lunedì 29 dicembre 2014

narrazioni di fraternità

Narrazioni di fraternità

by Citta invisibile
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Foto tratta da proyectomuralcomunitario.blogspot.com

di Alessandro Pertosa*
L’oikonomia è da sempre il luogo in cui vige la regola tremenda del dominio tirannico. Questa considerazione invalida l’idea, a dire il vero abbastanza diffusa nel mondo occidentale, che l’ingiustizia economica sia un fenomeno esploso di recente, dovuto magari all’accelerazione egoistica impressa, negli ultimi due secoli, dal capitalismo e dalla tecnologia a un sistema di relazioni umane che prima di allora si presentavano in modo tutto sommato soddisfacenti. Molti studiosi di economia, e critici del libero mercato, spesso di tradizione cristiana, socialista o filomarxiana, hanno sostenuto la concreta possibilità di organizzare lo spazio economico secondo le regole della equanimità e dell’uguaglianza, senza tendere allo sfruttamento del prossimo, ma alla condivisione dei beni e delle proprietà. Più d’uno ha pensato che fosse sufficiente liberarsi di Adam Smith e dei teorici del liberalismo, tornando magari a riproporre modelli economici già sperimentati in precedenza dai monaci cristiani o da altre civiltà arcaiche, per sconfiggere la tirannia dell’uomo sull’uomo teorizzata dal capitalismo. Qualche altro ha ritenuto che si potessero risolvere le disuguaglianze sociali recuperando magari un non meglio precisato «atteggiamento etico» in economia: è questa, ad esempio, la singolare idea di Amartya Sen, secondo cui l’economia moderna si distinguerebbe da quella antica per il fatto di essersi staccata proprio dall’etica, finendo per operare oggi senza alcuna tensione morale[1]. Ma una tale considerazione, e lo dico col massimo rispetto per l’autore, non ha alcun fondamento, perché se è vero che in epoca pre-industriale le riflessioni sulla finalità dell’agire umano si riferivano ad un orizzonte di valori diverso da quello maturato negli ultimi secoli, non è però affatto vero che il pensiero contemporaneo sia privo di un ethos riconoscibile: l’ethos, infatti, identifica linguisticamente l’abitudine, il costume, l’usanza di un popolo. E quindi anche la civiltà capitalista in cui viviamo ha una sua etica, per quanto basata sull’ego, sull’utile, sulla soddisfazione momentanea, sulla competizione, sullo scontro frontale fra i singoli individui, mossi da interessi lontani e divergenti[2]. Sicché, può non piacerci e si può certo rifiutare l’immaginario culturale in cui si iscrivono le proposte capitalista e tecnologica, ma non si può tuttavia affermare che l’orizzonte cui si riferisce l’economia contemporanea sia privo di etica, né è lecito sostenere che all’interno del libero mercato si operi senza alcuna finalità[3]. Semmai si può notare quanto, rispetto ad alcune teorie economiche del passato, che puntavano alla condivisione dei beni e a una più equa ripartizione della ricchezza, l’etica attuale – che sorregge appieno la gloria tirannica dell’economia tecnologica – corrisponda in modo più netto alle logiche economiche di dominio. E questo, lo vedremo, è chiaramente un problema che pone interrogativi etici. Ma appunto pone interrogativi etici perché attiene in un certo qual modo all’etica, attiene a un’etica violenta che propongo qui di superare con la carità amorevole e con la corresponsione reciproca di beni e servizi.
Si tratta allora di capire che per delineare un nuovo immaginario è necessario organizzare lo spazio secondo relazioni depotenziate e non violente. Ma per mettere sul serio in crisi la razionalità violenta dell’economia è buona cosa imparare dagli errori già commessi in passato, onde evitare l’inutile riproposizione di modelli falliti e già superati. Nel corso dell’esposizione, dovrò quindi tener conto del fatto che i sostenitori dell’eudaimonia greca, della condivisione cristiana e dell’equità socialista e marxista, nel corso dei secoli hanno tentato in ogni modo di arginare la mostruosità del dominio economico, che si è rivelato però inarrestabile. Infatti, dopo aver rotto gli argini di quelle etiche buone che proponevano modelli culturali e finalità volti a una maggiore giustizia distributiva, l’economia si è strutturata nel tempo sempre più secondo modalità relazionali di stampo egoistico-materialistico. Ciò si spiega col fatto che ogni cosa corre verso il suo luogo naturale, e così come gli oggetti pesanti cadono verso il basso, quelli leggeri volano in aria. E allora, per quanto l’uomo tenti di arginare il fiume in piena dell’economia con trovate più o meno egualitarie, il flusso del dominio tirannico scorre da secoli incurante degli ostacoli che ha trovato sul suo cammino. Per alcuni periodi si è magari inabissato come un fiume carsico per poi risalire in superficie, qualcuno ha anche tentato più volte di irreggimentarlo in un percorso di giustizia, ma alla fine la sua propensione originaria è riemersa con violenza, ha spezzato gli argini fino a raggiungere l’obiettivo della normalizzazione tecnologica del mondo. Credo sia onesto prenderne atto.
dall-economia-all-euteleia_645Ad oggi, tutto ciò che concerne l’umano rientra nel campo della valutazione commerciale e tecnologica. I rapporti non mercantili si sono ridotti all’osso; si corre sempre di più per ridurre lo spreco di tempo, che è denaro; vendiamo e compriamo servizi in continuazione quando solo pochi decenni fa ce li scambiavamo gratuitamente[4]; accettiamo senza battere ciglio la drastica riduzione dei diritti dei lavoratori ottenuti dopo lunghe battaglie civili, perché non scorgiamo alcuna reale prospettiva alla competizione umana e al modello tecnologico-capitalista; rimaniamo nel più rigoroso silenzio quando i signori del dolore ci dicono che questo è il migliore dei mondi possibili e dobbiamo quindi rassegnarci a vivere una vita intera da sottoposti;lavoriamo gran parte della nostra vita per guadagnare dei soldi che dobbiamo poi spendere per mantenere in vita il «sogno» – ormai divenuto incubo – della crescita infinita. E nonostante la massa di sfruttati aumenti a vista d’occhio ogni giorno, non si scorge all’orizzonte alcuna reazione al sopruso.
