mercoledì 10 giugno 2015

fermare lo sviluppo è possibile

C’è un’alternativa allo sviluppo

by maomao comune
Nasce dal sogno universalista andato in pezzi e dal fallimento dei generosi progetti occidentali nell'interesse dei paesi "in via di sviluppo" il concetto dipluriversalismo. Si tratta di un dialogo democratico, vero e mai impositivo, tra culture capaci di imparare ad ascoltare e a riconoscere la propria contingenza conservando legittimità. È la via che, ancor prima di Serge Latouche, avevano aperto Raimon Pannikar e Lester Pearson. Non con quel contesto, perché un cambiamento di prospettiva diventa indispensabile, ma è tenendo la rotta di quell'orizzonte concettuale che Gaia Calligaris ha scritto "Decrescita", un saggio divulgativo per un'alternativa di teoria e di pratiche alla rovinosa ricerca del mito della crescita nella crisi globale. Un'alternativa che è però anche proposta politica, peraltro già in atto in diverse zone del mondo nelle pratiche di chi difende l'ambiente, i diritti delle persone, i beni comuni e il buen vivir. Gaia ha selezionato per i lettori di Comune tre brani estratti dal suo e-book edito da Secondavista, che potete trovare qui 
Buen-vivir-una-alternativa-posible
foto Ecoportal.net
di Gaia Calligaris
Presentazione. “Decrescita. Un’alternativa alla crisi globale”, scritto da Gaia Calligaris e edito da Secondavista Edizioni, è un saggio divulgativo in cui viene presentata la proposta della decrescita sia dal punto di vista teorico che attraverso le alternative e le pratiche concrete che si stanno costruendo, in particolare in questo periodo di crisi globale.
In secondo luogo, l’analisi verte sul significato della “decrescita” nei Paesi impoveriti e sulle proposte che arrivano proprio da questa parte del mondo.
La conclusione del saggio è la necessità di una “rivoluzione” in senso democratico e partecipativo basata sul rispetto dei diritti degli esseri umani e della Natura: un nuovo socialismo verde sul modello del buen vivir, dei beni comuni e della giustizia ambientale e sociale. “Decrescita. Un’alternativa alla crisi globale”, Secondavista Edizioni, attualmente disponibile in formato e-book sui principali sui principali siti di vendita online di libri.
entender+decrecimiento
Introduzione. Oggi viviamo in un’epoca in cui, in un certo senso, l’essere umano si è reso quasi onnipotente, poiché è riuscito ad emanciparsi da molti dei limiti che la natura gli imponeva, a controllarla e a modificarla. Tale onnipotenza è, però, messa in discussione da altri fattori. Il primo è costituito dalla capacità e dalla velocità di rigenerazione delle risorse rinnovabili e dall’esaurimento delle risorse non rinnovabili. Il secondo dal crearsi di una nuova dipendenza, quella dal mercato, nel senso che l’essere umano – in particolare nei Paesi ricchi – ha perso quel sapere e quel saper fare che caratterizzavano l’umanità fino a poche generazioni fa e che permettevano di produrre i beni e i servizi necessari con una certa autonomia. Il terzo è rappresentato dagli effetti ambivalenti e contraddittori del progresso, pensiamo ad esempio ai danni ambientali provocati dall’inquinamento o alle nuove malattie della modernità. Infine, da un’intrinseca debolezza di questo sistema, come dimostra l’attuale crisi finanziaria, economica, ma anche sociale e culturale che non può più essere considerata solo congiunturale ma risulta, appunto, sistemica e insita nel modello di sviluppo capitalista e neoliberista.
Nonostante questa situazione susciti crescenti preoccupazioni, sembra che in fondo non se ne colga la portata reale. Questo dipende probabilmente dal fatto che ormai da anni si sente parlare dei cambiamenti climatici, ma più con toni meramente allarmistici o sensazionalistici, piuttosto che con intenzioni realmente critiche e propositive, sortendo quindi l’effetto del classico « al lupo, al lupo » a cui ad un certo punto si fa l’abitudine senza più preoccuparsene.
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In ogni caso, sono nati diversi movimenti che si occupano di questi problemi e le risposte che essi danno sono naturalmente eterogenee. La frattura che è più importante prendere in considerazione ai fini di questo saggio è quella tra i sostenitori dello sviluppo sostenibile e della green economy e quei movimenti che vorrebbero, invece, il superamento del mito dello sviluppo e il dispiegamento di alternative plurali e basate sul rispetto dei diritti degli esseri umani e della Natura. Questi movimenti sono principalmente quelli della decrescita, dei beni comuni, della giustizia ambientale e sociale e del buen vivir.
