Cronache ai margini di Marte: i giorni dell'ILVA
Enzo Pellegrin
22/10/2105
Nel primo giorno del processo ILVA, l'aria non è stata diversa dalle molte respirate in questi anni. Troppo piccola l'aula per ispirare speranza di giustizia, toghe nere ammassate come corvi intorno ad un mucchio di mais, i sospiri delle parti profane ad uno spettacolo di cui non comprendono la trama.
L'aria nuova si respira sempre fuori dei Tribunali.
Il primo incontro con le vittime dell'ILVA è arrivato invece puntuale in uno dei loro presidi, fuori dal palazzo di giustizia tarantino.
Se dentro le mura queste donne e questi uomini sono sopraffatte da un ambiente ostile, qui fuori regna una dignitosa determinazione: l'ostinazione di chi lotta non solo per se stesso, ma per far conoscere, far capire, condividere.
Per ogni lavoratore passato tra gli altiforni, per ogni cittadino che si è addormentato nelle case rosse di inquinamento e sofferenza, ogni presidio, ogni manifestazione, ogni blocco è una piccola Stalingrado.
Il giorno del processo contro i Riva non è diverso: la soddisfazione di vedere sul banco degli imputati quelle voci che sono per l'operaio spesso cilicio di paura e d'insonnia.
Oggi non sarà così: nessuno degli imputati è presente.
Il processo scandisce veloce una sua trama burocratica ed approda un rinvio.
Dopo c'è l'ILVA.
Vista per la prima volta, sembra veramente una città accanto alla città.
Da lontano, scorrendo con l'auto le sue recinzioni, si impone la mole degli altoforni, l'infinito nastro trasportatore che lega la fabbrica al porto come un gigantesco cordone ombelicale, gli altissimi camini danno un illusione di muezzin, ma non è altro che la sirena del turno pomeridiano.
La prima porta è rossa di bandiere dello Slai Cobas. Un compagno operaio è giunto dal norditalia per gridare al megafono l'importanza del processo: chi si ferma, chi sospira, chi ha paura persino di guardare. I volantini e le bandiere del sindacato hanno invaso persino la guardiola: il volto della guardia una colata d'indifferenza.
Tutta l'ILVA diffonde all'esterno un teatro di dismissione: alle porte vetri rotti, spazzatura ovunque, ruggine sulle strutture. Pare di entrare in una fabbrica del terzomondo. Eppure qui entrano ogni giorno nei vari turni più di quindicimila operai, un numero che nei cimiteri industriali del Nord appartiene ad un passato leggendario.
Andiamo alla seconda porta: anche qui la dismissione è ovunque, ma fuori dell'ingresso un vero e proprio improvvisato mercatino aspetta gli operai all'uscita: c'è il banchetto delle cineserie, ma sorprendentemente c'è quello della frutta, i ricambi per l'auto e per la casa, e persino un banchetto del pesce, con la merce refrigerata in semplici bacinelle d'acqua. Tra muri e recinzioni diroccate e sporche si stendono al sole cani randagi in attesa di qualche avanzo. Un mondo di miseria e precarietà dove nulla di più del minimo necessario viene concesso a chi lavora. La massimizzazione dello sfruttamento della vita umana si sente nel paesaggio, nell'ambiente e sulla pelle in modo quasi fisico. L'ILVA sembra comprendere nel suo squallore i diversi gironi e stadi dello sfruttamento capitalistico nelle sue forme di peggiore squallore. Ci viene indicata da lontano la famigerata palazzina LAF, dove i padroni dell'ILVA confinavano i capisquadra che non si assoggettavano a diventare aguzzini, gli esuberi che non accettavano i demansionamenti e le riduzioni di salario. Venivano destinati ad uffici provvisti solamente di un tavolo, una sedia, niente telefoni, nessun contatto con l'esterno o cogli altri operai.
All'ora di mensa la direzione mandava un minibus a prelevare i dipendenti portandoli ad un settore separato della mensa, per impedire ogni contatto con altri lavoratori. C'è chi ha dato di matto - ci viene raccontato. Non si fa fatica a crederlo. Il caso della palazzina LAF è uno dei pochi in giurisprudenza dove si è condannato per tre gradi di giudizio un'odioso comportamento vessatorio definito "mobbing di massa", uno dei pochi casi in cui si è inflitto a Emilio Riva oltre due anni per fatti di violenza privata ai danni di un numero imprecisato di lavoratori (1).
Il peggio del peggio ha soffiato contro le vite dentro l'ILVA. Dai veleni alle angherie, dallo squallore alla cattiveria più odiosa.
Percorrendo la strada del lungo acquedotto romano, sempre a lato delle recinzioni dell'impianto, si giunge al famoso quartiere Tamburi: il quartiere ghetto del bel documentario di Danilo Lupo (2), a fianco degli enormi "parchi minerali" dell'Ilva, dai quali soffia il vento rosso dei metalli pesanti che si deposita sulle case, sui balconi, colorandole di una letale ruggine rosa che porta la morte. Col tempo il colore adottato per le case ha copiato quello della ruggine. Tanto valeva dipingerle color dello sporco: l'arte imita la natura, ma una natura stuprata ormai maligna e velenosa. Parliamo con il barista della piazza di fronte alla Chiesa, nello slargo di via Orsini. Già il padre serviva qui il caffè dalla costruzione del quartiere popolare, negli anni cinquanta. L'allora Italsider venne qui nel '58 ed aprì nel '60. Ci spiega che il nome del quartiere già ha origine dall'opera dell'uomo. Con la costruzione dell'acquedotto romano, il trasporto dell'acqua generava rumori sordi, come un battito di tamburo, per questo si diceva "andare ai Tamburi".
Ma oggi il rullo dei Tamburi è quello della protesta: anche qui le persone emanano dignità e determinazione. La si vede e si sente nel loro sguardo, allorché ci vedono raccogliere colle dita quella polvere rossa, quasi a rimproverarci di un turismo fuori luogo. Non basta toccare e vedere: serve che ti unisci alla nostra lotta; questo è il chiaro messaggio. Di spettatori sono piene le trasmissioni, qui noi abbiamo piene le tombe del cimitero di San Brunone, rosso anche lui, ma non di vergogna. Su queste tombe, chi è rimasto vivo, battaglia come un leone per un futuro dove lavoro e salute non siano una concessione del profitto, un mondo da dove quel profitto e quei profittatori siano un giorno cacciati. Non ci sono visionari a Taranto, nelle linee dell'ILVA o a Tamburi, ci sono assetati dell'unica giustizia vera, quella sociale.
Note:
1) http://dirittolavoro.altervista.org/mobbing_laf_casspen_31413_06.html
2) http://tpress-emma.blogspot.it/2013/10/il-rullo-dei-tamburi-viaggio-nel.html
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