Quarant’anni di scuolaby Citta invisibile |
di Anna Maria Bruni
Quando contattai Piero, nell’agosto del 2009, lo feci pensando ad una lunga intervista ad un maestro elementare su quarant’anni di lotte per la scuola a Roma. Ma, anche se questa rimane l’ossatura del racconto, come spesso avviene quando si comincia un’opera di scavo, il dialogo tra noi ha trasformato di molto l’approccio iniziale. Prima di tutto perché mi sono trovata di fronte alle lotte per la scuola democratica e di massa cominciate negli anni 60 del ’900, per ritrovarmi all’inizio del 2000 di fronte alle lotte per la scuola pubblica statale. Un viaggio a ritroso dagli anni di quella partecipazione che ha accompagnato tutte le conquiste democratiche che questo paese ha conosciuto, a passi lunghi e ben distesi verso il feudalesimo. E poi perché le lotte negli anni 60 hanno saputo mettere insieme i bisogni, trasformandoli in diritti. “Scuola, fabbrica e quartiere” , questo era il nucleo fondante di ogni iniziativa. La ricomposizione delle lotte, unita alla ricomposizione di “personale e politico” attraverso la coerenza della vita di ogni giorno, ha innescato quel processo sistemicamente antiautoritario che fece dire a Sartre, in pieno ’68, “è l’uomo stesso che si ricompone”.
L’unica possibilità di essere normale, appunto. Per questo ho scelto questo titolo, in tono con un film di quegli anni, L’impossibilità di essere normale, (Richard Rush, 1970) che racconta il tentativo di adeguarsi al sistema da parte di un laureando aspirante professore, per poi maturare la rottura e unirsi alla rivolta studentesca. Ma con un’accezione stavolta positiva, dovuta al senso di riappropriazione della propria vita venuto a galla propri o nello stesso agosto del 2009, con quei nove giorni di fuoco passati su un carroponte dai quattro lavoratori dell’Insse Presse di Lambrate, Milano, dopo sedici mesi di lotta per impedire la chiusura della fabbrica. Quello fu il la alle proteste del lavoro che si svilupparono successivamente sui tetti di tutta Italia, e la premessa della grande manifestazione Fiom il 16 ottobre dell’anno dopo, e poi della rivolta del mondo della scuola e dell’Università, cominciata con l’assemblea del 17 a La Sapienza, che ufficializzava l’auto-organizzazione.
Un filo rosso che ha cominciato ad essere riconosciuto, dopo esser stato dipanato già da diversi anni. La lotta contro la Tav in Val di Susa ormai ventennale ne porta il segno più vistoso, anche perché di grande maturi tà politica; ma accanto a questa la tante mobilitazioni territoriali nate sotto lo stesso segno: nel 2003 è la gente di Scanzano a battersi contro la realizzazione di un sito per le scorie nucleari, sono le popolazioni diChiaiano e Terzigno a tenere le lo tte contro le discariche, i vicentini contro la base Dal Molin, i siciliani sono i No Muos e insieme ai calabresi sono i No Ponte. Sono solo alcuni esempi di mobilitazioni che impongono la riflessione sulla capacità di concepire la politica come atto legato direttamente alla propria vita quotidiana e indirettamente, attraverso il gesto gratuito, ma militante.
Una questione fondante delle lotte dei decenni 60 e 70, capace di strappare alla politica la maschera della professione, che rimane indipendente dal la vita che si conduce, senza quindi alcuna ricerca di coerenza con le idee che si professano. Non è un caso se nelle premesse Piero precisa che oltre l’impegno nella scuola, che “metteva insieme il desiderio di intervenire nella realtà con il bisogno di procacciarsi un reddito”, sentiva il bisogno di un impegno politico che andasse oltre il lavoro.