Sicché non ho potuto fare a meno di chiedermi quale fosse la ragione, la causa principale, di tutto ciò. Perché nessuno, neppure fra gli sfruttati, riesce più a contrapporre una visione radicalmente altra rispetto alla cultura dominante? Per quale motivo dinanzi all’ideologia tecnologico-capitalista si resta tutti in silenziosa venerazione, quasi fosse ineluttabile per l’umanità intera vivere secondo logiche relazionali di dominio sociale? E soprattutto, come è stato possibile che nessuno abbia compreso per tempo che ben prima del capitalismo l’orizzonte economico era già segnato dall’ingiustizia, presente in Grecia due millenni e mezzo fa, quando si cominciò per la prima volta a strutturare lo spazio umano secondo la logica violenta dell’oikonomia? Tutte queste domande ne racchiudono un’altra, che arriva in ultimo, ma non per ultimo. Se il dominio e l’ingiustizia regnano sovrane e indisturbate da millenni, con un’accelerazione repentina negli ultimi due secoli, e se la massa di dominati è sempre più ampia e tuttavia priva di prospettive, perché la reazione alla violenza sistematica, perpetrata da un’esigua classe di dominatori su una massa ampia di dominati, tarda ad arrivare? In altre parole, come è stato possibile spingere al sonno completo della ragione un’intera civiltà, e soprattutto quali sono le cause sociali, politiche e culturali che hanno determinato in ogni singolo sfruttato l’annullamento totale della propria coscienza critica?
Per ora la risposta, che verrà elaborata e giustificata con maggiore complessità nelle pagine di questo saggio, può essere resa sinteticamente così: nel corso del tempo, l’élite dominante ha capito che per vincere definitivamente la partita non era sufficiente controllare soltanto i corpi dei dominati, come è avvenuto dal V-IV secolo avanti Cristo fino alla modernità preindustriale, ma ad un certo punto l’élite ha ritenuto necessario arrivare a conquidere le menti e gli spiriti di coloro che si voleva restassero ultimi fra gli ultimi. Sicché l’ideologia del dominio economico ha davvero cominciato a scorgere la sua piena possibilità di realizzazione nel momento in cui il dominato non ha più avuto la percezione di essere realmente tale. E quindi nel momento in cui la «classe» dominante è stata davvero in grado di convincere i sottoposti del fatto che non vi fosse alcuna differenza materiale, culturale, né sociale fra gli individui, l’immaginario ormai dominato dall’idea di uniformità si è a quel punto popolato lentamente di visioni e concetti globali indifferenziati, utili al sistema per riprodurre a piacere le solite relazioni di potere, mascherate qui tuttavia da progresso e civiltà.
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Ma a questo punto dovremmo anche domandarci con quali argomenti l’élite sia riuscita a far passare l’idea di questa uniformità fra i singoli componenti della società. E la risposta, per quanto mi riguarda, è una sola: la «proprietà». Sì, proprio la «proprietà» che sta a cuore tanto ai dominatori quanto ai dominati. E non parlo soltanto della proprietà privata, ma della proprietà in senso lato, della proprietà come concetto, come la pretesa che un Io o un gruppo di Noi esprime nel momento in cui sostiene il diritto di disporre di un bene naturale o di un terreno. E la proprietà è la base su cui poggia il «male radicale» del nostro tempo: la competizione. E si compete per acquisire proprietà, per aumentare il proprio potere dispotico e scalare posizioni in società. Al fondo di questo ragionamento resta appunto la pretesa di considerare la proprietà come naturale, ineliminabile, ovvia.
Chi, per vie solitarie, cerca di tirare fuori la testa dalla sabbia e propone soluzioni alternative alle modalità di vita contemporanee, magari attraverso l’esodo dalla società dei consumi, viene considerato un barbaro reazionario con istinti primordiali, che desidera tornare a vivere nelle caverne. Ma nulla è più falso e più miope di questa considerazione.Si tratta di capire soltanto che si può vivere meglio fuori dall’orizzonte economico(inteso in senso generale e non solo nella specifica forma capitalista o tecnologica). Per farlo è necessario delineare un nuovo immaginario, formulare una cultura alternativa a quella dominante, elaborare narrazioni di fraternità e di condivisione reciproca dell’essere lontane dall’ideologia tecnologica, che rappresenta solo il colpo di coda di un percorso di dominio cominciato in Grecia duemila e cinquecento anni fa.
Certo, è pur sempre plausibile, come è avvenuto anche in passato, che persino stavolta restando immobile e passiva l’umanità sarà in grado di uscire in qualche modo da questa crisi che sconquassa i mercati del mondo occidentale. Ma nessuno è ora capace di prevederne la modalità. Ad oggi, si può solo constatare che l’economia capitalista è un fiume in piena. È un fiume che ha rotto gli argini e sta devastando tutto ciò che incontra. Non saprà, né potrà controllare da solo la propria violenza e per questo motivo è necessario fermarlo in tempo e recuperare culturalmente il senso del limite. In tal modo il corso d’acqua rientrerà al di sotto della soglia di guardia e i rischi di esondazioni distruttive saranno ridotti al minimo. Ma l’obiettivo non può essere raggiunto pienamente fin quando il letto del fiume non viene trasformato del tutto: perché se l’acqua continua a scorrere nel solco tracciato dai greci sulla linea del dominio tirannico, il rischio di nuovi straripamenti sarà sempre dietro l’angolo. C’è bisogno, allora, di allargare il letto del fiume e di costruire un mare calmo, tranquillo, che non sia soggetto a correnti o a forze catastrofiche. C’è bisogno di popolare l’immaginario di nuove idee, di speranze, di condivisioni, di relazioni comunitarie e non mercantili; c’è bisogno di incarnare personalmente una cultura che sia altra cosa rispetto al pensiero economico. C’è bisogno, quindi, di nuova linfa e nuova acqua per dar vita ad un mare calmo che propongo qui di chiamare eutéleia. L’eutéleia è uno scopo libertario e an-ideologico a cui ognuno si avvicina con pratiche di decrescita e di anarchia. Eutéleia (dal greco εὐτέλεια) significa letteralmente frugalità, semplicità, parsimonia, a buon mercato. Il termine esprime quindi il senso di qualcosa che si fa con misura e senza eccessi, rispettando i limiti e le condizioni naturali.