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Uno dei « limiti » del progetto della decrescita è quello di presupporre un cambiamento globale. Naturalmente, un presupposto è costituito da esperienze più ristrette e localizzate, necessarie per elaborare le buone pratiche effettive per la realizzazione della decrescita. Come vedremo, tali esperienze hanno spesso l’effetto quasi immediato di apportare miglioramenti alla vita di chi le pratica.
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Tutta l’analisi resta profondamente politica, in quanto tratta di questioni fondamentali per l’intera polis globale. La proposta finale intende indicare una direzione e una linea politica chiare, particolarmente importanti in un periodo di sfiducia nei confronti della politica stessa e di messa in discussione delle categorie tradizionali di destra e sinistra.
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L’uscita dal contesto – lavoro e welfare. Provate a risolvere questo gioco! L’obiettivo è riuscire a collegare i nove punti utilizzando quattro linee senza mai staccare la penna dal foglio.
L’unico modo per riuscirci è uscire dal contesto del quadrato.
Il senso del gioco è di mostrare come a volte sia necessario un cambiamento di prospettiva per risolvere un problema. Nel caso del binomio sviluppo sostenibile-decrescita, questo si può tradurre dicendo che non ha senso cercare un’alternativa al fantomatico mal-sviluppo per creare uno sviluppo alternativo: l’unico processo che cambierà davvero le cose è un’alternativa allo sviluppo. Mentre accettare tale termine significa remare nella direzione opposta, anche perché, come abbiamo visto, la decrescita è possibile solo in una società della decrescita, cioè trasformata nella sua struttura economica, sociale e psicologica. Nella tesi del luglio 2008 da cui è nato questo saggio, scrivevo: « perché, se ad esempio si lasciasse tutto invariato ma si diminuisse la produzione, le conseguenze sarebbero la crisi economica e occupazionale e lo smantellamento dei servizi sociali e culturali, nonché il caos generalizzato poiché la popolazione, impossibilitata a soddisfare tutti i bisogni indotti ma percepiti come necessari, si ritroverebbe senza punti di riferimento ». La crisi che viviamo ormai dall’autunno dello stesso anno lo dimostra e, allo stesso tempo, risponde a quei commentatori che, polemicamente, accusano i sostenitori della decrescita di voler imporre a tutti una decrescita (in)felice. Aggiungerei anche che l’avverarsi dell’infausta previsione dello smantellamento dei servizi sociali è forse il fatto più grave: invece di far pagare i colpevoli della crisi – la finanza e la politica connivente – e nonostante il fatto che i sistemi di protezione sociale attenuino le conseguenze sociali delle crisi, si fabbricano falsi colpevoli – la spesa pubblica e sociale – e si tolgono le protezioni alle vittime: non solo finanza e politica connivente causano la crisi, ma addirittura riescono ad approfittarne per operare il più grande smantellamento dei diritti economici e sociali del ‘900.
La società della crescita è allo stesso tempo un circolo vizioso e un’impasse: circolo vizioso perché la crescita ha bisogno di crescita; impasse perché, per i motivi già spiegati, questo processo non può continuare all’infinito.
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Per questo possiamo dire che la decrescita « non si pone come antagonista al mito della crescita, ormai senza futuro in quanto vittima delle sue stesse contraddizioni, bensì come alternativa alla recessione che sarebbe inevitabile conseguenza della crescita negativa (che già oggi abbiamo iniziato a sperimentare) applicato ad una società che identifica nella crescita economica l’unico monovalore assoluto ».
Forse più che parlare di de-crescita, sarebbe più corretto ricorrere al termine a-crescita con lo stesso significato di a-teismo, nel senso di abbandonare la religione (mito) della crescita e dello sviluppo.
La decrescita può essere intesa come società della post-modernità, della post-abbondanza, della post-dismisura e del post-sogno americano; società in cui si punterà a preservare le risorse e a porre fine alle ingiustizie sociali.
Sarà necessario un ripensamento del lavoro (qual è il senso del lavoro?, lavorare meno lavorare tutti, nascita di nuove professioni legate alla riconversione ecologica) e dello stato sociale (welfare inteso come garanzia per tutti di poter godere dei propri diritti, introduzione del reddito di cittadinanza).
