Eritrei, i dimenticati della terra. Le terstimoninaze agghiaccianti di chi fugge alle bande di trafficanti di esseri umani
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Gli ultimi fra gli ultimi. Senza neanche l’onore” dei riflettori internazionali che si accendono, a intermittenza, a Gaza, a Gerusalemme, nella martoriata Siria o sul Califfo Ibrahim e i suoi tagliagole. Se non finiscono sui fondali del Mediterraneo, non fanno notizia. Sono i “dimenticati della terra”: gli Eritrei. Centinaia di migliaia di disperati che fuggono da uno dei regimi più repressivi al mondo. Finendo nella mani avide e insanguinate dei trafficanti di esseri umani e dei loro organi.
Una comunità internazionale imbelle e distratta non ha nella sua agenda, neanche agli ultimi posti, il “caso Eritrea”. E a smuovere le coscienze dei Grandi della Terra non servono i sempre più allarmanti rapporti delle più impegnate agenzie umanitarie. Niente. In questi giorni, riguardando con alcuni operatori impegnati sul campo dell’assistenza ai “dimenticati della terra”, alcuni articoli che avevo scritto a suo tempo per l’Unità, c’è chi si è lasciato andare con una considerazione terribile: “Le cose sono rimaste così. Nulla è cambiato, se non i nomi di quei disperati”. Constatazione drammatica. Atto d’accusa nei confronti di chi può intervenire e non lo fa.
Ritrovo la testimonianza di una donna, una dottoressa coraggiosa: Alganesh Fessaha, eritrea, dell’organizzazione non-governativa Gandhi. “Non solo eritrei, anche etiopi, somali e persone di altre nazionalità sono in grave pericolo, dopo aver vissuto per mesi nei lager Sinai. Persone che per svariati motivi – racconta - la maggior parte perché perseguitati dai dittatori nei loro Paesi, hanno lasciato affetti e radici alla ricerca di un posticino per poter continuare a vivere, diritto legittimo di ogni persona. Sono stati venduti ai trafficanti di uomini dalle guide a cui si erano affidati mentre attraversavano il Sinai per raggiungere Israele".
Trafficanti crudeli, senza alcuna pietà. Donne stuprate davanti ai figli e i loro compagni, uomini e donne, e anche minori, torturati anche fino alla morte dai loro aguzzini. Mentre le vittime erano sotto tortura, i trafficanti di uomini chiamavano le famiglie delle vittime per estorcere denaro; riscatti altissimi, fino a 50.000 – 60.000 dollari, generalmente pagati da parenti lontani in Europa, Usa, Canada ecc. Chi non poteva pagare, spesso veniva ucciso, oppure sottoposto all’espianto degli organi, immessi poi nel mercato nero del traffico di organi.
“Quando chiamano per chiedere i soldi del riscatto – aggiunge ancora la dottoressa Fessaha - i prigionieri vengono picchiati, viene loro versata addosso dell’acqua, poi viene attaccata la corrente così che le scosse elettriche li facciano urlare di più". Oppure, per farli gridare, li bruciano con plastica fusa, benzina e acidi. Sentendone le urla e le richieste disperate di aiuto, i parenti raccolgono tutto il denaro che riescono a racimolare indebitandosi, se necessario, o chiedendo aiuto ad altre famiglie. Il pagamento avviene tramite i circuiti internazionali del money transfer.
Sono passati alcuni anni da questa testimonianza, ma nulla, nulla è cambiato. Il regime di Asmara sarebbe coinvolto in prima linea nel traffico di essere umani diretto verso l’Egitto. Ad affermarlo è un rapporto delle Nazioni Unite, secondo il quale il governo eritreo chiuderebbe entrambi gli occhi di fronte al rapimento di uomini e donne del proprio Paese, molto spesso minorenni.
La maggior parte dei rapimenti accadrebbe nel campo profughi di Shegarab, un grande campo dell’Unhcr (l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati) dove spariscono decine di persone al mese: uomini e donne vengono rapite col benestare dei supervisori del campo, per poi essere affidati ai Rashaida, una tribù nomade, che li porterebbero nel deserto del Sinai, vero centro di smistamento di persone provenienti anche da altre zone dell’Africa.
Sarebbe quello il capolinea per la maggior parte dei rapiti: se riscattati (con una somma variabile dai 3 ai 6mila dollari) presumibilmente tornano nel loro Paese oppure, come la maggior parte delle volte, uccisi e i loro organi rivenduti in Occidente. Quel rapporto dell’Onu è datato 2012.
