Cosa aspettarsi da Parigi: risultati al tempo stesso scontati, ambiziosi e sottostimati.
12 OTTOBRE 2015
A 50 giorni dall’inizio dei lavori della COP21, una riflessione su questo importante appuntamento i cui risultati saranno al tempo stesso scontati, ambiziosi e sottostimati.
Scontati, perché la maggior parte dei paesi arriva a Parigi avendo già definito i propri impegni. Ambiziosi, perché solo un anno fa l’adesione della Cina era tutt’altro che certa (l’accordo Usa-Cina sul clima è dell’11 novembre 2014).
Ma riteniamo anche che alcuni impegni sottostimino i risultati ottenibili: in paesi di strategica importanza, parliamo ad esempio di Cina e India, le riduzioni reali saranno infatti probabilmente ben più consistenti di quelle dichiarate.
Ma vediamo come si presenta ad oggi la situazione. Al primo ottobre, la scadenza indicata per la presentazione degli obiettivi di contenimento delle emissioni, erano pervenuti i programmi e i targets di 135 paesi. Per la prima volta, una vasta area del pianeta, responsabile del 78% delle emissioni totali, ha dunque definito un proprio percorso di contenimento della CO2. E non inficia l’importanza di queste adesioni (al momento mancano solo i paesi arabi produttori di petrolio) il fatto che le date di riferimento e i parametri utilizzati nel calcolo delle emissioni siano disomogenei a causa delle notevoli differenze dei contesti e della cautela con la quale molti paesi hanno affrontato questa scadenza.
Ma, quale sarebbe l’incremento di temperatura a fine secolo considerando gli obiettivi contenuti nelle dichiarazioni pervenute? L’accelerazione imposta dalla necessità di mettere la carte in tavola prima di Parigi potrebbe consentire di ridurre di 0,9 °C l’incremento di 3,5 °C stimato l’anno scorso. Cioè se tutti gli impegni annunciati verranno rispettati l’aumento a fine secolo sarà di +2,7 °C rispetto al 1750. Non siamo ancora ai 2 °C, o agli 1,5 °C, che sarebbero necessari, ma si intravvede finalmente un percorso globale di controllo delle emissioni.
Peraltro, come si diceva all’inizio, diverse analisi fanno ritenere che l’irruzione di “disruptive technologies” come il fotovoltaico o i veicoli elettrici consentirà di accelerare la decarbonizzazione di alcune importanti economie.
Prendiamo il caso della Cina che si è impegnata a raggiungere il picco delle emissioni nel 2030. La rapidità dei cambiamenti in atto, segnalati dal taglio del 6% del consumo di carbone nella generazione elettrica negli ultimi 12 mesi, consentirà di anticipare la riduzione delle emissioni climalteranti già tra il 2020 e il 2025. L’accelerazione in atto è visibile anche in altri settori dell’economia cinese, come esemplifica la proposta di realizzare punti di ricarica elettrica in tutti i nuovi edifici cinesi per facilitare la gestione di 5 milioni di auto elettriche al 2020.
E una analoga riflessione vale per l’India dove stanno decollando impressionanti programmi di crescita delle rinnovabili.
Ma anche sul fronte dei paesi più virtuosi si moltiplicano le decisioni volte a rendere sempre più incisive le riduzioni di gas climalteranti.
E’ il caso della Danimarca e della Svezia che hanno deciso di diventare totalmente fossil free, o della California che entro il 2030 punta ad avere il 50% della elettricità da rinnovabili e a raddoppiare i risparmi di energia negli edifici.
E non va dimenticato il ruolo fondamentale che potrà essere svolto dalle città. Sono almeno tre decenni che migliaia di Comuni di tutto il mondo sviluppano scenari, elaborano programmi e mettono in atto iniziative per ridurre le emissioni. Uno sforzo che ha visto un’accelerazione negli ultimi anni e che verrà potenziato dal raggiungimento di un accordo a Parigi.
Lo stesso si può dire per il progressivo coinvolgimento del mondo delle imprese. Nel mondo sono infatti ormai più di 1.000 le grandi società che effettuano le loro scelte, o lo faranno nei prossimi due anni, considerando il valore delle emissioni di CO2. Questa interiorizzazione del prezzo del carbonio nella definizione delle strategie interne anticipa le scelte politiche dei governi che tenderanno ad estendere sempre di più programmi di ETS o a introdurre delle carbon tax.
E l’Italia? Dopo gli Stati Generali sul clima del mese di luglio, è sceso il silenzio. Nemmeno il Green Act, annunciato per marzo, ha visto finora la luce. Proprio mentre in tutto il mondo fioriscono iniziative e proposte, sul versante climatico il nostro paese non esprime una strategia.
La cosa sorprende, tanto più considerando lo stretto legame che può stabilirsi tra le politiche per la riduzione delle emissioni e quelle per contrastare la disoccupazione (pensiamo solo ai risultati conseguibili passando alla riqualificazione “spinta” di interi edifici).
Del resto, allargando lo sguardo alle implicazioni globali del riscaldamento del pianeta, l’aspetto più interessante della lotta ai cambiamenti climatici è proprio lo stretto legame che esiste tra questo impegno e il contrasto alla povertà e alle diseguaglianze, un legame ben sottolineato nell’enciclica di papa Francesco.
Gli impatti climatici si stanno già manifestando con particolare forza nelle aree più deboli incapaci di difendersi dalle siccità, dalle alluvioni, da cicloni e tifoni, tutti elementi che in alcuni casi già spingono le popolazioni disperate a lasciare le proprie terre, a trasformarsi in migranti.
Una ragione in più per rafforzare l’impegno di riduzione delle emissioni. E Parigi, in questo senso, rappresenterà un significativo passo in avanti. Cui seguiranno, sotto l’incalzare di devastanti impatti climatici, decisioni sempre più radicali.
Nessun commento:
Posta un commento