venerdì 31 luglio 2015

la paura del lavoro

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Chi ha paura del lavoro?

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C'è un grande rimosso nella politica italiana: è il tema della progressiva e apparentemente inesorabile dismissione del patrimonio industriale del nostro Paese. Accettato come un dato quasi naturale e quindi indiscutibile, insindacabile.
Da una parte la lunga teoria di privatizzazioni e di svendite delle industrie pubbliche, che negli ultimi vent'anni ha smontato pezzo dopo pezzo il patrimonio industriale pubblico regalandolo o cedendolo a prezzi ridicoli a investitori privati. Da Telecom ad Alitalia, da Enel ad Ansaldo, da Eni ad Autostrade.
Dall'altra parte la cessione, all'interno di strategie di mercato guidate dalla vecchia e semplice regola del massimo profitto, di quote significative di controllo di gruppi industriali italiani a società o holding straniere. L'ultima è Italcementi, diventata tedesca pochi giorni fa per oltre 1 miliardo e mezzo di euro. Quasi sempre queste operazioni, vantaggiose per il capitale italiano che vende, si concludono con un ridimensionamento quantitativo della forza lavoro: esuberi, licenziamenti, delocalizzazioni e conseguenti chiusure di stabilimenti e punti vendita.
Tutto questo - giova ricordarlo - dentro un quadro economico e produttivo che frana ogni mese di più.
Basterebbe frequentare di più le nostre province del Nord e contare i capannoni delle piccole e medie imprese che chiudono, ascoltare i lavoratori in mobilità e in cassaintegrazione. E poi scendere al Sud: intere regioni - come ci dice il rapporto Svimez dei giorni scorsi - a rischio desertificazione industriale. Regioni da cui si emigra, nelle quali si è sempre più poveri (+40% di famiglie povere nell'ultimo anno) e senza lavoro (il numero degli occupati è tornato al livello del 1977). Regioni nelle quali gli investimenti si dimezzano in cinque anni e i consumi delle famiglie crollano di quasi il 15% nello stesso periodo.
Bene, da qui si deve ripartire. Dall'urgenza di dotare il nostro Paese, dopo trent'anni, di una politica industriale seria, di una strategia nazionale in tema industriale, che individui le priorità e determini gli orientamenti, incidendo direttamente anche nella dinamica dell'occupazione. Farlo e porre in testa agli impegni di una nuova sinistra di governo questo assillo significa, allo stesso tempo, tornare a guardare da vicino la condizione del lavoro. Come si articola la classe lavoratrice, qual è la sua composizione, qual è il rapporto tra industria e innovazione, tra industria e digitalizzazione dei processi produttivi, tra industria e ambiente, tra sviluppo e natura, tra lavoro vivo e diritti, tra lavoro e salario.
Senza alcuna pretesa di dedurne leggi generali, senza commettere l'errore di volere ricondurre alla dimensione più classica del lavoro dipendente dell'industria la pluralità di figure e ruoli di cui è composto il mondo del lavoro e del non lavoro nell'Italia e nell'Europa del 2015. Sarebbe un errore davvero marchiano. E tuttavia sì, urge ricordare che la Sinistra deve ripartire anche da questi fondamentali, dimostrando di sapere sfidare il neoliberismo sui terreni nei quali esso ha vinto, trascinando con sé il senso comune e l'orientamento politico e ideologico di gran parte di quello che è stato in questi anni ed è tutt'oggi il centrosinistra europeo.
Vogliamo dire l'indicibile, in tempi come questi? Che ad articolare un'idea di sviluppo e una nuova politica industriale dovrà essere il lavoro, in carne e ossa. Con la forza dell'autonomia del proprio punto di vista. Gli ingegneri elettronici e gli operai, le partite iva e gli artigiani, gli insegnanti e i ricercatori. Attraverso la politica, attraverso la Sinistra. Che o torna ad essere questo o non è, perde la propria ragione sociale, il proprio senso, la propria essenza.

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