di Enzo Scandurra
1. Warfare vs welfare, l’impraticabile opzione riformista
L’urbanistica, fin dalla sua nascita come disciplina del Moderno, è stata caratterizzata da una vocazione fortemente riformista. Organizzata come insieme di tecniche e orientamento culturale che si proponevano di mitigare i conflitti sociali e migliorare le condizioni di vita negli insani agglomerati urbani della città-miniera o della sua variante città-fabbrica, si trova ora a fronteggiare una crisi economica, sociale e urbana senza precedenti, ancorché ormai orfana di quella ambigua utopia dello Sviluppo (affidato al libero Mercato) che l’ha sostenuta nel secolo scorso e che ha prodotto non pochi guasti ambientali e sociali.
La posta in gioco riguarda la sua presunta efficacia (come disciplina) di incidere virtuosamente sulle trasformazioni della città e, in particolare, sulla vita quotidiana dei suoi abitanti. Detto in altri termini, il suo originario impianto di tecniche e di saperi è sempre più difficilmente applicabile alla fenomenologia della città e dei territori contemporanei. Essa è oggi attraversata da due tendenze contrapposte: di depressione disciplinare che la vede subordinata e financo complice della deriva neoliberista, da una parte, e di potenziale capacità di trasformazione, dall’altra, verso obiettivi diriterritorializzazione e riconversione ecologica dello sviluppo, salvaguardia dei beni comuni, forme nuove di sviluppo a partire dai territori e da esperienze di autogoverno delle comunità locali. Dall’esito finale di scontro di queste due tendenze in atto dipenderà gran parte della sua futura capacità di incisione sulle città e sui territori.
Tra queste due tendenze non è data (o quasi) alcuna forma intermedia di possibilità (la cosiddetta “terza via” di blairiana memoria), essendo esse fortemente antagoniste e ispirandosi a visioni del mondo decisamente contrapposte. All’interno della crisi sistemica data non esistono scorciatoie in grado di riproporre l’architettura del welfare novecentesco come, ad esempio, il New Deal keynesiano. Chi ancora pensasse che sia praticabile una opzione riformista (sono ancora in molti a pensarlo), dovrebbe tenere a mente cheriformare vuol dire soprattutto ridistribuire le risorse: non è data alcune ipotesi di riforma possibile se non associata a una ridistribuzione del reddito, delle ricchezze, dell’ambiente. L’opzione riformista presuppone inoltre una politica di estensione del welfare (per esempio quella degli anni Settanta delle lotte per la casa, servizi scolastici, tempo libero, ecc.), cosa oggi del tutto impensabile poiché negata drasticamente dalla politica ragionieristica dettata e imposta dall’Europa (fiscal compact, spending review, ecc.). Del resto le vecchie socialdemocrazie europee dei paesi nordici che sono stati punti di riferimento per molti paesi negli anni passati, non godono neppure esse di buona salute. Qualcuno (Viale, 2014/1, p.15) fa notare che la nostra epoca storica è semmai caratterizzata dalla contrapposizione warfare vs welfare, ovvero da un’estensione generalizzata dei conflitti a tutto tondo (e in tutto il mondo), compreso quello ingaggiato contro l’ambiente, il territorio, i beni comuni e perfino del conflitto di ognuno contro ogni altro. Il vecchio adagio di Lefebvre sul le Droit à la ville si è trasformato nel suo opposto attraverso politiche di esclusione, marginalizzazione, espulsione, ghettizzazione, come testimoniano le ricorrenti rivolte urbane diffuse in ogni paese dell’Occidente.
2. Prigionieri della ragioneria contabile
Viene sempre più praticata dalle amministrazioni centrali, così come da quelle periferiche, una politica da ragionieri, una gestione contabile, imposta dalla Comunità europea e di cui le amministrazioni locali appaiono sempre più mere esecutrici. Lo strumento attraverso il quale avviene questo processo di controllo si chiama spending review che costringe i comuni, in presenza della drastica riduzione di trasferimenti di risorse da parte dello Stato, a privatizzare e a svendere i propri servizi pubblici a vantaggio degli investitori privati che non riescono più a trarre margini di profitto dai processi industriali. Così se i comuni con la cessione di tali servizi delegano ad altri l’impopolare aumento delle tariffe, sono poi i privati che li gestiscono a recuperare i costi di gestione e anche a trarre i profitti che i comuni non sono in grado di ricavare. «Ma» afferma Guido Viale «privatizzare i servizi pubblici locali e consegnarli a una finanza sempre più lontana dalla popolazione di riferimento vuol dire privare i Comuni della loro ragion d’essere e trasformarli in enti inutili, fatti solo per allevare e selezionare i membri della casta; una democrazia priva di autonomie locali non è più tale e i sindaci che accettano di ridursi a estrattori di risorse dai loro concittadini, senza alcuna restituzione, si tagliano l’erba sotto i piedi» (Viale, 2014/2, pp.1/15). E questo vale anche a proposito della tanto propagandata green economy che, quasi sempre, altro non è se non un tentativo dei poteri dominanti e della finanza internazionale di cercare di sfruttare le ultime risorse disponibili sul pianeta (quelle naturali) là dove altri profitti non sono più garantiti dalle condizioni generali in cui versa l’economia mondiale. La green economy è anch’essa una forma di capitalismo che incorpora il limite ambientale nel suo processo di accumulazione.
