continuasse a restringere il nostro territorio, chiedevo che invece lo si ampliasse per poter continuare a difendere la nostra cultura. Per applicare quello che chiamano “diritto interculturale bilingue” e che era stato creato affinché potessimo organizzare il nostro modo di vivere, di pensare, di lavorare.
Per ottenere queste garanzie non c’è sostegno alcuno. Siamo di fronte a un inganno enorme. Allora ho cominciato a lavorare su questo. Ho studiato libri, anche se non ho una formazione accademica, anzi ho solo un terzo anno delle elementari. Ho studiato gli antenati e i nostri valori e ho scoperto che quel che siamo è una cosa diversa dalla politica economica e commerciale, che la nostra vita non ha relazione con un'economia che stabilisce che la vita costa tanto, la terra costa tanto, etc.
Le cose esistono affinché noi uomini possiamo coesistere con la diversità degli esseri che abitano insieme i territori. Quando ci riteniamo padroni del territorio, siamo fuori dal diritto ancestrale che ha consentito ai nostri padri e ai nostri nonni di convivere senza problemi coi pesci, gli uccelli, i serpenti.
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Poi sono arrivati gli ‘intellettuali’ e hanno distrutto tutto ciò che consente l’armonia con la madre terra. Hanno portato la mentalità della commercializzazione della vita e della madre terra. A tutto hanno dato un prezzo. Oggi vogliamo dire basta. Ma come fai quando non hai di che mangiare, non hai acqua? Quando ti umiliano negli ospedali e nei luoghi pubblici?
Per questo vogliamo vivere degnamente e recuperare i nostri valori. Vogliamo rinascere come cacciatori, pescatori, sciamani. In sintesi, lottiamo per la nostra autonomia. Però, come possiamo farlo senza i territori? Gli Stati vogliono toglierci i territori, perché hanno paura che, recuperandoli, cessiamo di essere mendici. Quello che vogliamo è essere autonomi, vogliamo che la nostra autonomia e la nostra storia vengano rispettate. La nostra storia è scritta nella memoria, nel nostro territorio, perché lì è il sangue, lì sono i nostri spiriti che hanno diritto, proprio come noi, a vivere.
Abbiamo il diritto di vivere. Non per una conquista economica o per un posto ufficiale, ma ogliamo prolungare la vita. Essere su questo cammino così complicato è come camminare su un campo minato. Non sappiamo se riusciremo. L’obbiettivo è la libertà.Abbiamo indicato il cammino, affinché chi viene dopo di noi trovi le nostre orme.
La funzione del comando deve essere a servizio del popolo, non di un leader o di un padrone. Tra gli indigeni è accaduto proprio questo, il fenomeno dei leader padroni. Per questo abbiamo impostato la nostra organizzazione in modo da avere cinque rappresentanti di ciascun popolo, sia uomini e donne, sia anziani che giovani. Io sono il Querashe. La figura di portavoceL’autorità somma è l’assemblea generale che definisce gli obbiettivi della politica. I Consigli decidono invece la politica interna. Io non posso prendere decisioni. Devo fare riferimento al Consiglio, sono il Consiglio e l’Assemblea che decidono. Il governo nazionale e quelli provinciali hanno un forte rifiuto di questo modo di organizzarci.
Abbiamo sentito che l’ONU ha promosso un riconoscimento dei diritti universali (probabilmente, il riferimento è ai ‘diritti comunitari’ dei popoli indigeni, ndt). Non vogliamo restare spettatori, vogliamo essere parte attiva e vogliamo che i diritti dei popoli indigeni vengano rispettati. E questo non può essere solo un discorso, deve essere una pratica. La realizzazione è complessa. La sfida è lanciata, e la proposta è pronta. Dobbiamo lavorare su diversi fronti.