Quel bisogno di far coincidere idee e vita reale lo porta a scegliere di impegnarsi con Lotta Continua nelle lotte per l’autoriduzione della luce nello stesso quartiere, il Trullo, dove aveva cominciato ad insegnare, ad organizzare i mercatini rossi, e poi accanto all’occupazione della casa di via Impruneta e via Pescaglia a Magliana, da cui decolleranno i Comitati di lotta e le occupazioni in tutta la città. Mentre contemporaneamente continuava l’impegno nelle battaglie per fare degli organi collegiali uno strumento di allargamento della democrazia nella scuola, da delegato per la democrazia interna in Cgil, fino all’auto-organizzazione con il movimento degli in segnanti nell’87, e alla costituzione dei Cobas che lui definisce “una liberazione”, perché era la possibilità di determinare le lotte e l’organizzazione che li riguardava. E poi ancora tutte le battaglie per la difesa del tempo pieno e contro la scuola-azienda che dagli anni 90 mina di nuovo la democrazia nella scuola e il diritto allo studio, di cui la “controriforma” Gelmini è l’ultimo atto, al momento in cui si chiude questo racconto. In quelle lotte si ritrova la maturità dell’auto-organizzazione nei Comitati, ma anche nella ricchezza dell’esperienza dovuta alla spontaneità di Lotta Continua di fronte alle contraddizioni delle organizzazioni tradizionali come la Cgil, o successivamente a quelle del Prc, e le differenze con l’auto-organizzazione e l’auto-rappresentanza: il confronto con la necessità di essere insieme, di essere tanti e organizzati, e insieme la rottura della delega del comando, della decisione. Proprio la questione che si è andata riproponendo in questi ultimi due anni, ovvero quella della riappropriazione del potere attraverso nuove forme di democrazia diretta, come nell’esempio dell’occupazione del Teatro Valle, dove lo Statuto elaborato con i fondatori getta le premesse per l’autogoverno di quello spazio come bene comune.
Il processo di elaborazione culturale e di sperimentazione portato avanti dal Movimento di Cooperazione Educativa negli anni 60, “senza mediazione accademica”, su un terreno reso fecondo dal Personalismo comunitario di Mounier prima e dalla denuncia della scuola di classe di Don Milani poi, fu certamente il vettore della forma mentis che ha immaginato l’impegno politico diretto, senza la mediazione dei partiti. Quell’elaborazione delle materie di studio a cui lavorò l’MCE attraverso una rete di gruppi territoriali portò all’elaborazione dell’idea del tempo pieno nella scuola. Un’idea di classe “laboratorio” e non “uditorio”, come la definì Gianni Rodari, oltre la lezione frontale quindi, per coinvolgere bambini e ragazzi in una dimensione di partecipazione attiva dentro gruppi di studio nelle classi o di lavoro nei laboratori, alimentando la capacità di interazione ed elaborazione critica, insieme allo sviluppo di creatività e intelligenza. In una dimensione comunitaria, o collegiale, o collettiva, che in ogni caso, comunque la si voglia chiamare, ha segnato quell’ “estrema superiorità”, di cui abbiamo avuto prova in quegli anni. Una conquista irriducibile, e chiunque ne abbia fatto esperienza sa che quello è stato il giro di boa, perché ha ridisegnato concetti come “cultur ale”, “economico”, “sociale”, “civile”, non semplicemente sommandoli o ricucendoli, ma piuttosto componendoli in una ridefinizione totale della vita, a “misura d’uomo”, si diceva, e come tale non scomponibile. Proprio ciò che l’idea di tempo pieno portava con sé, dentro un lavoro interdisciplinare che consentiva “l’approccio immediato alla realtà, superando l’approccio mediato dalle discipline come campi di indagine teorici attraverso i quali la realtà viene scomposta”. Ciò che ha consentito “un altro modo di girare dei cervelli”.
Se c’è un mandato che quel periodo ci consegna è questo: le lotte sociali e quelle del lavoro sono inscindibili, perché inscindibili sono i nostri bisogni. Ciascun ambito è un tassello che ricompone la nostra vita, perciò non può essere affrontato separatamente, pena arrendersi all’idea mainstream anche fra gli economisti liberal di casa nostra, e confessarsi, magari sottovoce, come di recente faceva con me disgraziatamente un sindacalista, che sì “parliamoci chiaro, il costo del lavoro va contenuto”. Se “va contenuto”, dev’essere in relazione a qualcosa. Al costo della casa? ma al mutuo o all’affitto, comunque dettati dal mercato, mentre salari e stipendi vengono “congelati” nelle finanziarie? o ai costi sempre più alti su quelli c he dovrebbero essere servizi pubblici? o in relazione a trasporti sempre più scarni, inefficienti e sporchi, a favore di pochi e costosissimi treni? O in relazione alla tassa sui rifiuti, inversamente proporzionale all’inefficienza (leggi inesistenza) della raccolta differenziata? Oppure all’obbligo dei mutui su case che crollano per il terremoto, o peggio (perché la responsabilità è dell’uomo) per dissesto ambientale? O mentre le scuole dei piccoli paesi chiudono, e quelle dei grandi crollano? Inutile continuare. Come inutile precisare che oggi non è più possibile separare questi piani ma, ecco il punto, non solo per i costi vertiginosi con cui si pretende di barattare ognuno di questi bisogni, ma perché ciascuno di noi è tutti questi bisogni, e i diritti c he li soddisfano non sono negoziabili.