Da qui la sensazione che, a disdetta delle promesse elettorali, i Sindaci dei comuni una volta eletti diventano meri esecutori di piani decisi non dalle volontà popolari ma dai vincoli di bilancio e dalle indicazioni della comunità europea dalla quale sola possono provenire finanziamenti adeguati (e fortemente finalizzati), come, per esempio, finanziamenti per la creazione di smart cities, start-up, sostenibilità (a parole), parcheggi, eventi, eccetera. Dovunque è accettato (spesso anche teorizzato dagli stessi urbanisti al servizio del pensiero mainstream) che il meccanismo di trovare i finanziamenti necessari per mandare avanti la macchina comunale sia quello di esercitare un’attrazione nei riguardi degli investitori privati, cosa che avviene anche, per esempio, in ambito universitario con ricadute sul piano della ricerca i cui nefasti effetti saremo in grado di valutare solo tra diversi anni. E se l’autonomia universitaria e la ricerca di base ne vengono stravolti, altrettanto succede ai comuni che hanno sempre rappresentato, nella tradizione europea, i luoghi della democrazia partecipata e dell’autogoverno a base associativa.
3. La privatizzazione neoliberista dello spazio pubblico
L’urbanistica, di conseguenza, non solo subisce i limiti di questi vincoli imposti dall’alto, ma spesso se ne fa complice accettando le regole del gioco che vede come attore protagonista il privato (e i suoi profitti) che non ha alcun interesse ad un allargamento dei servizi pubblici se non nella misura in cui tale allargamento favorisce i suoi tornaconto personali. È qui che è del tutto evidente l’impraticabilità dell’opzione riformista, là dove essa troverebbe realizzazione nell’estensione dei beni comuni e nella loro fruizione, nella produzione di edilizia pubblica, nell’estensione del diritto di cittadinanza, nella lotta contro la povertà urbana (1) nelle sue miserevoli varianti. Chi oggi si fa promotore di una politica riformista dovrebbe in primo luogo indicare attraverso quali meccanismi popolari opporsi al processo diffuso di privatizzazione della città e in quale modo uscire dalla trappola del controllo europeo. Spesso, invece, si fa passare per politica riformista una politica tutta tesa a compiere aggiustamenti strutturali dei mercati per accompagnare il sistema in crisi al suo nuovo equilibrio di mercato che significa una politica di adeguamento totale alle regole della competizione internazionale, del successo, della capacità di attrarre flussi finanziari che solo in maniera temporanea producono qualche effimero miglioramento della condizione urbana (e solo per alcuni cittadini, comunque) che va sotto il nome di innovazione o modernizzazione.
Un’altra attività “suicida” svolta dai comuni è quella di incrementare le proprie casse attraverso il rilascio facilitato a privati di concessioni a costruire nuove abitazioni in cambio del pagamento dei relativi oneri previsti per legge. In questo caso le amministrazioni comunali si trasformano in vere e proprie Zecche capaci di battere moneta per proprio conto (2). Così che a fronte di entrate certe (ma poi non sempre così certe date le condizioni di crisi dei costruttori), l’amministrazione si ritroverà di lì a qualche anno ancor più indebitata per le spese da sostenere a favore della costruzione delle necessarie opere di urbanizzazioni per collegare le nuove zone edificate alla città.
C’è poi il tema delle grandi opere, come il Mose a Venezia, la Expò di Milano, la Tav, il traforo della Val di Susa e, ultime arrivate, le smart cities come risposta estrema (e assai stravagante) di modernizzazione delle città. Le vicende attorno le quali ruotano tali questioni sono note: corruzioni, appalti truccati, assenza di trasparenza e così via. Non si tratta di episodi isolati, di quelle “mele marce” cui si vorrebbe addossare la responsabilità totale degli scandali sempre più diffusi. E’ il controllo democratico che manca, quella condivisione di base che sola renderebbe difficili o impedirebbe gli episodi di corruzione. Ma anche qui si ripete la solita storia che “una rondine non fa primavera”, sebbene che più che rondine isolata di stormi veri e propri si tratta.
