mercoledì 31 dicembre 2014

festival mondiale delle resistenze e delle ribellioni

Una danza comune della dignità

by maomao comune
Al Festival mondiale delle Resistenze e delle Ribellioni, racconta Gustavo Esteva, sono venuti quelli che della rivoluzione hanno fatto un verbo. Sanno che non si tratta di pensarla, di immaginarla, di sognarla. Non si tratta di prepararla, programmarla e, pensate un po', non si tratta neppure di farla. Si tratta di viverla, la rivoluzione. Di sperimentarla giorno per giorno. Si tratta, come diceva Iván Illich, di vivere il cambiamento anziché dipendere dall'ingegneria sociale. Non c'è bisogno di occupare o distruggere gli apparati putrefatti della dominazione per sostituire gli amministratori statali perché ballino un'altra musica. Si tratta di ballare la nostra musica. Gli zapatisti dell'Ezln e gli indigeni messicani del Cni hanno convocato il Festival ma cedono la prima parola ai compagni e ai familiari degli studenti assassinati e desaparecidos della scuola normalista rurale di Ayotzinapa. La loro tragedia è il simbolo della rottura, del momento in cui è caduto il velo che occulta l'orrore in cui vogliono farci vivere. Per questo il Festival nasce nel dolore e per il dolore, celebra l'agonia di un sistema che corre verso la distruzione della società e del pianeta ma è anche una festa, una "danza comune della dignità"
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Primo Festival Mundial de las Resistecias y las Rebeldías contra el Capitalismo, nella comunità nahua de Amilcingo, Morelos. Foto Somos el medio
di Gustavo Esteva
È cominciato, infine, il primo Festival Mondiale delle Resistenze e delle Ribellioni contro il Capitalismo. Vi sono innumerevoli resistenze, ribellioni e lotte anticapitaliste, ma esistono molte e buone ragioni per affermare che questo festival è il primo nel suo genere.
È stato convocato nel dolore e per il dolore. La prima e più importante parola viene data a coloro che rappresentano il dolore di Ayotzinapa, che ha raggiunto una dimensione mondiale. E riguarda l’agonia di un sistema. Però è una festa, un’espressione della militanza gioiosa, non di un funerale.
In una lettera ad alcuni compagni argentini, più di dieci anni or sono, il defunto Sup, osservò "che la musica, il ballo, il cibo e il sentimento sono ingredienti fondamentali per la costruzione di quello che alcuni chiamano utopia". E ricordò che in Messico vi era gente decisa a "smascherare i potenti con una festa che alcuni sconclusionati chiamano sollevazione e che non è altro se non la danza comune della dignità. La danza nella quale l’essere umano sta, ed è umano".
Celebrare, diceva Ivan Illich, è un invito ad affrontare i fatti anziché battersi con le illusioni. È vivere il cambiamento invece di dipendere dall’ingegneria sociale. È scoprire "ciò che dobbiamo fare per usare il potere dell’umanità per creare l’umanità stessa, la dignità e il piacere in ciascuno di noi".
Dobbiamo introdurre il desiderio nel pensiero, nel discorso, nell'azione, come suggeriva Foucault, affinché esso dispieghi le sue forze nel campo della dominazione politica e diventi più intenso nel processo di ribaltare l’ordine costituito. Si tratta diintrecciare l’arte erotica, teorica e politica, per lottare contro il fascismo, in particolarecontro "il fascismo che è dentro tutti noi, nelle nostre teste e nel nostro comportamento quotidiano, il fascismo che è all’origine del nostro amore per il potere, del nostro desiderare proprio ciò che ci domina e ci sfrutta". Per essere militanti non è necessario essere tristi, diceva Illich, "anche se ciò contro cui sta lottando è abominevole".
"La disobbedienza civile non è un nostro problema", diceva Howard Zinn. "Un nostro problema è l’obbedienza civile". Il fatto che la gente segua gli ordini dei suoi leader che la portano alla guerra. Che obbedisca di fronte alla miseria, alla fame, alla stupidità e alla crudeltà. Che continuiamo a essere obbedienti "quando le carceri sono piene di piccoli delinquenti, mentre invece i grandi criminali sono liberi e continuano a derubare il paese. Questo è il nostro problema".