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Cooperazione allo sviluppo o sviluppo della cooperazione? Dovremmo mettere da parte un po’ dell’etnocentrismo tipicamente occidentale e accettare di non poter solo imporre, insegnare o aiutare, ma di dover o poter anche imparare e scambiare conoscenze con altre culture su un piano di parità. Anzi, è proprio dal fallimento del progetto occidentale per i « Paesi in via di sviluppo » che nasce una nuova alternativa per il futuro. Questa è la via suggerita da Raimon Panikkar e ripresa de Lester Pearson, premio Nobel per la Pace nel 1957, e da Serge Latouche nel suo ultimo saggio sull’Africa. La via dal pluriversalismo, un dialogo autentico tra le culture, alternativa alle previsioni di scontro di civiltà di Samuel P. Huntington, tenuto conto anche delle attuali folate di etnicismo e estremismo in molti Paesi. Non si tratta di un tentativo di creare una cultura universale, in cui possano confluire tutte quelle particolari e nemmeno di semplice tolleranza, (dal verbo latino tolero, tolerare, che significa sopportare un peso), ma di una vera democrazia delle culture, nella quale ognuna di esse riconosca la propria contingenza, conservi la propria legittimità e il proprio diritto di esistere; in cui sia centrale il dialogo, si resti sé stessi ma si accetti anche di imparare; in cui i cambiamenti non siano imposti, ma trasmessi culturalmente e in modo democratico.
D’altronde, non sono forse il dubbio e la relativizzazione due elementi fondamentali della filosofia occidentale moderna?!
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Di conseguenza, è necessario rivedere l’attuale concezione della cooperazione allo sviluppo.
Essa non potrà più essere vista come un aiuto unilaterale, ma come una vera cooperazione, una collaborazione, uno scambio e un partenariato nelle molteplici direzioni Nord-Sud, Sud-Nord, Sud-Sud e Nord-Nord; la base di un nuovo coosviluppo, di una cooperazione sia economica che culturale basata sulla conoscenza e il rispetto reciproci.Non più rapina e competizione senza freni, ma cooperazione, in modo che davvero se ne possa guadagnare tutti, che si possano recuperare quei tre miliardi di esseri umani che sono oggi posti fuori mercato e creare a livello mondiale una rete di interessi tale da rendere improbabili guerre future.
La cooperazione, così come concepita oggi, pur in certi casi lodevole nelle intenzioni, è spesso dannosa o non ottiene grandi risultati o punta all’obiettivo finale della crescita e quindi è intrinsecamente nociva. Se è possibile trovare esempi di micro-realizzazioni andate a buon fine, questo risulta quasi impossibile a livello macro di interi Paesi o regioni. I deboli processi di industrializzazione realizzatisi o in corso non hanno prodotto lo sviluppo e la ricchezza sperati, perché non sono il frutto di un autosviluppo e perché si sono evoluti in maniera slegata dagli altri settori economici e sociali. Di conseguenza, l’economia ufficiale africana si basa ancora soprattutto sull’esportazione e, in particolare sull’esportazione di materie prime, che sono risorse non rinnovabili e con poco o senza valore aggiunto. Inoltre, la cooperazione spesso si rivolge all’Africa ufficiale, che risulta molte volte corrotta e non rappresentativa, non rispondendo davvero ai bisogni delle popolazioni ed alle richieste della società civile, e che indebolisce l’Altra Africa tentando di colonizzare l’informale.
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Infine, l’aiuto crea dipendenza economica e culturale soprattutto perché raramente è pensato per creare progetti durevoli e autosostenibili da parte dei suoi fruitori locali e perché non sempre ha come obiettivo quello di far riconquistare loro l’autosufficienza perduta, ma piuttosto di farli entrare nel mercato mondiale.
Si potrebbe obiettare che, in ogni caso, quando si tratterà di reperire fondi per i vari progetti, saranno i Governi e le organizzazioni dei Paesi più ricchi a procurarli. Vero fino ad un certo punto, infatti l’Africa è il continente più ricco di risorse ed è relativamente poco popolato, quindi ha un potenziale enorme, si tratta solo di lasciare ai popoli che la abitano la possibilità di attingervi e quindi di non essere più dipendenti da altri. In ogni caso, quando un progetto sarà finanziato da un organismo straniero, esso dovrà essere il frutto delle esigenze e delle richieste dei Governi e della società civile delle aree interessate. Oggi, molto spesso non è così e vengono costruite grandi strutture che non sono adatte al contesto e restano inutilizzate o vanno incontro a fallimenti flagranti o, anche quando si cerca di evitare questo meccanismo, il rapporto di forza, dopo la colonizzazione e decenni di aggiustamenti strutturali e cooperazione imposti, è tale che le richieste vengono formulate in base a quello che si sa che l’organismo occidentale si aspetta ed è disposto a dare.
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Allora, i progetti da sostenere sono quelli che puntano a riconquistare l’autosufficienza perduta, che siano autosostenibili ad opera di esperti locali e che spingano nella direzione di una dis-crescita. Mentre oggi la produzione per autoconsumo non è quasi considerata tale, in quanto essa non contribuisce alla crescita economica e del Pil.
la rivoluzione nel campo della cooperazione consiste nel passaggio, formale e sostanziale, dalla cooperazione allo sviluppo ad uno sviluppo della cooperazione.

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