La differenza con le lotte maturate nel ’68 e fino agli anni 70 rispetto ad oggi, riguarda un tratto fondamentale di quella ricomposizione, affrontato esplicitamente in più punti, ma implicito in tutto il racconto. Riguarda la capacità di dire quello che si pensa, e di fare quello che si dice. Quella capacità di coerenza, ma di più direi un bisogno (anche questo), un’urgenza, tale da diventare una matrice fondamentale delle lotte di quegli anni. L’ipocrisia non era più possibile.
Non era più possibile dire una cosa e farne un’altra, non era più possibile adottare comportamenti diversi, stili di vita, diversi, da quanto si andava rivendicando nelle lotte. Questo ha permesso allo slancio umano di surclassare il calcolo di convenienza, ed ha restituito agli uomini e alle donne protagonisti di quelle lotte l’integrità necessaria per riconoscersi come tali, al di là dei ruoli sociali e delle condizioni di classe. Il superamento di queste era già nella pratica, e ha permesso la conquista di spazi di potere. Tutto questo si è andato frantumando con la frantumazione del tessuto sociale, insieme al lavoro, mentre è penetrata, prima di tutto sul piano culturale, l’idea dell’individuo proprietario, lasciando di nuovo il posto alle divisioni di classe, per ritrovarsi in un deserto di relazioni, sedimentato da una continua competizione, anche nell’ambito della sinistra, proprio lì dove ci si aspetterebbe di avere compagni intorno che si battono insieme a te per diritti minimi. Una competizione identica, seppure con altre declinazioni, a quella per il pagamento della mensa di Adro. Ciò vuol dire che non siamo alla povertà, siamo alla miseria. Da quel personale è politico che è stato motore di una capacità di identificazione tale da trasformare milioni di persone in una forza unica, al ritorno al privato, i cui tasselli culturali sono stati validamente supportati da scelte economiche sostanziali, che ha destrutturato “quell’affiatamento e quella fiducia illimitata fra chi faceva le lotte”, dice Piero, per ritrovarsi spesso dentro “forme affaristiche di procedere”, anche quando si vorrebbe far decollare un nuovo movimento.
E non è cosa di poco conto ricostruire una cultura dentro una dimensione economica che, seppure al collasso, ci ha reso più poveri, affamati, sempre in affanno per sbarcare il lunario o, se più solidi, ben attenti a difendere i confini del proprio privato invalicabile. Anche perché significa correre il rischio di un affondo nelle relazioni imprevedibile. Significa cioè essere disposti a mettersi in gioco davvero, senza porre limiti, ma pronti a ridiscutere le proprie scelte, a modificare la propria vita. A cedere qualcosa di sé, senza sentirsi scippati. Ma questa, è l’unica possibilità che abbiamo di cambiare davvero. Ieri mossa dall’anticonformismo, poi decollata con l’antiautoritarismo, ha fatto maturare una scelta vera, una scelta consapevole. Oggi invece quella possibilità si aggrappa alla necessità, dettata dalle condizioni di vita.
Ma questo non basta. È’ una molla per i movimenti, ma perché non sia solo un’ondata a questa deve seguire il desiderio di andare nella direzione dell’unica possibilità reale di trasformazione: quella costituita dal “noi”, dalla condivisione, dai beni comuni, dall’intelligenza collettiva. Ripensando insieme le politiche per il lavoro, per la casa, per scuola e università, per l’ambiente, per la cultura, sulla base di una circolarità dovuta alla ricomposizione fra lavoro materiale e lavoro cognitivo, che impedisce gerarchizzazione dei ruoli e competizione, le due coordinate che permettono il dividit et impera. In sostanza l’organizzazione del lavoro, perché essa ridefinisce i rapporti tra noi.
Proprio ciò che le lotte dei decenni 60 e 70 erano arrivate a mettere in discussione, tanto in fabbrica, con i Consigli, quanto a scuola, con il sistema di relazioni basato sullacollegialità, determinando il periodo di massimo sviluppo e arricchimento ed il momento più alto di produzione di cultura e sapere critico, di coscienza, intelligenza e capacità di autodeterminazione. Quella fase ha reso evidente che il plusvalore sono gli uomini, e che determinante è la modalità delle loro relazioni. E fare squadra è fare Sistema.
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