L’impegno è quello del dialogo, perché gli anziani hanno insegnato che dobbiamo lavorare con rispetto e armonia reciproca. Se colpiscono qualcuno, dobbiamo resistere al colpo. Se rispondiamo con le stesse armi finiamo in una guerra e così non rispettiamo la vita. Dobbiamo assumere la multiculturalità dell’essere umano. Siamo diversi. Non siamo gli unici. Non siamo padroni della terra, siamo parte di essa e la terra fa parte della nostra umanità […]
Faccio sempre il paragone con la donna che porta la vita nel mondo. È la maestra, l’infermiera. Non viene mai pagata, lo fa per amore. Così è per la Madre Terra. Dobbiamo valorizzare il sentire di questa donna. Se la disprezziamo, disprezziamo la vita stessa e il suo valore. Dobbiamo ristabilire i ritmi del nostro cammino con quelli della Madre Terra secondo la memoria impressa nella sapienza degli anziani. Ad esempio, dobbiamo lavorare durante il giorno e non la notte […] vanno rispettati i tempi e i ritmi per favorire la vita. Dobbiamo avere un equilibrio. Non può esserci una superiorità scientifica o tecnologica che vuole sostituire l’essere umano.
Ci hanno resi poveri e ci hanno uccisi per un interesse economico di accumulazione, un interesse egoista. Non vogliamo che continui così. Che vengano pure analizzati e corretti i nostri errori, ma dobbiamo esigere che la differenza delle idee venga tollerata. I governi pensano solo alle elezioni e al potere. Dietro a questo c’è sempre l’accumulazione della ricchezza, l’aspetto economico. Non è una politica saggia, è una politica egoista.
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Domanda. Sappiamo della lotta del suo popolo e di quella di altri popoli. A Formosa, nel Chaco, la lotta dei Qom, dei Wichi. […] Don Félix, può darci notizie concrete su questo processo di lotta e sulle sue fasi? […]
Félix DíazEra il 2002, quando gli anziani dissero: la Terra non ha un valore economico perché è la vita. Anche la vita è sacra. Ci rendemmo conto dell’importanza di difendere questo pezzetto di territorio che lo Stato ha riconosciuto come riserva indigena. Cominciammo a impegnarci. Ci scontrammo con l’interesse economico del governo provinciale. Il governatore vuole che il territorio si trasformi in un elemento di sfruttamento turistico ed economico.
Così decidemmo di fare una marcia per esigere i nostri diritti e per mostrare la nostra determinazione. Ci isolarono, rimanemmo senz’acqua né alimenti né assistenza alla salute lungo la strada, finché il governo si stancò e 400 poliziotti ci affrontarono senza alcun ordine del giudice. Volevano scacciarci dalla strada, a loro avviso eravamo ‘spazzatura’, ‘ubriaconi’, ‘drogati’, ‘miserabili’. Non reagimmo. Chiedemmo di sapere da dove veniva l’ordine di sgombero. Il commissario, Generale Muñiz, dette ordine di cacciare gli indios di merda dalla strada, senza alcun decreto giudiziario. I poliziotti gridavano: "Uccidete Félix, senza arrestarlo!". La voce si sparse fra i fratelli, mi protessero e io fuggii sulla montagna dove, grazie all’aiuto degli anziani, rimasi nascosto una notte.
Il fratello Roberto López mi esortò a fuggire: Per favore vai via da qua. Se ora ti uccidono ci scoraggiamo e perdiamo l’obbiettivo. Devi salvarti per continuare la lotta. Lascia noi a difendere il nostro lavoro. Ferirono con pallottole 32 fratelli. Attaccarono le donne coi cavalli, fratturando loro gambe e braccia. Arrestarono 34 anziani, colpendoli. Erano abituati a essere colpiti, la loro vita era stata sempre così. I giovani riuscirono a fuggire. Gli anziani e le anziane subirono l’attacco brutale. Il mio compagno Roberto López venne assassinato.
Perdemmo sangue. Perdemmo delle vite. Ci bruciarono 17 case, fra queste la mia.Perdemmo tutto il poco che avevamo, anche i documenti di identità. Tutto incendiato, senza ordine giudiziario. Ad oggi nessuno di quei criminali è stato punito. Ma i 34 indigeni, vittime della repressione e dell’abuso, sono sotto processo. Io sono stato segnalato come terrorista potenziale, accusato della morte di un poliziotto. Ma nulla si fa per punire la morte del fratello Roberto López. Mi accusano di guidare la ribellione di questo popolo che non vuole essere espulso e maltrattato nella sua stessa terra. Il governo di Formosa mi ha privato dei documenti di proprietà e io devo pagare come se avessi invaso un territorio altrui.