Da allora, nulla è cambiato. Nulla. Tranne un dato. Agghiacciante. Dal 2004, oltre 200mila eritrei sono scappati dalla repressione e dalla povertà in patria o dai campi profughi allestiti al confine etiope. In un rapporto presentato a Bruxelles si parla di 25-30 mila persone vittime del traffico in Sinai tra il 2009 e il 2013 - tra morti, scomparsi, sopravvissuti o detenuti.
Un ruolo chiave nei rapimenti lo svolge l’Unità eritrea di controllo dei confini, guidata dal generale Teklai Kifle: questi spesso rapiscono i giovani di 16 e 17 anni, costretti dal regime a completare il ciclo di studi prestando servizio militare per un anno nel campo militare di Sawa. Una volta sequestrati, gli eritrei vengono torturati e rinchiusi in prigioni sotterranee. Le donne vengono stuprate a ripetizione, spesso anche in pubblico, e ai genitori vengono fatte ascoltare le urla dei figli attraverso telefonate durante le sevizie. Per i giovani eritrei viene di solito chiesto un riscatto di 10.000 dollari.
Altri profughi, riusciti a fuggire dall’inferno del Sinai, etiopi ed eritrei, raccontano che i trafficanti beduini prendono in consegna gruppi di due-trecento persone per condurli in Israele, ma poi li rinchiudono in container e gabbie metalliche dove vengono picchiati, privati di cibo e acqua, sottoposti a torture, contusioni e scariche elettriche, appesi per i piedi o per le mani.
Una di queste sventurate, Fatima, aveva raccontato così la sua tragedia: “Non abbiamo acqua potabile - dice Fatima - dobbiamo bere l’acqua del mare e molti di noi già hanno problemi intestinali. Ci danno da mangiare una pagnotta e una scatola di sardine ogni tre giorni, siamo costretti a vivere incatenati come bestie”.
"Negli ultimi 13 anni in Eritrea non è cambiato nulla. È un Paese completamente militarizzato che non dà spazio, soprattutto ai giovani che possono sognare un futuro diverso da quello che il regime ha prospettato per loro, ovvero la vita militare fino a 50 anni. L’assenza totale di una prospettiva diversa, di una possibilità di realizzare i propri sogni, come poter continuare gli studi o lavorare dove si desidera, è inaccettabile. In aggiunta c’è totale assenza di qualsiasi libertà, di qualsiasi diritto. I giovani non vogliono essere trattati da schiavi di fatto, perché il servizio militare è diventato una schiavitù legalizzata. Ecco perché fuggono, vogliono avere un futuro diverso, senza rischiare la vita ogni giorno per qualcosa in cui non credono più". A sostenerlo è un prete coraggioso: don Mussie Zerai, responsabile della pastorale degli immigrati eritrei ed etiopi in Svizzera e fondatore della Ong Agenzia Habeshia.
Don Zerai, che vive tra Roma e la Svizzera, è diventato un riferimento per i migranti eritrei, che gli telefonano dalle situazioni più difficili. La mancanza di una politica per l’Eritrea da parte dell’Europa garantisce al regime autoritario di Isayas Afewerki, stabilmente al potere da oltre 20 anni, la legittimazione per reprimere ulteriormente la libertà di stampa, di opinione, di riunione e di credo religioso.
Ancora oggi l’Eritrea in tema di libertà di stampa è all’ultimo posto su 179 Paesi. Nel suo rapporto annuale del 2013, Amnesty International descriveva l’Eritrea come un Paese dove "l’arruolamento militare nazionale è rimasto obbligatorio e spesso esteso a tempo indeterminato". È rimasto obbligatorio anche l’addestramento militare per i minori. Le reclute sono state impiegate per svolgere lavori forzati. Migliaia di prigionieri di coscienza e prigionieri politici hanno continuato ad essere detenuti arbitrariamente in condizioni spaventose. L’impiego di tortura ed altri maltrattamenti è stato un fenomeno diffuso. Non erano tollerati partiti politici d’opposizione, mezzi di informazione indipendenti od organizzazioni della società civile. Soltanto quattro religioni erano autorizzate dallo Stato; tutte le altre erano vietate e i loro seguaci sono stati sottoposti ad arresti e detenzioni. Un anno dopo, nulla è cambiato. Se non in peggio.
Ultima annotazione. Sempre nel 2013, ispettori delle Nazioni Unite hanno accusato l’Italia di aver favorito il regime di Isaias Afewerki, fornendo elicotteri e veicoli utilizzati dalle forze armate di quel Paese, sottoposto all’embargo internazionale.
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