Questo testo è il preludio del saggio Dall'economia all'eutéleia. Scintille di decrescita e d'anarchia (Editori riuniti). http://www.editoririuniti.it/libri/dall-economia-all-euteleia.php
* ... Alessandro Pertosa
Note
1. Cfr. A. Sen, Etica ed economia, Editori Laterza, Roma-Bari 2001 (titolo originale, On Ethics and Economics, Basil Blackwell, Oxford 1987).
2. Si tratta di capire, allora, che se si vogliono mettere davvero in discussione il capitalismo e la sua razionalità, è necessario prendere atto che il capitalismo stesso non nasce dal nulla, ma è il frutto di un pensiero, di una cultura, di una filosofia che ha uno scopo, ha obiettivi pratici, ha interessi, ha desideri che rimandano tutti a un ethos, a un modo di sentire condiviso. E allora, chi oggi, in posizione critica rispetto all’ideologia dominante, non coglie questo aspetto, invece di avversare il potere dispotico esercitato dai dominatori sui dominati, rischia di fare un buco nell’acqua e continua a non capire qual è il fondamento su cui poggia la società contemporanea.
3. l medesimo errore prospettico di Sen viene ripetuto da Francesco Totaro, che impiega molte pagine del suo Non di solo lavoro per ribadire l’idea che in epoca recente gli ambiti dell’economia e dell’etica si sono allontanati, e che «senza lo scorporamento dall’etica e dalle sue regole, l’economia non si costituisce nello statuto proprio assunto nella modernità» (F. Totaro, Non di solo lavoro, Vita e Pensiero, Milano 1998, p. 246).
4. Sulla necessità di rivedere i parametri della crescita su cui si fonda la nostra società ha diffusamente scritto Maurizio Pallante. Della sua vasta produzione saggistica indico qui i due testi che ritengo più significativi: M. Pallante, Le tecnologie di armonia, Bollati Boringhieri, Torino 1994; M. Pallante, La decrescita felice, Edizioni per la decrescita felice, Roma 2012.

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