Siamo coscienti però che questo è territorio Qom e nessuno ce lo potrà togliere. Ci hanno già tolto la Laguna Blanca. Ci hanno tolto anche la montagna. Non vogliamo che continuino a privarci delle risorse; in nome dello sviluppo vogliono giustificare il furto ai popoli indigeni, e questo non lo consentiremo.
Manuel: Grazie Don Félix, ascoltandola ho pianto di dolore e di rabbia. Quello che ho ascoltato è accaduto anche a molti di noi. Apriamo lo spazio della conversazione.
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Seguono varie domande e risposte che per necessità di spazio omettiamo anche se con dispiacere. Ci limitiamo ad alcuni spezzoni delle risposte di Don Félix.
Félix Díaz – Nel territorio Wichi c’è petrolio ma le comunità non hanno né acqua né case. Portano via la nostra ricchezza e noi continuiamo a mendicare. Non credono che siamo soggetti di diritto. Credono che siamo oggetti di proprietà dello stato. […]
In risposta alla domanda se in Argentina c’è stata cooptazione di leader e divisione nelle comunità, Don Fèlix risponde: È accaduto per la maggioranze dei nostri popoli, perché lacooptazione fa parte di una strategia. Prima i leader venivano eletti dalle nostre comunità. Molti di loro sono morti nelle lotte contro lo Stato. Oggi non è più così. Il leader oggi deve corrispondere a altre norme: deve essere avvocato, deputato, intendente, consigliere comunale e essere attento a quello che la politica dei partiti dice e non a ciò che dice il suo popolo. Questo è il problema.
Ma non ci sono due spazi. Dobbiamo scegliere e essere chiari: difensori del governo o difensori delle comunità. Siamo difensori dei nostri popoli. Siamo poveri, ma non ci vediamo come poveri. Siamo ricchi, perché comprendiamo e conosciamo quello che è il valore umano. La maggioranza dei leader deve confrontarsi con se stesso. Sapere cosa accadrà alle future generazioni. Se potranno vivere pacificamente o saranno espulse. Se stanno operando affinché le prossime generazioni vengano rispettate. Questo non significa che non ci adattiamo a ciò che è necessario o che ci chiudiamo nel passato. Io credo, ad esempio, che la maggioranza dei nostri fratelli che possono incorporare nella lotta la tecnologia, devono farlo. Io vivo sulla montagna. Non possiedo energia (elettrica), né acqua potabile, né internet. Non mi lamento. Uso ciò che ho e che mi è sufficiente e mi orienta nell’andare avanti. Invito ad analizzare, ciascuno di voi, la propria situazione.Ciascuno di noi confidi in se stesso e negli altri per fare grandi cose a favore della vita. Dobbiamo essere trasparenti e decisi a cambiare questa vita e credo che questo è ciò che oggi sta avvenendo. Di fronte alla schiavitù degli orari e del lavoro dobbiamo saperci equilibrare e prendere il tempo a favore della nostra vita e dei nostri popoli per restare in cammino. Cercare il modo di non sottometterci alla schiavitù, che ci nega la possibilità di riflettere e riconoscere il senso del vivere.

Domanda: Come fate in Argentina per collegarvi fra popoli e fra i processi delle lotte che state conducendo?
Félix Díaz – Comunichiamo usando la lingua materna. La Costituzione riconosce il nostro diritto e la nostra identità. Cominciamo da lì. Abbiamo iniziato un lavoro intenso per formare i fratelli. Vivo nel mio territorio. Lo percorro e visito la gente lavorando e condividendo. Così condividiamo, parlando del poco che abbiamo e del molto che ci manca. Produce risultati. Le persone si rendono conto del fatto che il potere sta in noi, non nei politici che abbiamo eletto. In questo lavoro sperimentiamo cosa significa la decisione politica. [...] In questi giorni ci stiamo collegando per discutere sulle nostre richieste al governo. Credo che questa ricerca di alleanze fra i popoli sia più efficace di quella coi politici. È il momento di togliersi le bende dagli occhi e il morso dalla bocca e agire in accordo fra noi. Siamo capaci di fare cose che non abbiamo mai fatto. Io non sono solo e voi potete contare su di me.
 DomandaCome si organizzano i popoli indigeni in Argentina?
