martedì 2 giugno 2015
da critica liberale una adeguata analisi delle elezioni liguri
astrolabio
ma se ghe pensu
giovanni vetritto
Un’elezione senza gente
Quanta malinconia dà il risultato delle amministrative liguri al cittadino
medio che prova a leggere i risultati senza i paraocchi dell’immediato interesse di
partito.
Un risultato complessivo deludente dal punto di vista sia della
rappresentanza che della governabilità; con una regione priva di maggioranza
elettorale (essendo artificialmente costruita dalla legge elettorale quella consiliare,
grazie al “Tatarellum”) e di solida base di delega democratica, con vincitori
dimidiati e sconfitti in rotta. Senza una leggibile traiettoria per il governo e lo
sviluppo di una regione dai mille problemi.
E con i cittadini senza concrete speranze di buona politica per altri 5 anni.
Nella marmellata politica informe uscita dalle urne, nessuna previsione
sensata è possibile fare in termini complessivi. E ogni commento si riduce a una
triste analisi dei risultati parziali dei singoli contendenti, senza potenziali ricadute
significative sulla qualità della vita dei liguri nel prossimo futuro.
Chi ha vinto
Il primo dato indiscutibile è che anche in Liguria in queste amministrative
esiste un solo debordante partito vincitore: il partito della disillusione, del non voto,
che ormai ha raggiunto stabilmente e ovunque la metà (voto più, voto meno) degli
aventi diritto. Tanto da costringere, per fare considerazioni realistiche, a dimezzare
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la percentuale dichiarata delle diverse liste che hanno ottenuto voti per capire
effettivamente qualcosa.
Da questo punto di vista, né la conferma dei grillini sopra il 20% dichiarato
(ovvero un elettore su dieci effettivo) né la solida affermazione di Pastorino (con un
circa 10% corrispondete a un avente diritto su venti) ne hanno scalfito l’ormai
rocciosa consistenza.
Dopo ormai quasi tre anni dall’inizio dello sgretolamento del sistema di
rappresentanza e di potere del berlusconismo, che ha rappresentato la solida pietra
di paragone della politica della cosiddetta Prima Repubblica (con percentuali di
votanti stabilmente sopra l’80% degli aventi diritto), non si vede dunque un asse
che dia stabilmente rappresentanza a una qualunque maggioranza nel Paese.
E che la classe politica, tutta, si balocchi tuttora con i dati finti delle
percentuali delle liste votate, invece che con i dati reali del numero assoluto di voti e
delle percentuali sugli aventi diritto, come nella sconfortante ultima notte
mediatica, deve far preoccupare, perché perpetua una situazione di democrazia
sospesa che può consentire qualsiasi colpo di mano.
A valle di questa considerazione preliminare, che dovrebbe assorbire, essa si,
tutto il dibattito pubblico, si può dire che solo i grillini possano vantare a buon
diritto di non aver perso, avendo confermato una percentuale apparente sopra il
20%, seppure su una base elettorale espressa di non poco inferiore a quella del loro
exploit alle ultime politiche generali.
E che questo sia accaduto senza il “megafono” grillo, senza vaffa day e con la
compostezza di un Di Maio e la tenacia della loro candidata ligure è cosa che dà
ancora maggiore valore a questa unica vera affermazione di lista.
A seguire, non si può certo annoverare alla lista degli sconfitti il generoso
tentativo di Luca Pastorino, pur poco aiutato da un progetto politico civatiano
effettivo ancora non abbastanza definito né noto, e zavorrato da una componente
non irrilevante di ceto politico, di sinistra radicale o ex, poco entusiasmante e poco
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innovativo come offerta elettorale. Nonostante tutto ciò, per la prima volta a
memoria d’uomo una scissione a sinistra dal corpaccione PD sfiora la doppia cifra
dei voti espressi, con una solida base oltre lo sbarramento futuro del 5% per lista
anche in termini reali. E con un numero di voti assoluti ben superiore al risultato
della Lista Tsipras delle ultime europee (che ottenne un voto apparente ben sotto il
5% a dato dei voti espressi molto simile a quello odierno).
