di Caterina Amicucci
"Mi ricordo che nel 1975 arrivarono delle persone nella comunità con degli zaini, poi ho capito cosa erano gli zaini fino ad allora non li avevo mai visti. Ci dissero siamo qui per un progetto a beneficio di tutte le comunità" cosi' Jeronimo rievoca quasi quarant'anni dopo il principio dell'orrenda epopea della costruzione della diga del Chixoy, nella regione guatemalteca di Baja Verapaz.
Siamo negli anni Settanta e il Guatemala è nelle mani di una feroce dittatura instaurata due decadi prima in seguito a un colpo di stato sostenuto dalla Cia. La Banca mondiale e la Banca interamericana di Sviluppo approvano il progetto della megadiga del Chixoy a beneficio di un gruppo di imprese, fra le quali l'italiana Cogefar, poi Impregilo, oggi Salini-Impregilo
Quando le trentatre comunità indigene, da sempre insediate lungo il fiume Chixoy, iniziano a rivendicare i propri diritti il governo scatena, attraverso l'esercito e gruppi armati paramilitari, una brutale repressione, fatta di rapimenti, torture e omicidi di massa. Nel villaggio di Rio Negro vengono massacrate 444 persone.
Jeronimo è un attivista del Mar, il movimento latinoamericano contro la costruzione di grandi dighe. Negli ultimi dieci anni insieme agli altri sopravvisuti del Chixoy, e a una rete di organizzazioni internazionali, si è battutto non solo per ottener giustizia, ma anche per impedire che altre comunità venissero annientate per far spazio a nuovi progetti idroelettrici.
Dopo quasi venticinque anni, nel novembre 2014 il governo del Guatemala si è formalmente impegnato a risarcire le comunità massacrate durante la costruzione della diga Chixoy con 154 milioni di dollari e il 15 ottobre il vice-presidente ha distribuito 11.200 dollari a 120 famiglie vittime dei massacri. Un'altra tranche di 22 milioni di dollari verrà distribuita altre 206 famiglie.
Un pugno di dollari il cui valore è esclusivamente politico, il riconoscimento delle responsabilità del governo in un eccidio di massa grazie a tre decadi di lotta per ottenere verità e giustiza.
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Jeronimo, che in questa lunga intervista ricostruisce lo sterminio della sua famiglia, si è salvato scappando in montagna con suo fratello dove è rimasto nascosto per tre lunghi anni.
«Siamo scesi dalle montagne perchè non avevamo più cibo ed eravamo braccati. Sono andato a Ixcan. Ixcan è lontano da Rabinal, ho impiegato trenta giorni per arrivarci a piedi [...]. Quando arrivo a Ixcan mi dico, ora sono salvo, il mio contributo sarà ottenere giustizia per quello che ci è successo. Non è andata così. Nel 2005 cominciano a parlare della diga di Xalalà, e il dicorso del governo è "Sarà uguale al Chixoy", questo mi ha gettato nella disperazione...».
A oggi l'impianto idroelettrico di Xalalà non è stato ancora costruito e la lotta indigena prosegue.
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Nota: il racconto di Jeronimo è stato raccolto attraverso un'intervista di circa ottanta minuti, quella che pubblichiamo è una difficilissima sintesi del racconto. |
giovedì 29 ottobre 2015
Mi chiamo Jeronimo e vengo da rio negro
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