Félix Díaz – L’Organizzazione Plurinazionale dei Popoli Indigeni ha organizzato un Vertice dove mi hanno eletto portavoce di 20 nazioni indigene dell’Argentina. È un compito molto impegnativo. Sto lavorando per tutti i popoli, oltre ai problemi che ci sono nella mia comunità. Stiamo cercando di ottenere che il governo nazionale ci riconosca una reale autonomia.
Questa è la richiesta che viene dai vari popoli ed è molto difficile, ma ci sentiamo molto motivati per arrivarvi. Chiediamo che sia rispettato ciò che la Costituzione ci riconosce, il diritto alla nostra identità culturale. Abbiamo il diritto ad essere autonomi, diritto al territorio e alle sue risorse, a essere amministrati dai popoli che vi abitano. I territori sono in mano a Associazioni Civili condizionate dallo Stato e dalla politica elettorale. La Legge 23302, dice che in caso di sterminio (!!!! Ndt !!!!) o di estinzione di un popolo, i suoi beni passano allo Stato !!! Credevamo che la Associazione Civile fosse un meccanismo che ci proteggeva ma con questo tipo di legislazione non è così. Cercano di sterminarci o di farci estinguere per espropriarci. Non c’è legge che garantisca il diritto territoriale collettivo. Non c’è legge che riconosca qualcosa al di fuori del diritto di proprietà individuale.
Dobbiamo ottenere un accordo attraverso il dialogo. Non ci misureremo con le armi. La nostra gente muore di fame e di sete. Dobbiamo riuscire col dialogo. Che le realtà partitiche ci ascoltino. Siamo prossimi a una sollevazione nazionale.
Domanda : Qual è la relazione con altri processi di mobilitazione e lotta? Ve ne sono molti a livello nazionale o locale: contro le attività minerarie, l’agrobusiness, gli OGM (Monsanto) etc? Perché non avete un’articolazione con queste?
Félix Díaz – Stiamo appoggiando le varie lotte sociali, contadine e urbane. Ma quando ci mobilitiamo noi, gli altri non sono presenti. Questo è il problema. Vogliamo concertarci. Prima o poi accadrà. Noi siamo ricettivi. Magari lo fossero anche le organizzazioni di difesa ambientale!
Seguono vari commenti e scambi di osservazioni. In particolare una delle domande è stata su come in questa situazione di fame, povertà e avvilimento si sia potuta riaccendere la resistenza e il desiderio di riscossa.
Félix Díaz – In verità, per uscire da questo problema la sfida è come ritornare a essere noi stessi. I cacciatori sono tornati a cacciare, i pescatori a pescare, le donne a raccogliere. Il governo diceva, lasciate fare gli indios, che vanno a estinguersi da soli. Decidemmo una strategia di lotta. Nessuno lo sa. La strategia è la lingua materna. Il Qom. Nessuno capiva quello che dicevamo. Nessuno comprendeva cosa significasse essere indigeni.Recuperare la propria identità e usare quello che ciascuno sa. Non copiare un’ideologia, una dottrina. Usare il modo indigeno per lottare come popolo indigenoI fratelli portavano acqua dalla montagna, da dove crescono i cardi. Vi aggiungevano acque piovane limpide e cristalline. Il cibo veniva preso sulla montagna, nei campi, nelle lagune. Uno sguardo dentro al mondo indigeno. Ci siamo liberati dal chiedere. Potemmo resistere un anno. Sulla strada e nella Avenida 9 de julio in Buenos Aires (non è chiaro a quali fatti si riferisca, forse alla grande marcia indigena a Buenos Aires di un anno fa ndt). Usare la strategia indigenza perché viviamo e apparteniamo a questo mondo.
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Saluto e commento finale di Manuel.
Félix Díaz – Grazie per questo scambio. Ringrazio per ciò che state facendo e auguro che possiate continuare a cercare un cammino alternativo per la vita. Abbiamo il compito di prolungare la vita. Questo è ciò che ci accomuna. È possibile poiché ciascuno fa ciò che può nel proprio territorio. Stiamo ritrovando noi stessi. Dobbiamo continuare a farlo. Siamo stati manipolati. Stiamo costruendo una storia per ridare valore alla vita. La Madre Terra vuole che i suoi figli vivano bene. Dobbiamo ascoltare questo desiderio della nostra madre. Che abbiate molta forza e che continuiate ciascuno a apportare il proprio granello di sabbia.

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