4. Le comunità locali come protagoniste di un nuovo sviluppo
C’è un bisogno di comunità, una volta che questo concetto risulti purgato delle sue tentazioni autoritarie e regressive, che gli urbanisti contemporanei non dovrebbero sottovalutare. Un tema, questo, che ha prodotto nel secolo scorso le più significative esperienze intellettuali e urbanistiche, da Olivetti a De Carlo attraverso Danilo Dolci, Giuseppe De Rita, ecc. E forse è proprio questo il nodo centrale del rapporto tra urbanistica e società. L’età contemporanea è caratterizzata da un “doppio vincolo”: da una parte l’uomo globalizzato che appartiene a una rete sociale mondializzata (network society), dall’altra la persona singola che sente ancora l’attrazione e la necessità di una comunità di origine (piccola patria, paese…) che soddisfi il bisogno di identificazione. La prima, afferma Francesco Fistetti, riguarda «la socialità secondaria delle istituzioni politiche ed amministrative, in cui vigono rapporti regolati dalla legge, o dalla sfera del diritto astratto»; la seconda è quella della «società primaria della comunità come luogo della famiglia, dell’amicizia, in una parola delle relazioni faccia-a-faccia» (Fistetti, 2014, p.3). Questo “doppio vincolo” è stato riconosciuto anche da Massimo Cacciari (3) quando afferma che ogni città deve rispondere a due esigenze contrastanti: quella di essere grembo, oikos, ovvero luogo della comunità e quella di essere macchina efficiente. Le due tendenze sono tutt’altro che in pacifica coesistenza essendo quasi sempre l’una opposta all’altra come ben sa chi ha visitato le nostre città.
Sulla parola comunità incombono certamente oscuri (e presenti) fantasmi che ne rendono problematico l’uso. Essa, in passato, era soprattutto basata sui due requisiti disangue e suolo (il Blut und Boden dei Romantici tedeschi). Entrambe le componenti hanno, nell’età moderna, perso la loro forza di coesione. «Il legame di sangue, in quanto i rapporti familiari stretti intrecciati da una rete fittissima tra le persone», si sono indeboliti a causa della perdita del ruolo centrale della famiglia. «Il legame di suolo, in quanto luogo privilegiato in cui sono impiantate le radici delle persone che vi abitano», (Bordoni, 2014, p.2) si è a sua volta rarefatto con la perdita di potere dello Stato e l’apertura dei confini nazionali. Eppure, sostiene Bordoni, «la comunità è stata il primo e più antico nucleo da cui è nata la società, basata su forme semplici e rozze di comportamento che regolano l’uso della forza, il principio di autorità, i rapporti familiari e la morale collettiva e la tradizione culturale». Nietzsche e Tonnies, (4) svilupparono la critica antimoderna a partire dalla ripresa dell’ideale di comunità consistente nel «riconoscimento dei valori comuni non costruiti artificialmente dalla civiltà, assieme a un legame profondo con la natura» (Bordoni, 2014, p.2). Ideali che ancora oggi appaiono degni di interesse. Oggi, in fase di indebolimento di questo concetto, la distruzione della comunità produce sì maggiore libertà ma anche angoscia territoriale e senso di isolamento (De Martino, 1977, p.194)(5). E se è vero che oggi la comunità “si trasferisce” con la persona e sopravvive in forma frammentaria e spesso manipolata, la sua esigenza da parte delle persone è ancora vitale e non sostituita (se non in forma di insani surrogati, come ad esempio la comunità di rete) da elementi moderni altrettanto efficaci. Per dirla con le parole di Andrea Bagni serve ancora una «comunità politica, capace di accogliere e ascoltare storie personali, bisogni di relazioni altre da quelle mercificate e competitive dell’ordine simbolico dominante. Narrazioni. Sguardi di donne e uomini che sanno la loro appartenenza di genere e inventano la loro singolarità. […] . Essere contenitore di processi viventi, attento a non soffocarli nelle pratiche elettorali dalle passioni tristi» (Bagni, 2014, p.15).