E sebbene queste note di fine anno siano diventate la casa delle citazioni, ne aggiungo un’altra, di Teodor Shanin: "Finché c’è scelta, c’è speranza. Fin quando c’è speranza, la gente cerca la verità, sogna un mondo migliore e lotta per costruirlo. Finché la gente cerca, sogna e lotta, c’è speranza".
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Foto: Fabiola Gutierréz Quiroz/Somoselmedio.org
Il festival oggi è costruito attorno ad Ayotzinapa perché è chiaramente il simbolo della rottura e della commozione, il momento in cui è stato tolto il velo che occulta. È certo che molti chiudono di nuovo gli occhi, si tappano le orecchie, non vogliono sapere. Alcuni lo fanno per paura. Altri per avidità, per interesse. Altri ancora per l’angoscia, per disperazione, perché non possono evadere dalle loro prigioni mentali o politiche.
Ma vi sono molti e molte altre, milioni di persone, che rifiutano di chiudere gli occhi.Non vogliono, non possono né devono restare tranquilli e tranquille.
Sono venuti al festival coloro che della parola rivoluzione hanno fatto un verbo. Sanno che non si tratta di pensare la rivoluzione, di immaginarla, di sognarla. E neppure di prepararla, programmarla o perfino di farla. Si tratta di viverla, di sperimentarla giorno per giorno.
Il verbo rivoluzionare esprime quella capacità amorosa e gioiosa che tutti e tutte abbiamo quando trasformiamo il dolore e la degna rabbia in ribellione e così facendo costruiamo il cammino dell’emancipazione. Rivoluzionare significa che ormai sappiamo che non c’è bisogno di leader, piattaforme, partiti, strategie o programmi rivoluzionari. E che non si tratta di occupare o di distruggere gli apparati putrefatti della dominazione, di conquistare il "capitale" come se fosse una cosa e non una relazione, di sostituire i suoi amministratori statali, perché questi apparati ballino un’altra musica, la nostra, per esempio, quella di coloro che abbiamo issato su per occupare il posto di coloro che abbiamo scacciato...
Si tratta di ballare la nostra musica, certo, non quella che ci viene suonata da altri; ma bisogna farlo qui in basso, fra quanti abbiamo imparato che lottare è come respirare e che possiamo respirare o vivere solo lottando per costruire un mondo nuovo. Oggi. Qui. Ogni giorno. Ogni notte. Come ha detto il subcomandante Moisés: "Qui in basso, ogni giorno, siamo sempre più numerosi a impegnarci a lottare, senza chiedere scusa per essere ciò che siamo e senza chiedere il permesso per esserlo".
fonte: la Jornada. Titolo originale: La resistencia a obedecer
traduzione per Comune-info: Camminar domandando
Gustavo Esteva vive a Oaxaca, in Messico. I suoi libri vengono pubblicati in diversi paesi del mondo. In Italia, sono stati tradotti: «Elogio dello zapatismo», Karma edizioni: «La Comune di Oaxaca», Carta; e, proprio in questi mesi, per l’editore Asterios gli ultimi tre: «Antistasis. L’insurrezione in corso»; «Torniamo alla Tavola» e «Senza Insegnanti». In Messico Esteva scrive regolarmente per il quotidiano La Jornada ma i suoi saggi vengono pubblicati anche in molti altri paesi. In Italia collabora con Comune-info.
Tutti gli altri articoli di Gustavo Esteva usciti su Comune-info sono qui
Un piccolo nucleo di amici italiani di Esteva, autodenominatosi “camminar domandando”, nei mesi scorsi ha stampato il testo della conversazione tenuta da Esteva a Bologna nell’aprile 2012 (i temi in parte sono gli stessi degli incontri tenutisi nell’occasione a Lucca, in Val di Susa, Torino, Milano, Venezia, Padova, Firenze e Roma):  “Crisi sociale e alternative dal basso. Difesa del territorio, beni comuni, convivialità”. (chi vuole, può scaricarlo su www.camminardomandando.wordpress.com).

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