Questo a dimostrare tre cose importanti: la prima, che per contrapporsi a
sinistra al PD renziano non si può indulgere al nostalgico rosso antico, che non
sfonda mai le sue nicchie; che Renzi ha fatto male i suoi calcoli quando ha dato per
scontato che Civati non portasse via voti e che il PD potesse “farsene una ragione”;
terzo, che su una base elettorale quantitativamente non irrilevante Civati potrebbe
costruire ben altre prospettive elettorali, se davvero riuscisse a dare forma a un
progetto politico radicalmente innovativo e non dogmatico nei temi, rappresentato
da un ceto politico davvero nuovo (e auspicabilmente di maggiore qualità,
culturalmente riconoscibile ed omogeneo rispetto a quello M5S), data l’incapacità
dell’offerta combinata di tutte le liste di scalfire il “partito del non voto”, come si è
premesso.
Chi ha perso
Tutti gli altri, verrebbe da dire.
Renzi, che si è consegnato legato mani piedi alle vecchi camarille trasversali
di potere ligure, senza nemmeno accennare a proporre qualcosa di nuovo, né in
termini di blocco sociale né di personale politico, con ciò rinunciando in partenza a
svolgere il ruolo di rottamatore promesso con la sua elezione a capo del PD. E senza
nemmeno vincere.
La “Ditta”, corsa in aiuto della candidata burlandian-scajoliana nei comizi
finali, rinunciando a giocarsi la carta della conflittualità interna, servitale su un
piatto d’argento da Cofferati prima e da Civati poi.
Il burlandismo in salsa scajoliana che effettivamente ha corso a sinistra, con
la Paita capace nel suo stesso collegio di prendere appena la metà dei voti assoluti
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rispetto a un anno fa; con lo sfondamento a destra del “nuovo PD” che
evidentemente non riesce; e questo pur in presenza di un rassemblement della
vecchia destra berlusconiana e leghista poco convinto e poco convincente, e assai
pallido negli interpreti, ma pur sempre vincente sulla indigeribile marmellata
renziana, prona al passato non memorabile di un PD territorialmente definito tra i
peggiori nel senso della rottamazione un tempo auspicata dal leader e
immediatamente messa in soffitta appena preso il potere. E comunque penalizzato
dall’ennesima emorragia sulla sua sinistra.
Il vecchio asse della destra, pur portando a casa la vittoria alla regione (con
quale soddisfazione del giornalista Toti, costretto ora a governare davvero per 5
anni, e su temi di chiara matrice amministrativa e non strategica, sarebbe bello
sapere). Ciò per il chiaro sorpasso effettuato da Salvini sui berluscones, che creerà
più problemi di quanti ne risolverà in chiave di prospettive di alleanza; per la
continuazione dell’emorragia di voti assoluti di FI; per la limitata capacità di
sfondare al centro della Lega; per la scomparsa pressoché totale del centro, eterna
illusione dei conservatori mai davvero realizzata dai referendum del 1993 in avanti.
La sinistra radicale, presentatasi divisa su due liste, una rifondarola e l’altra
clerical-movimentista, per raccoglier con ciascuna il solito quoziente da prefisso
telefonico (e sulla metà dei voti potenziali).
E allora?
Resta, come detto, una sensazione di incompiutezza, di distacco patologico
tra problemi e partiti, tra elettori e classe politica, tra istituzioni e cittadini.
Come potrà una regione così in difficoltà fronteggiare un quinquennio
amministrativo in queste condizioni è davvero difficile prevedere.
Resta solo la speranza che la lezione ligure, con l’ingovernabilità che lascia in
eredità e l’allarme che suona per dirigenze partitiche sorde, venga compresa da
qualcuno. Per ora emerge solo la malinconia così ben espressa dalla più nota
canzone popolare dell’emigrazione ligure. Come recitano quelle rime, che qualcuno
ci pensi…
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