Le voci delle comunità indigene in India
Navajo dell’Arizona e tatari della Crimea, masaai delle pianure kenyote e buriati del lago Bajkal, pigmei ugandesi e Sateré-Mawé dell’Amazzonia: vengono davvero da ogni angolo di mondo i 600 delegati che si preparano a partecipare aIndigenous Terra Madre 2015, il primo evento di Slow Food interamente dedicato alle popolazioni indigene.
Organizzata per la prima volta nel 2011 dal popolo Sápmi a Jokkmokk, in Svezia, la manifestazione internazionale riunisce rappresentanti delle comunità autoctone di tutto il mondo per celebrare le diverse culture alimentari e la biodiversità locale.
Quest’anno l’appuntamento si tiene dal 3 al 7 novembre a Shillong, località dell’India nordorientale nella regione di Meghalaya. Vi prendono parte i rappresentanti di oltre cento tribù e comunità indigene di tutti i continenti, per la precisione 14 Stati africani, 17 dell’Asia, 8 Paesi europei, 12 nazioni americane e 7 dell’Oceania.
La seconda edizione di Indigenous Terra Madre si presenta con il titolo “The Future We Want: Indigenous Perspectives and Actions”. Al centro del confronto i temi della sovranità alimentare, i modelli alternativi di produzione alimentare sostenibile, l’importanza dei saperi tradizionali, il diritto alla terra minacciato dal land grabbing, la diversità delle lingue indigene e la conservazione dell’agrobiodiversità.
Problematiche che i popoli indigeni si trovano ad affrontare a ogni latitudine, come ben sanno gli Juruna brasiliani, spodestati dalle loro terre in seguito alla costruzione di una delle più grandi centrali idroelettriche del mondo: oggi i circa 250 membri della tribù del Mato Grosso producono il cibo che consumano e lottano per fermare la deforestazione della regione.
Ma ovunque si possono trovare comunità che non rinunciano a rivendicare la propria identità linguistica e culturale. Tra il nord del Kenya e il sud dell’Etiopia vive il popolo Watta: cacciatori e raccoglitori per tradizione, i Watta hanno rischiato di disperdersi per sempre quando il governo kenyota ha proibito la caccia sui loro territori storici. La comunità ha saputo però reinventarsi nella pastorizia, senza dimenticare la cultura e le usanze tipiche.
In Kenya vive anche la comunità Mwireri, sulle cui terre è ospitato il santuario naturale Porini, un punto di riferimento per cacciatori-raccoglitori indigeni, piccoli agricoltori e allevatori. Il clima di convivenza che vi si è instaurato è sopravvissuto perfino alle violenze scatenatesi nel 2007-2008 dopo le elezioni politiche, quando la comunità ha dovuto lasciare le aree più colpite dalle tensioni. Forti della loro esperienza come produttori di miele e coltivatori, gli indigeni locali collaborano ora con Slow Food Kenya nella formazione di un Presidio.
In un contesto del tutto diverso opera invece la californiana Intertribal Native Community, formata da nazioni tribali degli Stati Uniti, del Canada e del Messico che, a causa degli spostamenti forzati o dell’urbanizzazione, si trovano oggi a vivere in contesti metropolitani. Questa associazione affronta sfide senza precedenti nel preservare e diffondere il patrimonio culturale dei nativi del Nord America, lavorando insieme ai produttori biologici, alle università e ai centri ricreativi per assicurare un futuro ai primi abitatori del Nuovo Mondo.
Quelle che abbiamo fin qui citato sono solo alcune delle realtà che si ritroveranno a novembre nel cuore di una delle aree più ricche al mondo dal punto di vista della diversità biologica e culturale, il Nordest indiano. Ad accoglierle troveranno 41 villaggi e comunità del cibo della regione di Meghalaya, che hanno voluto affiancare al nome ufficiale della manifestazione anche la denominazione in lingua Khasi: International Mei-Ramew 2015, dove Mei-Ramew sta per Terra Madre. Un modo per sottolineare l’importanza di Indigenous Terra Madre come evento pensato dalle comunità indigene per le comunità indigene.
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