5. La sovranità di territorio
Il “bisogno di comunità” rimanda al tema della sovranità del territorio. In un contesto di assenza di sovranità, della politica, delle istituzioni, degli Stati nazione, l’unica che resta è la sovranità sul territorio per “ricostituire una fascia intermedia di responsabilità” (De Rita, Bonomi, 2014, p.34). È il territorio, infatti, il luogo su cui insistono le imprese, su cui operano le rappresentanze sindacali e su cui vivono i lavoratori e, più in generale, i cittadini e le istituzioni locali: tutti accomunati dalla necessità che le imprese non solo sopravvivano ma possano aumentare la propria produttività, competitività e capacità occupazionale, in modo sostenibile e responsabile. E sul territorio si sono ormai sviluppati micromovimenti, nuove responsabilità che si affermano, producono epromuovono nuovi stili di vita, nuovi modelli di produzione e di consumo; il luogodove si aprono squarci di un futuro e di una società diversi, tracce ancora deboli di soggetti portatori di visioni e di speranze. Come ad esempio la nascita di movimenti che rivendicano i beni comuni (dai Comitati Acqua Bene Comune ai No Tav, dalle occupazioni a scopo culturale alle leggi d’iniziativa per la gestione del paesaggio), «diforme di solidarietà dal basso (Banca delle ore, car sharing, co-housing e co-working, crowdfunding ecc.,), e perfino il successo di partiti che fanno della partecipazione diretta dei cittadini, il loro cavallo di battaglia sebbene in alcuni casi in modo populistico» (Paci, 2014, p.1)
L’urbanistica e gli urbanisti dovrebbero lavorare di più su questo fronte del bisogno di quegli ideali e quelle rassicurazioni associate alla presenza della comunità favorendo la creazione e l’invenzione di nuove istituzioni (né Mercato né Stato) ancorate a pratiche sociali capaci di contrastare le logiche di mercato che, lasciate a se stesse, producono solo disastri sociali ed ambientali. Sappiamo bene però, per restare anche nel solo versante accademico, che chi anche solo teorizzasse la nascita di queste nuove istituzioni, troverebbe molti ostacoli al suo percorso e assai scarse gratificazioni scientifiche che vengono invece facilmente dal percorrere il pensiero mainstream del “progetto innovativo” protetto e favorito dai finanziamenti europei. Praticare questo percorso, come urbanisti, significa certamente rinunciare alla centralità (e ai vantaggi) dell’urbanista mainstream e tuttavia basta dare uno sguardo ai temi di ricerca, per esempio, dei dottorandi di urbanistica per comprendere come questo sia il percorso più adeguato ai problemi del presente (e prossimo futuro) se non vogliamo che il paese imbocchi un vicolo cieco dell’evoluzione della città e dl territorio.
Da ultimo cito ancora Andrea Bagni quando dice: «Non abbiamo un temo infinito, non possiamo creare luoghi fluidi solo per continuare altrove i percorsi di sempre. Tipo, se va male si torna lì, teniamoci buona l’organizzazione e la bandiera, non rischiamo troppo. Secondo me nessuno dovrebbe immaginare di poter raccogliere i cocci di un ennesimo fallimento» (Bagni, 2014, p.15). Bisognerebbe applicare all’urbanistica quanto Benedetto Vertecchi sosteneva per la scuola: «L’educazione scolastica costituisce un fattore positivo nella storia dei popoli quando si fonda sul presupposto utopistico che sia possibile realizzare ciò che non è».
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Bagni A. (2014), Renzi ha sepolto il centrosinistra, articolo su Il Manifesto del 22 agosto.
Bordoni C. (2014), La fine della comunità, articolo su Il Corriere della Sera, del 24 agosto, inserto La Lettura.
Cacciari M.(2012), La città, Pazzini stampatore editore srl, Villa Verucchio (RN).
De Martino E.(1977) La fine del mondo. Contributo all'analisi delle apocalissi culturali, a cura di Clara Gallini, Einaudi, Torino.
De Rita G., Bonomi A. (2014), Dialoghi sull’Italia. L’eclissi della società di mezzo, Feltrinelli, Milano.
Fistetti F. (2014), La rinascita della comunità, articolo su Il Corriere della Sera, del 24 agosto, inserto La Lettura.
Paci N. (2014), Territorio e democrazia economica e politica, dal sito “Sbilanciamoci.info”.
Secchi B. (2013), La città dei ricchi e la città dei poveri, Laterza, Roma-Bari.
Viale G. (2014/1), Warfare vs welfare, articolo su Il Manifesto del 1 agosto.
Viale G. (2014/2), Lo spending spiana comuni, articolo su Il Manifesto del 23 agosto, p.1/15.
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lunedì 3 novembre 2014
RIPENSARE UNA URBANISTICA PARTECIPATA
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